SAN PIETRO INFINE - Civili uccisi per errore nel dicembre 1943.
Data: 31-12-2001Autore: MAURIZIO ZAMBARDICategorie: La tragedia dei civiliTag: #dicembre 1943, civili, san-pietro-infine

SAN PIETRO INFINE
Civili uccisi per errore nel dicembre 1943.

di Maurizio Zambardi

Dall'alto del Comando Alleato si stabilì che la liberazione dell'Italia doveva partire dalla Sicilia e, attraverso una serie di "sbarchi" e avanzate per via terra, l'esercito era ormai giunto alle porte della Valle del Liri. Superato il massiccio delle Mainarde e dei monti Aurunci, la conquista di Roma era ormai cosa fatta. Questo lo sapevano molto bene anche i tedeschi e divenne quindi per loro di fondamentale importanza creare uno sbarramento strategico proprio in questi luoghi. L'ordine venne direttamente dal Terzo Reich.

Il piccolo, pacifico e soleggiato paese di San Pietro Infine divenne, giocoforza, insieme a Montelungo, la roccaforte con cui, a tutti i costi, impegnando forze e capacità tattiche, bisognava impedire lo sfondamento di quella linea difensiva chiamata "Rheinard".

Resasi ormai pericolosa la permanenza in paese, molti civili trovarono rifugio in alcune grotte sparse sul territorio, ma, dopo aver capito bene da dove proveniva il pericolo, alcuni ingegnosi sampietresi individuarono nel vallone ovest del paese, il posto piú sicuro dove rifugiarsi. Si misero quindi all'opera e iniziarono a traforare il lato del vallone, proprio al di sotto del paese, creando una serie di grotte tra loro intercomunicanti. I civili che non erano stati deportati dai tedeschi o sfollati nei paesi vicini, dove la guerra era stata meno cruenta, rimasero in queste grotte per diversi mesi, anche dopo la guerra, poiché le loro case erano state completamente rase al suolo dalle cannonate. Infatti a partire dalla mattina dell'otto dicembre del '43, il paese di San Pietro Infine subì una serie di attacchi da parte degli alleati e il 17 dicembre le prime pattuglie americane fecero i primi passi su ciò che rimaneva del paese.

Grande fu la sorpresa e lo stupore quando videro uscire dalle grotte scavate nella terra, più di cinquecento persone, che somigliavano più a cadaveri viventi che a esseri umani. Gli Alleati non erano infatti a conoscenza che sotto il loro incessante fuoco d'artiglieria c'erano i civili, quasi tutti vecchi, donne e bambini.

La permanenza nei rifugi si faceva sempre più lunga. Le impellenze della sopravvivenza sempre più pressanti. Che ci fosse poco da mangiare o addirittura niente si accettava con rassegnazione, ma la mancanza d'acqua, non tanto per lavarsi, quanto per non morire disidratati, era divenuto il problema primario. Il paese era sprovvisto di acquedotto comunale e gli abitanti provvedevano al fabbisogno idrico giornaliero recandosi all'unica fonte esistente - di acqua sorgiva - situata a un centinaio di metri più a valle del paese e a cui ci si accedeva da uno stretto viottolo formato da ampi gradini selciati in pietra locale, così come erano realizzate tutte le altre stradine del paese. Una sorta di cordone ombelicale che collegava la Madre Fonte ai figli di San Pietro (il paese). Sparse per il paese esistevano anche pochissime cisterne private, dove veniva raccolta l'acqua piovana, quest'acqua però veniva utilizzata per gli usi domestici, per abbeverare gli animali e per innaffiare eventuali piante esistenti nei cortili delle case. Ma durante la guerra anche l'acqua delle cisterne, in mancanza d'altro, era utilizzata per dissetarsi.

La fonte, chiamata "Maria SS. dell'Acqua", era ormai divenuta irraggiungibile. I tedeschi la tenevano sotto stretto controllo. Due madri Mariantonia Mastantuono e Angela Ferri erano morte poiché mitragliate dai tedeschi proprio nei pressi della Fonte. Lo scopo era quello di costringere i civili ad abbandonare il paese, anche perché erano di intralcio e in un certo senso pericolosi per le loro operazioni militari. I tedeschi avevano reso inutilizzabili anche le cisterne, gettandovi dentro carcasse di animali. I rifugiati erano disperati. Non sapevano più cosa fare. Di notte i più impavidi, spinti dall'istinto di sopravvivenza, sgattaiolavano tra i vicoli del paese alla ricerca di qualcosa di commestibile sfuggito ai tedeschi o di qualche cisterna rimasta intatta. Dopo non pochi tentativi falliti, finalmente venne trovata una cisterna che conteneva acqua potabile, anche se non del tutto. La notizia rimbalzò di bocca in bocca e in breve tempo quasi tutti i rifugiati ne vennero a conoscenza: finalmente era possibile bere.

L'impresa però era più difficile di quanto non sembrasse, sia perché la gente che voleva attingere acqua era tanta, sia perché, soprattutto, la cisterna era situata dalla parte opposta del paese, lungo Via San Leonardo, unica strada che consentiva l'accesso carrabile a Piazza Municipio, quindi bisognava percorrere allo scoperto un bel tratto di strada. Ciò non scoraggiò coloro che vedendo i propri figli o i propri cari al limite della sopravvivenza, decisero di tentare la sorte e per due giorni attinsero acqua. Alle prime ore del terzo giorno - il 14 dicembre - presi in fretta e furia contenitori di vario genere, molti civili corsero ancora alla cisterna, approfittando anche di una momentanea assenza dei soldati tedeschi nella zona. In meno che non si dica un ammasso di persone circondò il muretto di recinzione della cisterna. Ognuno aveva il proprio contenitore dove raccogliere e trasportare l'acqua, ma il secchio, con la relativa catenella per attingere acqua, era uno solo. Il tempo passava e la calca di persone cresceva sempre di più. Due fratelli, Eduardo e Antonio Zambardi, il primo di 14 anni il secondo di 12 vollero sostituire la loro madre nel pericoloso compito. La rassicurarono dicendole di non temere per la loro sorte perché sarebbero stati così accorti e veloci, tanto da non farsi sorprendere dai tedeschi. Antonio poi aveva dato prova della sua scaltrezza qualche giorno prima, infatti era sfuggito alla cattura dei militari tedeschi: si era sfilato di dosso l'abbondante cappotto del padre, con il quale i tedeschi lo trattenevano ed era sgusciato tra i meandri dei vicoli e vicoletti del paese, che conosceva molto bene. I tedeschi erano rimasti con il cappotto in mano e a bocca aperta per la rapidità dell'azione, ma considerata la giovanissima età del ragazzo avevano rinunciato all'inseguimento e commentarono l'accaduto con risate e parole di derisione verso il militare rimasto beffato.

I due fratelli arrivarono molto presto alla cisterna, ma vani furono i tentativi di intrufolarsi tra le persone per guadagnare qualche posto. E mentre Eduardo si mise in attesa del loro turno, Antonio, che aveva capito il motivo di quell'ingorgo e che quella mattina si sentiva particolarmente agitato e ansioso, si allontanò, cercò in giro e dopo poco lo si vide arrivare con un secchio di alluminio, un po' malandato ma efficiente, ed una corda di ferro, tolta da una recinzione. In questo modo poteva evitare la fila, visto che non aveva più bisogno, per attingere l'acqua, dell'unico secchio con catenella del pozzo. Molti allora, apprezzarono l'intuito e gli fecero spazio, prenotando però il recipiente alternativo per sé, appena Antonio avesse finito. Al frastuono generale delle persone accalcate si sovrappose quello della proprietaria della cisterna, la quale temeva che l'acqua della cisterna si esaurisse, visto che era il terzo giorno che vi attingevano acqua, e aveva paura che tutta quella gente avrebbe attirato i soldati tedeschi, i quali avrebbero certamente inquinato anche l'unica cisterna sfuggita.

I suoi timori erano giusti, ma il pericolo non arrivò dai tedeschi ma dagli alleati.

Come poi riferirono successivamente i soldati americani, il luccichio delle bottiglie e dei fiaschi di vetro trasportati sul capo dalle persone, fu interpretato come il trasporto di munizioni dei tedeschi. Le vedette americane, appostate sui monti di fronte dettero le coordinate e dopo breve tempo si sentirono i primi colpi di cannone echeggiare a monte del paese. Vi fu un fuggi fuggi generale. Molti temendo di rimanere colpiti dai proiettili preferirono rifugiarsi in una grotta che stava a due passi dalla cisterna, sperando così di farla franca. Questa grotta, che non era molto grande, aveva nella parte antistante un ambiente realizzato in muratura che fungeva da deposito e una caverna scavata nel terreno che passava proprio sotto Via San Leonardo. Vi era una porta d'ingresso, che benché in legno, venne chiusa. Qualcuno cercò addirittura di proteggere l'entrata da eventuali schegge causate dallo scoppio di proiettili, creando una piccolo muro a secco a mo' di barricata. Al di sopra della porta vi era una piccola apertura che dava aria e luce all'interno. Altre persone che non trovarono posto nel rifugio d'emergenza scapparono in varie direzioni, ognuno cercava di raggiungere i propri familiari.

Antonio e Eduardo Zambardi, che intanto erano riusciti a prendere la loro razione d'acqua, dopo aver equilibrato il loro fardello d'acqua, corsero più che poterono verso il loro rifugio, una grotta posta lungo via Vicinato Lungo. Nei pressi della chiesetta di San Sebastiano, superarono alcune donne che altrettanto di corsa correvano verso i propri nascondigli, una di queste era Rosa Fuoco, una signora molto alta la quale era riuscita anche lei a prelevare l'acqua e la portava in un brocca che teneva stretta tra le braccia. Il suo passo benché veloce appariva rallentato rispetto a quello dei due ragazzi, anche perché sia l'età sia la paura, le frenavano i movimenti. Antonio ed Eduardo raggiunsero e superarono il portone d'ingresso al paese, quello che dava proprio sulla piazza del Municipio, quando sentirono un colpo sordo, cupo, proprio dietro di loro. Si voltarono contemporaneamente e videro una nuvola di fumo, mentre non videro più la donna. Rosa era stata colpita in pieno da un fumogeno che l'aveva disintegrata. Il fumogeno aveva il compito di segnalare il luogo d'impatto ai militari addetti ai cannoni così da calibrare i successivi tiri. Del corpo di Rosa non rimasero a terra che poveri resti carbonizzati.

Quelle impressionanti immagini fecero abbandonare l'idea ai due fratelli di fermarsi un po' per riprendere fiato e come se una nuova energia si fosse impossessata di loro ripresero a correre senza mai fermasi fino al loro rifugio. Intanto quelli che si erano rifugiati nella grotta ancora non riuscivano a capire chi sparasse e per quale motivo, non credevano possibile che gli Alleati facessero fuoco su di loro, intanto decisero di aspettare lì almeno fino a quando facesse notte, così approfittando del buio sarebbero tornati ognuno al proprio rifugio. Vi erano in tutto una ventina di persone tra uomini, donne e ragazze. Tra questi vi era anche Dolorosa Conte di 18 anni, che era tornata al paese da qualche giorno, era novizia e aveva avuto il permesso dalla Madre Superiora di raggiungere i propri cari al paese. Quella mattina volle andare lei a prendere l'acqua, per non far uscire la madre. Dolorosa pensò che nell'attesa potevano pregare e così fecero, iniziò a recitare il rosario e appresso a lei si misero a pregare anche gli altri. Intanto i proiettili scoppiavano sempre più vicini, e la paura dei rifugiati era diventata tanta.

Purtroppo la sfortuna volle che un proiettile passò proprio attraverso l'apertura posta al di sopra della porta e andò a scoppiare nella parete di fondo della grotta. Quelli che si erano rintanati nella parte più interna della cavità e che quindi si sentivano più al sicuro di quelli prossimi all'uscita, furono massacrati dalle schegge del proiettile e anche dallo spostamento d'aria. Il proiettile venne poi ritrovato scoppiato solo in parte. Coloro che invece si trovavano prossimi all'uscita, rimasero solo storditi o feriti dal botto e dai detriti di terra e vetro. Dopo quell'infernale scoppio i pochi sopravvissuti provarono un silenzio tombale, le loro orecchie non percepivano più nessun tipo di suono, neanche gli occhi vedevano niente, il fumo e la polvere invadevano completamente la cavità. Non sapevano più se erano vivi o morti. Dopo qualche ora il fumo cominciò a diradare, iniziarono allora ad emergere alla luce i primi corpi. Cominciarono a sentire i primi lamenti dei feriti. Antonietta Verducci si salvò per puro caso. Infatti si trovava in fondo alla caverna con la propria madre, ma sentendo che le mancava il respiro volle avvicinarsi alla porta e quindi rimase lì, le fece da scudo il corpo di Dolorosa. Quando rinvenne dallo svenimento dovuto allo scoppio, vide attorno a sé uno scenario tremendo, vi erano solo corpi dilaniati. Rimase atterrita, chiamò la madre ma non riusciva a sentire niente e scappò via terrorizzata.

Quando fu fuori della caverna non riusciva più ad orientarsi, andava da una parte o dall'altra senza capire. Anche Luca Cenci, una donna, si salvò ma rimase per diversi giorni sotto shock, non riuscì a parlare per molto tempo. Si era ritrovato su di sé il corpo di Dolorosa Conte e non riusciva a scacciare via dalla sua mente l'immagine della sua amica dilaniata dallo scoppio. In un certo modo le aveva fatto da scudo. Uscì viva dalle maceria anche Antonietta Fuoco, però era rimasta ferita ad una gamba, non riuscendo a camminare fece uno sforzo tremendo e riuscì a trovare rifugio provvisorio presso il palazzo Brunetti. La mancanza di medicinali però fece andare la gamba in cancrena e a nulla valse, qualche giorno dopo, il trasporto presso l'ospedale di Maddaloni, ad opera degli Alleati. Morì poco dopo.

Un'altra giovane donna, Lucia Vecchiarino, che era rimasta svenuta per lo scoppio, appena riprese i sensi intravide tra la polvere Maddalena Colella, la propria compagna, rannicchiata su sé stessa, sembrava addormentata. Lucia era ricoperta di polvere, aveva la bocca piena di terra e si sentiva un forte sapore amaro in gola, sembrava non riuscisse a muoversi poi però fece uno sforzo e si alzò barcollando. Scosse la compagna e a gran voce le impose di alzarsi e di scappare via. Non si era ancora resa conto che il corpo della sua amica l'aveva protetta. Poi capì. Cercò più verso l'interno e trovò il corpo dilaniato di Dolorosa Conte. A quella vista, non riuscì più a trattenere le proprie gambe, si mise a correre, ma i suoi piedi scivolavano nelle scarpe, si piegò a guardare e vide che le sue scarpe erano piene di sangue. Non capiva se era sangue suo o di altre persone, poiché la polvere mista al sangue aveva creato una poltiglia che mascherava l'eventuale ferita e poi non sentiva dolore. Sapeva però che ce la faceva a correre e allora buttò le scarpe e scappò via scalza. Corse più che poté verso il rifugio dove erano i propri familiari. Passò nel vallone Est del paese, quello che fiancheggiava la Chiesa Madre di San Michele Arcangelo, intanto il fuoco dei cannoni non cessava, lei era sotto shock, la paura e il panico le facevano mancare il respiro. Si arrampicò con mani e piedi su per il vallone, scorse una grotta, non ricordava di averla mai vista, però decise di fermarsi lì per riprendere fiato. Appena entrò, il contrasto tra la luce esterna e il buio interno non le permise di vedere, ma non appena gli occhi si abituarono all'oscurità vide molti materassi a terra e una persona distesa sopra. Si spaventò e cercò di scappare via, ma una voce la bloccò. Era un suo compaesano: Serafino Masella che l'aveva riconosciuta, Anche Serafino si trovava nel rifugio dove era scoppiato il proiettile. Quando anche Lucia riconobbe l'amico lo esortò a seguirla e a scappare via da lì, ma si rese subito conto che Serafino non poteva muoversi perché anche lui era stato ferito nella grotta. Questi chiese alla giovane donna di aiutarlo, ma alla vista di altro sangue e della gamba dell'uomo maciullata, si accentuò il panico della donna che fuggì atterrita, sapeva che comunque da sola non poteva aiutarlo. Si arrampicò ancora per la scarpata e raggiunse la grotta della Chiusella dove era rintanata la sua famiglia.

L'entrata della grotta era mascherata da rami di olivo secchi, ma lei lo sapeva, era un camuffamento per non farsi scovare dai tedeschi. Iniziò a togliere i rami e chiamò la madre. Dall'interno i suoi familiari riconobbero la voce di Lucia e si affrettarono anche loro a togliere i rami. Dopo poco finalmente Lucia si poté buttare tra le braccia dei suoi genitori e tutti piansero a dirotto. Quando arrivò al rifugio erano le tre di pomeriggio, erano passate sette o otto ore da quando era uscita per prendere l'acqua. Erano state però le ore più brutte della sua vita.

Oltre a Lucia Vecchiarino, Serafino Masella e Luca Cenci, uscirono vivi anche Italia Bocchino e Regina Gallaccio. Italia Bocchino, di 15 anni, rimase ferita alla testa e al naso dalle schegge degli stessi contenitori di vetro utilizzati per l'acqua ed esplosi per lo spostamento d'aria. La ragazza appena rinvenne si ritrovò il volto e la testa piena di sangue. Parte del cuoio capelluto era saltato via e parte del cranio era visibile, ma in un certo senso fu fortunata perché nessuna scheggia aveva perforato la scatola cranica, anche se una scaglia d'osso saltò via. Italia, chiamò le sue amiche, ma nessuno rispose allora scappò via da lì nonostante l'incessante pioggia di proiettili. Si rifugiò per prendere fiato nell'atrio del Palazzo Brunetti e qui trovò Antonio Colella, che cercò di portarle soccorso, ma si rese conto che poco poteva fare se non mettergli un panno sulla ferita, le disse poi di sperare e di pregare di salvarsi. Spaventata allora dalla cruda realtà scappò di nuovo, passò accanto ai resti di Rosa Fuoco e corse più che poté. Incontrò nei pressi del Municipio il padre che era insieme a Carmine Colella. Avevano sentito il bombardamento ed entrambi stavano andando incontro ai propri familiari. Antonio Bocchino trovò viva la propria figlia Italia, benché ferita, ma Carmine ancora non sapeva niente della moglie Filomena Matera. Chiese notizia a Italia, la quale non riuscì a dirgli che era morta e si limitò a dire che non lo sapeva e comunque conveniva scappare via, perché forse la moglie si era messa già in salvo.

Morirono quel giorno molte persone, solo per alcuni di essi fu possibile il riconoscimento:

Questo episodio è tratto dalle testimonianze dirette delle persone sopravvissute alla guerra, uno dei tanti drammatici episodi che ha patito il popolo di San Pietro Infine. A questi morti se ne possono aggiungere altri 13, fucilati sempre nel mese di dicembre, dai tedeschi per rappresaglia, in una grotta in località "le Cerrete", e poi ancora altri casi per un totale di circa 135 persone, tutte morte a causa della Seconda Guerra Mondiale. Una percentuale assai alta, se si considera che il paese contava poco più di mille abitanti.

Ciò che rimane del paese di San Pietro Infine, quello distrutto dalla guerra, è ancora visibile, mai più è stata possibile la ricostruzione sulle sue macerie. Eppure tutto questo non è sufficiente per le Autorità Italiane per assegnare al paese la Medaglia D'Oro al Valor Civile. Dopo un'incessante martellamento del Sindaco e della Amministrazione Comunale nel mese di luglio del 2000 è stata conferita solo la medaglia D'Argento al merito Civile. Mentre i paesi vicini hanno avuto la loro, senz'altro meritata, Medaglia d'Oro al valor Civile o Militare, il paese di San Pietro Infine, ingiustamente, ancora non l'ha avuta. Che altro doveva accadere o quante altre persone sarebbero dovute morire perché si conferisse a un paese cosi martoriato e ai suoi cittadini, privati degli affetti più cari, il giusto riconoscimento?

Nel caso in cui il testo derivi sempicemente dall'esposizione, con o senza traduzione, di documenti/memorie al solo fine di una migliore e più completa fruizione, la definizione Autore si leggerà A cura di.