LA STORIA DI UN PARACADUTISTA
Data: 12-04-2006Autore: VARIListe: ARTICLES IN ENGLISHCategorie: TestimonianzeTag: #febbraio 1944, #marzo 1944, germania, paracadutisti, veterani-reduci

LA STORIA DI UN PARACADUTISTA

di Hans Jurgen Kumberg

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Vorrei fare un breve resoconto della mia vita prima che di diventare un paracadutista in Italia. Sono nato il 9 agosto 1925 a Ventspils, in Lettonia, da genitori tedeschi. Mio padre era un professore nel liceo tedesco. I tedeschi arrivarono in questa parte dell’est Europa sin dal 1197, quando i crociati non erano riusciti a conquistare la terra santa, seguirono il Papa nel consiglio di cristianizzare questa parte del mondo.
Nel 1939, dopo l’inizio della II guerra mondiale con l’occupazione della Polonia, i tedeschi della Lettonia, che all’incirca erano 90.000, ebbero la possibilità di rimpatriare in Germania.

Poiché la Russia stava per occupare gli Stati Baltici (l'Estonia, la Lettonia e la Lituania) e avendo terrore dei comunisti dopo la rivoluzione del 1918, circa il 90% dei residenti tedeschi scelsero la loro patria! Vennero quindi portati nella zona della Polonia denominata "il corridoio polacco" che fino alla conclusione della prima guerra mondiale era appartenuta alla Germania.
Dando alla Polonia accesso al Mar Baltico, questo corridoio ha separato la provincia del Prussia orientale dal resto della Germania, rendendola un'isola. I miei genitori andarono nella città di Posen (Poznan) dove nel mese di giugno del 1943 ho finito la scuola superiore. Poiché dovevo fare parte dell'esercito a quel tempo, ho ricevuto il mio foglio matricolare senza poter finire l'ultimo anno. Dopo il ritorno nel 1947, ho dovuto andare di nuovo alla scuola superiore per un altro anno, perché dopo la guerra la Germania non ha riconosciuto la regola precedente.

All'età di 17 anni, ancora studente, mi sono offerto volontario per diventare un Paracadutista, dopo aver visto il film su come l'isola di Creta era stata da loro conquistata. Ma in primo luogo ho dovuto finire l’Arbeitsdienst (la costrizione). Ogni ragazzo e ragazza, dopo la fine della scuola, dovevano servire per un periodo di un anno. I ragazzi dovevano imparare come scavare le fosse, le strade, tutti i generi di lavoro manuale; mentre le ragazze lavoravano nelle cucine delle aziende agricole o in strutture per anziani. Inutile dire che il corso fu tagliato per la nostra chiamata alle armi. A 18 anni venimmo avviati nell’esercito.

La nostra unità era dislocata nella provincia dell'Holstein, nord di Amburgo; dopo una settimana, le incursioni aeree notturne avevano distrutto una grande parte della città. Era il mese di luglio del 1943 e si potevano vedere le fiamme ed il fumo della città bruciare da miglia di distanza. Dopo un breve viaggio in treno abbiamo dovuto marciare più di trenta miglia, prima di arrivare ad Amburgo. Le notti venivano passate nei ripari antiaerei dell’aereoporto e di giorno aiutavamo a sgombrare le strade dai calcinacci.
In agosto 1943 venni inviato per un periodo di addestramento di sei settimane nella Francia del sud, poi ci caricarono su un treno che ha viaggiato lungo il mare oltre Genova sino al litorale adriatico, vicino a Pescara.

Eravamo tutti volontari di età tra i 18 e i 20 anni, mandati a rinforzare l’organico del quarto reggimento della I Divisione Paracadutisti, che aveva sofferto gravi perdite nella difesa di Ortona contro i canadesi,. Arrivati abbiamo occupato le case della città e ci siamo preparati alla battaglia.
Le giovani reclute venivano mandate subito nelle prime linee e venivano messe a scavare le tane di volpe (buche scavate nel terreno, destinate ad accoglire due persone; ndr) sotto gli olivi. Dopo Natale abbiamo raggiunto i nostri camerati nelle prime linee. Un burrone largo 800 metri separava le nostre posizioni da quelle dei canadesi. Il rilievo era possibile soltanto durante la notte. Così gli uomini rimanevano mediamente 10-12 ore al giorno nelle tane di volpe.
Piovve costantemente per circa 6 settimane tra gennaio e febbraio 1944 e noi passavano tutto il tempo a cacciare l’acqua fuori dalle buche.
Eravamo bagnati e trasandati, anche i canadesi lo erano allo stesso modo.

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Il nostro comando si trovava circa un miglio indietro in una caverna che gli italiani avevano scavato per la loro propria sicurezza. Ma ormai tutti i civili erano fuggiti, da quando le linee difensive erano diventate stazionarie. Vi era fuoco da parte dei mortai e dell'artiglieria. Qui ho sperimentato il primo incontro con la morte. Io ed il mio camerata stavano seduti in una caverna, non lontano dall'entrata, quando un colpo di mortaio esplose a destra davanti l'entrata. Una scheggia della bomba centrò il corpo del mio amico che è morto immediatamente, dopo aver parlato con me per pochi secondi. Ero nello shock totale. Avevo sentito soltanto un breve sibilo prima che il colpo di mortaio esplodesse.
Dal 17 gennaio al 18 febbraio 1944 si svolse la prima battaglia di Cassino e la I Divisione Paracadutisti venne spostata dal calmo settore adriatico, seguendo "la linea Gustav", fino all’importante fronte di Cassino. La nostra Divisione era autonoma ed era formata da quattro Reggimenti, ciascuno con circa 90 ufficiali e 3.250 uomini, un battaglione carri ed un battaglione di anti-carro. Il primo Reggimento aveva sofferto pesanti perdite nella prima battaglia (soltanto 660 uomini erano sopravvissuti). Noi del quarto Reggimento arrivammo a Cassino alla fine di febbraio 1944, organico di circa 1160 uomini.
Venimmo trasportati sui camion e passammo lungo la Statale 6, durante la notte, fin sotto la montagna del Monastero; scesi dovemmo arrampicarci in salita, lungo un burrone (la “gola della morte”; ndr) con tutto l’equipaggiamento sino al versante nord del Monastero.
Questo sentiero veniva utilizzato ogni notte per portare il cibo e le munizioni, oltre all’acqua, per i soldati che si trovavano sulla montagna. Questo tragitto era costantemente bombardato.
Il 15 febbraio il Monastero venne distrutto da più di 500 bombardieri alleati. Le sue rovine erano avvolte da una fitta nebbia provocata dalle granate fumogene. Le posizioni del 1° Reggimento erano a nord, ad una distanza di circa un miglio dal Monastero.

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Il mio plotone si trovava all’interno delle mura di una fattoria distrutta. La nostra mitragliatrice era piazzata a circa 400 piedi a nord di questa casa, su una cresta che i gurkhas ed i loro ufficiali britannici avevano provato a conquistare durante la battaglia. Si erano dovuti arrampicare su una collina ripida coperta da grandi pietre; appena giunti sulla sommità vennero colpiti duramente dal fuoco delle mitragliatrici del 1° Reggimento.
Molti erano morti davanti alle nostre posizioni, io stesso l'ho scoperto. Un giorno uscii dalla postazione di mitragliatrice e strisciai in avanti attraverso la nebbia densa. Dopo circa 100 piedi vidi un ufficiale britannico caduto con molti gurkhas morti intorno lui. Accanto aveva una pistola tedesca (una piccola Mauser); quindi tornai nella postazione, ancora più attento, in quanto avevo sentito qualcuno non lontano.
Le nostre posizioni non dovevano trovarsi a più di 400 piedi di distanza. Non si poteva vedere bene la distanza a causa delle rocce e degli arbusti.

Non c’era molto movimento durante le prime due settimane di marzo intorno al Monastero, tranne che per le salve di artiglieria che esplodevano.
Le notti erano calme ed una volta si sentì un grido; un gurkha aveva tagliato la testa ad un camerata addetto alla guardia, ucciso con il coltello (denominato kukri; ndr).
Nonostante la stanchezza, non riuscivamo a chiudere gli occhi, per la paura che lo stesso potesse capitare a noi.
Un giorno decisi di arrampicarmi fino alle rovine del Monastero. Vidi solo una figura sulla sommità, poi sentii cadere qualcosa di lato alla mia posizione. Era un proiettile che era stato sparato lontano dalla mia posizione e che, dopo aver perso tutta la forza, mi era caduto nelle vicinanze.
Non sapevo da chi fossero occupate le colline li intorno. C’erano indiani, gurkha, un battaglione di "gangster" del Texas, maori e molti altri. Non vidi anima viva nel Monastero.
Ricordo dei sacchetti di farina e dei beni dei civili che erano fuggiti da li prima e dopo il bombardamento.

Il 14 marzo ci dissero che gli alleati progettavano una incursione aerea per distruggere la città di Cassino e che dovevamo muoversi vicino più possibile verso le posizioni nemiche, per evitare di essere colpiti.
Allora il 15 marzo 1944, una mattina piena di sole, sentimmo il rumore dei bombardieri che si avvicinavano. Erano le 8:30 del mattino. Il cielo si riempii di aerei.
Sembravano una moltitudine di oche, un'ondata dopo l'altra scaricavano le loro bombe sulla città. Erano 750, mi è stato detto dopo. Le esplosioni continuarono per tre ore, ma nessuna bomba cadde sulle nostre posizioni intorno al Monastero.
È stupefacente come alcuni Paracadutisti disposti in Cassino fossero sopravvissuti al bombardamento e che potessero respingere gli attacchi dei Neozelandesi.
Circa 3 settimane dopo il bombardamento, il nostro Reggimento venne rinforzato da una brigata di alpengjager (alpini tedeschi; ndr); scesero giù dalla montagna nelle rovine di Cassino, dove tanti dei nostri camerati erano caduti.

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Dalle nostre posizioni a metà strada sui pendii della collina del Monastero, avevamo una bella visuale verso ovest. Il cielo di notte era illuminato dalle esplosioni delle artiglierie navali che martellavano le posizioni tedesche intorno alla testa di ponte di Anzio.
Un giorno, all'inizio di maggio, vedemmo nella valle le colonne dei carri armati alleati che si muovevano lungo l'itinerario della Statale 6 (via Casilina; ndr).
Era l'inizio dell’ultima battaglia ed eravamo in pericolo. Così la notte del 17 maggio, ci giunse l’ordine che ci saremmo ritirati durante la notte. Ci siamo preparati tutto il giorno; stavamo andando a prendere persino le casse vuote delle munizioni. Alle ore 10 della notte, con il favore dell’oscurità, dato il percorso che avremmo dovuto fare, cominciammo ad abbandonare la collina del Monastero, su un percorso stretto, uno dietro l'altro.
Cercammo di fare meno rumore possibile. I Polacchi erano già sulla collina del Monastero. Loro ci chiamavano a gran voce in tedesco, dicendo:

[...] venite di qui, questa è la via migliore.

Tornando indietro col pensiero sono sorpreso di come nessuna pallottola mi avesse colpito. Forse ciò fu dettato anche dal fatto che, con l'oscurità e la vicinanza degli schieramenti, la possibilità di colpire degli amici era elevata.
Lavorammo tutta la notte, trasportando quasi tutta l'apparecchiatura pesante anche se fummo costretti ad abbandonare alcune parti.
Alla mattina, infine, raggiungemmo Pontecorvo dove dovevamo predisporre una nuova linea di resistenza (Linea Senger ndr). Ora nel nord-ovest della valle della collina del Monastero, l'artiglieria cominciava un continuo martellamento.
I primi nemici nei paraggi di questa nuova postazione, li vedemmo muoversi verso noi attraverso i frutteti. Furono sorpresi dalla nostra resistenza e vennero respinti. Ricordo un carro armato che si avvicinava a noi, facendo fuoco, avevamo un'arma anti-carro con una carica adatta a fermare il carro ma il tiratore di un’altra unità sembrava essere sotto shock.
Presi allora io l'arma, la caricai e mirando meglio possibile feci fuoco. Il contraccolpo mi spezzò il polso della mano. Nell'eccitazione del momento neppure ho sentito il dolore. In ogni modo il carro armato smise di sparare, ma due aerei comparvero mitragliando su qualsiasi cosa che si muovesse; e finalmente arrivò il tramonto.

Inizia la nostra costante e continua ritirata, ma sempre in modo ordinato, sino alle posizioni in precedenza preparate. La Luftwaffe era assente ed i nostri carri armati furono ritirati nella notte in altre posizioni, per conservare il combustibile. Non vi era troppa pressione dal nemico, a volte si restava per settimane nelle stesse posizioni. Abbiamo perso molti uomini a causa del fuoco di artiglieria prima di un altro attacco. Oltre al polso rotto, due volte vengo ferito da schegge di artiglieria. Entrambe le volte sono ferito in momenti di relativo riposo.
La prima volta mi ero appena seduto a terra quando un colpo di artiglieria pesante è esploso giusto dietro di me, colpendomi un’orecchio e coprendomi di fango. Una scheggia mi è entrata nella natica destra ed ancora oggi si trova lì. Stavo sanguinando soltanto un pò e poiché dovevamo ritirarci, non avevo tempo di occuparmi di qualcosa di così insignificante. La seconda volta venni ferito più seriamente. Eravamo in una fattoria di campagna, era notte ed avevamo appena mangiato le nostre razioni, consistenti in riso e alcune prugne dolci. Il mio stomaco era pieno di riso. Sono dovuto uscire fuori la fattoria, apro la porta rapidamente ma per un breve momento fu possibile da fuori vedere la luce interna. Appena rientrato dentro e chiusa la porta dietro di me, le bombe di mortaio esplosero proprio davanti alla porta. Una scheggia attraversò la porta di legno ed entrò nel mio stomaco pieno di riso, fortunatamente quello mi ha salvato la vita.
A quel tempo una ferita dello stomaco significava solitamente la morte, poiché non avevamo la penicillina ed il liquido che entra nella cavità dello stomaco causava l'infiammazione che non poteva essere evitata. Mi hanno trasportato in barella sotto il fuoco di artiglieria pesante, fino all'ambulanza distante oltre un miglio. Passarono tre ore prima di giungere all’ospedale da campo. Qui mi hanno immediatamente operato e sono stato ricoverato per dieci giorni. Il medico mi spiegò che trovandosi la ferita sulla mia parte posteriore aveva impedito la fuoriuscita di liquidi, questo ed il riso mi avevano salvato la vita.

Di qui sono stato inviato per 10 giorni al campo di riposo della divisione, sulle Dolomiti (S. Martino di Castrozza); qui ho potuto sciare e divertirmi. Ma prima di questo avevo già scelto di fare un corso di 10 giorni alla scuola in Gardelegen vicino a Berlino, dove con 5 salti potevo ottenere il mio brevetto da Paracadutista.
Dopo andai a casa per una licenza di 14 giorni in Posen. Fui rimandato alla mia unità in settembre 1944, incontrai molte reclute nuove che non conoscevo. La metà dei miei camerati era stata uccisa nel combattimento. Ma ho imparato che nella vita può succedere.
Nel marzo del 1945 fui chiamato al comando di Battaglione dove mi fu comunicato il trasferimento alla scuola divisionale per ufficiali. Supplicai di poter rimanere nella mia unità, senza risultato. Dovevo semplicemente andare.
Ciò accadde soltanto due mesi prima della resa in Italia. La scuola era al piede delle alpi nell'Italia del Nord. Avevamo ogni giorno 4-5 lezioni come strategia, ecc.. Infine nel mese di aprile, venne sfondata l’ultima linea difensiva sul fiume Po; i corsi furono sospesi ed andammo verso sud, cercando di trovare le nostre unità.

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Circa 30 di noi raggiunsero la valle di Po, marciando di notte e riposando di giorno nelle fattorie, cercando di non rivelare la nostra presenza. Una mattina la nostra fattoria venne circondata dai soldati inglesi; ci arrendemmo pacificamente senza combattere.

Prima di uscire, strappai la pagina che identificava la mia unità sul Soldbuch.
Legai i pantaloni alle caviglie in modo da nascondere dentro la mia croce di ferro e la pistola Mauser che avevo preso dall’ufficiale morto.
Il soldato che mi perquisì non trovò la mia pistola, ma prese la mia macchina fotografica, che mi aveva servito in tutta la guerra. Questa pistola rimase con me per due anni quando ero prigioniero di guerra, poi l’ho sepolta sotto la tenda prima di venire liberato nel giugno 1947.

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Traduzione di Roberto Molle.

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