I BOMBARDAMENTI DI MONTECASSINO E CASSINO IN UNA TESTIMONIANZA DEL MARZO 1944
Data: 15/05/2008Autore: PIERRE ICHACCategorie: TestimonianzeTag: #febbraio 1944, #marzo 1944, bombing, cassino, montecassino-abbazia

I BOMBARDAMENTI DI MONTECASSINO E CASSINO IN UNA TESTIMONIANZA DEL MARZO 1944

E’ un vero peccato che il libro di Pierre Ichac, “Nous marchions vers la France”, pubblicato nel 1954, non sia mai stato tradotto in lingua italiana. [1]

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L’autore era un giornalista, scrittore e fotografo già molto conosciuto nel 1944. Nel 1942 era fuggito in Nordafrica, dove aveva lavorato per diversi giornali di Algeri e quindi per un’agenzia, seguendo poi le truppe francesi in Tunisia, in Italia ed in Francia.
I suoi servizi sul fronte di Cassino sono un esempio di “giornalismo militante”, perché Ichac non si lasciava certo sfuggire le occasioni per seguire i soldati in prima linea, cogliendone confidenze e stati d’animo, così come amava descrivere la vita di tutti i giorni nelle immediate retrovie, senza peraltro esitare a carpire una notizia presso questo o quel comando, francese o alleato che fosse.

Quella che riportiamo è un’intervista a dei civili italiani, testimoni diretti del bombardamento dell’Abbazia del 15 febbraio 1944 e di quello della città di Cassino del 15 marzo 1944. Quando Ichac seppe della presenza di questo gruppo familiare a Venafro, non ebbe un attimo di esitazione ed andò a trovarli pochi giorni dopo la totale distruzione dell’abitato di Cassino.
Fu l’autore di uno “scoop”, un bel colpo per un giornalista.
Ben pochi dei civili italiani intrappolati nell’Abbazia erano riusciti a varcare le linee alleate ed a testimoniare dell’assenza di soldati tedeschi nel Monastero...
In un certo senso per quell’incontro Ichac era stato anche “fortunato”...

Pochi giorni prima era riuscito ad ottenere il permesso di visitare il reparto francese che presidiava Monte Castellone e così il 17 marzo, di primo mattino, era partito da Pastinelle, con l’autista della jeep, un tipo tranquillo e pacifico, ed un sottotenente di collegamento fra il comando del generale Juin e quello della 4a divisione indiana, un suo amico grazie al quale aveva ottenuto l’autorizzazione.
Attraversare la Valle del Rapido era stata un’avventura, tra scoppi di granate, strade sconvolte, veicoli distrutti ed un soldato inglese ucciso davanti ai loro occhi da una sola, piccola scheggia in fronte.
Arrivati sani e salvi a Caira, avevano lasciato l’auto e proseguito a piedi per un sentiero a tratti molto ripido, fino a giungere al comando della 2a compagnia del I battaglione del 4° reggimento Tirailleurs tunisini, quelli del Belvedere.
Là, il giovane tenente che comandava il reparto aveva proposto di fare un giro, “per vedere il paesaggio”.
Una cosa da matti, persino per Ichac che conosceva bene la zona. Infatti, appena giunti sulla cresta, i tedeschi dimostrarono di averli avvistati con l’invio di due colpi di mortaio, a qualche decina di metri; poi altri due, più vicini e poi altri due...
Non rimaneva che correre indietro, tra il fumo degli scoppi, cadendo e rotolando nella discesa, fra rocce e cespugli.
Ichac sentì un gran dolore ad una caviglia, ma ritornò a piedi fino alla jeep.
Arrivati a destinazione, finalmente nella calma della notte, chiese all’autista:

“Ti hanno ricevuto bene i tunisini al parcheggio? Hai avuto qualche noia, delle granate? E’ andato tutto bene?”
“Tutto benissimo, signor Ichac... I camerati mi hanno offerto il caffè, abbiamo parlato, eravamo tranquilli... Ma, sulla montagna, che cosa non è caduto! E poi c’è stato un momento che era proprio buffo, signor Ichac. Non so se l’avete visto? Le granate cadevano verso la cima e c’erano quattro tipi che si sono trovati sotto e correvano, correvano...”
“Pezzo d’idiota, gridai, ma ero io!”

Nella notte la caviglia si gonfiò enormemente e fu così che Ichac venne portato a Venafro, soccorso e bendato all’ospedale militare, e ricoverato nei locali che servivano ai giornalisti accreditati al comando francese.

Inizia il racconto del giornalista:

Due giorni dopo, bestemmiando, barcollando e zoppicando, mi trascinavo malgrado tutto nelle strade mal pavimentate di Venafro, fino alla parte alta della città, e bussavo alla porta di un vecchio e solenne convento. Vi avevo un appuntamento con una folla malandata e sporca di donne dalle scarpe bucate, di bambini con i piedi nudi, coperti da vecchi vestiti da adulti, di uomini in maniche di camicia. Una sola macchia di colore – il grigioverde di qualche resto di uniforme italiana – aggravava ancora di più l’atmosfera disperata di questo gruppo umano. In questa folla di civili rifugiati o evacuati dalla zona di combattimento, una ventina venivano direttamente da Cassino.
Era povera gente, attaccata alla loro città. Piuttosto che lasciarla, si erano prima rifugiati a gennaio sulla vetta di Montecassino, nella cinta sacra dell’abbazia. Ma, il 15 febbraio 1944, avevano visto le mura crollare sulle loro teste. Allora, ostinatamente fedeli al loro territorio, erano ridiscesi nella città. Per un lungo mese, si erano ritrovati prigionieri delle falde della montagna o delle case, chiusi nel cuore delle battaglie più infernali di questa guerra. Le bombe del 15 marzo erano piovute, rovinando definitivamente Cassino. Attorno ad essi, tutto era stato distrutto, tutti erano morti. Magri, stracciati, polverosi, rassegnati, soli sopravvissuti del cataclisma, questi testimoni sembravano tornare dalla morte stessa.
Erano radunati attorno a me – vecchi contadini, giovani soldati, una donna ferita, vecchie, una bambina, un giovane scolaro...
Dapprima spaventati, poi messi in confidenza e discutendo fra di loro con gesti e scoppi di voce, mi hanno a poco a poco aperto una pagina sconosciuta della strana storia di questa guerra: la battaglia di Cassino vista da dietro le quinte. [2]

Uno degli uomini comincia:

"Eravamo 24.000 abitanti a Cassino. Dopo l’Armistizio con gli Alleati, i Tedeschi hanno portato via quasi tutto verso il nord. [3]
Ma noi, con un migliaio di altri, forse di più, gli siamo sfuggiti rifugiandoci a Montecassino, nel monastero. Altri sono rimasti nascosti nelle case della città. Quanti? Non lo so... Al monastero, ci credevamo sicuri. I monaci ci avevano sistemati un po’ dappertutto, con quello che avevamo potuto portare...
Io avevo un paio di vacche, fa il più vecchio... Madonna! Quando scappammo, le ho lasciate...
La giovane donna con la gamba fasciata esce un istante. Tornata, posa sulla tavola, accanto ad un pezzo di pane giallo e granuloso, un piccolo macinino da caffè – un giocattolo. Per sei mesi, è stato il solo arnese per macinare della famiglia."

L’uomo riprende:

"Allora, è venuto il bombardamento del monastero. Nessuno di noi credeva che sarebbe stato possibile. Da tre mesi, si era stabilita a Montecassino una zona neutra, fino a 300 metri dalle mura e, da qualche giorno, tre soldati tedeschi facevano la guardia al portone. Il solo tedesco che entrava nel monastero era un medico che curava i nostri malati e i nostri feriti. Veniva un giorno si e un giorno no... Ma fuori, vicino alle mura, c’erano tre cannoni tedeschi che tiravano e cambiavano posto dopo ogni tiro... Sono stati distrutti qualche giorno prima del 15 febbraio da un aereo. Non restava che il quarto cannone, nascosto in una grotta.
Prima c’erano stati, il 14 febbraio, alla vigilia, dei volantini degli Alleati, che ci ordinavano di lasciare il monastero. In fretta, ne abbiamo portati all’Abate. Sarebbe stato un disastro! Tre civili con una bandiera bianca hanno girato nel monastero, ma non hanno trovato i Tedeschi. Quando hanno cercato di uscire, sono stati ricevuti a colpi di fucile e sono rientrati con la loro bandiera… Alla fine, sono arrivati degli ordini di un ufficiale tedesco. Ha detto all’Abate: “Non abbiate paura e che nessuno se ne vada: sono solo parole, nur Propaganda! Ma non accendete dei fuochi, per evitare di segnalare la vostra presenza”.
Però noi avevamo paura e pensammo di andarcene al mattino del 15 febbraio, quando le prime bombe sono cadute. Le mura crollavano, la gente cercava di salvarsi in tutte le direzioni: è così che molti sono stati uccisi.
Certamente 300 o 400 morti. Una parte della gente aveva cercato rifugio nella falegnameria, sotto la chiesa. Ma la chiesa non ha resistito alle bombe e sono stati schiacciati. Il nostro gruppo si era riparato nella conigliera, che è scavata nella roccia...
Noi giovani eravamo nascosti nel forno!
Solo nel mezzo del bombardamento i monaci hanno aperto alla folla il riparo più sicuro: le camere di San Benedetto, le celle di San Benedetto, che sono vicino all’entrata; i monaci avevano paura perché erano piene di oggetti preziosi.
Dopo la prima ondata, credevamo che l’Abate fosse morto, continua il giovane con il cappotto militare. Io ho aiutato a salvarlo: era rimasto chiuso da una bomba nel suo alloggio – lo si chiama il cabinetto. Poi, l’Abate è uscito nel chiostro e ha dato la sua benedizione.
E le bombe hanno ricominciato. Mentre molti erano uccisi tentando di scappare, noi siamo rimasti nel nostro riparo fino all’indomani. Alle 5 del mattino siamo scesi da Montecassino verso la città."

Chiedo: Era rimasta molta gente in Cassino?

"Molte gente! Molte gente!... Alcuni non avevano mai lasciato. Vivevano nelle loro case, rifugiandosi nelle cantine durante i bombardamenti. [4] Altri, come noi, erano scappati a Montecassino. C’erano anche degli abitanti di Terelle che i Tedeschi avevano voluto evacuare e che si erano rifugiati a Cassino... Non sappiamo cosa gli è poi successo." [5]

E’ la volta del vecchio brav’uomo dagli occhi miopi, con gli occhiali scheggiati:

"La nostra casa non era nella città, ma più a sud, verso la punta della montagna, al primo chilometro della strada che sale a Montecassino, vicino alla chiesa del Crocefisso, tra il teatro e l’anfiteatro romani. Noi eravamo, noi tutti qui, ventidue abitanti di questo posto a tornarci e ci abbiamo abitato per un mese, fino al 20 marzo, dopo il grande attacco, quando siamo riusciti a rifugiarci dagli Alleati. La casa era intatta. Ma, durante i bombardamenti, la lasciavamo per una delle numerose grotte lì vicino. Il 15 marzo..."

Parlano come di una cosa naturale di questa giornata da fine del mondo.

Del bombardamento non abbiamo visto granché, nascosti nella grotta... Uscivamo solo per pochi istanti per gettare un colpo d’occhio e, all’arrivo degli aerei successivi, ci ributtavamo nella grotta. Il Crocefisso è stato poco bombardato, ma quanti morti in Cassino, migliaia di borghese... [6]
Dio solo lo sa! Essendoci salvati l’altro ieri, non abbiamo incontrato che della gente che viveva in un’altra grotta del Monte, sotto il castello della Rocca... La grotta del Crocefisso ha dodici metri di profondità, e ci si trova abbastanza sicuri. C’erano lì vicino sei tedeschi, con tre mitragliatrici. Ogni cinque minuti tiravano nella direzione di Montecassino...”

Lo interrompo: Sapevate chi c’era lassù, verso la funicolare, dei soldati indiani?

No, i Tedeschi ci chiedevano senza sosta: “Avete visto i soldati inglesi?” Ma noi non ne abbiamo visto neanche uno... . [7] Ad una certa distanza dalla curva un carro armato era nascosto in una grotta, che usciva tutte le notti per tirare dalla strada. Era anche dalla strada, fino alla nostra partenza, che i tedeschi scendevano per difendere Cassino. Ci passavano i loro convogli e per aiutarsi prendevano i civili.
Una notte, dice il giovane dal fazzoletto grigio, mi hanno portato con loro. Sono venuti a svegliarmi nel pieno della notte, un caporale e tre uomini. Bisognava caricare e condurre i loro muli di rifornimento. Il loro deposito era nel vecchio collegio, il seminario che si trova vicino all’anfiteatro, sopra la città. Delle raffiche passavano sopra la mia testa e ho cercato di salvarmi... “Dove va?” e il soldato che mi aveva preso, mi dice: “Come io sono un uomo, anche tu devi essere un uomo.” Un po’ più tardi, essendo rientrato, ho saputo che il soldato era stato ucciso. Ce l’hanno detto gli altri, che venivano da noi a scaldarsi e a fumare.
Allora, noi abbiamo deciso di lasciare tutto. Una granata era caduta sulla casa. Non restava che un piano e la cantina… Siamo partiti in ventidue nella direzione del castello della Rocca (la Rocca Janula n.d.r.). Due volte siamo stati fermati dalle sentinelle. Poi siamo passati senza vedere nessun tedesco. Il primo soldato è stato un inglese nascosto in un buco. Ci ha detto che potevamo passare. Ma più lontano, come siamo arrivati alle linee, un altro ci ha sparato. Mio nipote, che ha sei anni, è stato ferito al ventre. I soldati inglesi l’hanno mandato all’ospedale e si sono presi cura di lui. Ci hanno aiutati a riscaldarci, ci hanno nutriti, curati e siamo arrivati a Venafro...”

Questa testimonianza ha il valore che ha. Oggi è soltanto una delle tante, più o meno credibili, più o meno dettagliate, più o meno fantasiose. Ma i due fatti eccezionali restano la data in cui essa fu raccolta e che più testimoni oculari abbiano dichiarato ad un giornalista del campo alleato che prima del 15 febbraio 1944, giorno del bombardamento, nell’Abbazia non ci fossero soldati tedeschi.
Non per nulla Ichac conclude questo capitolo del suo libro con queste parole:

E’ inutile aggiungere che, quindici giorni dopo, l’articolo dove avevo riportato le dichiarazioni troppo rivelatrici era ancora tenuto al segreto allo stato maggiore alleato di Caserta, sulla scrivania del generale Gruenther. Non sarebbe più tornato indietro.”

Bisogna anche ricordare che nel 1954, a dieci anni dalla distruzione di Montecassino, quando uscì il libro, la polemica su una presunta occupazione tedesca dell’Abbazia era ancora molto vivace e rimbalzava sui giornali di tutto il mondo.

A cura di Alberto Turinetti di Priero.

Note

  1. ^ Pierre Ichac, Nous marchions vers la France, Amiot-Dumont, Paris, 1954, pag. 157 e seguenti.
  2. ^ Nel testo francese “à l’envers du décor”.
  3. ^ Le parole in nero sono in italiano nel testo.
  4. ^ L’allontanamento dei civili da Cassino avvenne in modo graduale. Molti riuscirono ad evitare l’evacuazione forzata programmata dai tedeschi e si nascosero effettivamente in cantine o grotte, specie sotto la Rocca Janula, ma con l’avvicinarsi del fronte dovettero trovar riparo nell’Abbazia o sulle montagne.
  5. ^ Molti abitanti di Terelle evitarono la razzia tedesca e si rifugiarono sulle montagne. Può anche essere vero che qualcuno di essi abbia raggiunto Cassino, ma la notizia appare dubbia, anche perché la città non appariva certamente come un luogo sicuro.
  6. ^ Questa affermazione appare poco credibile. Secondo quanto mi fa osservare il professor Emilio Pistilli, che ringrazio per le osservazioni, i morti civili del 15 marzo 1944 sono quindici, in gran parte colpiti nelle vicinanze della città e non al suo interno.
  7. ^ Il testimone si riferisce all’attacco dei soldati nepalesi ed indiani verso la “Hangman’s Hill”, la Collina dell’Impiccato, come gli alleati chiamavano il Monte Venere.

Nel caso in cui il testo derivi sempicemente dall'esposizione, con o senza traduzione, di documenti/memorie al solo fine di una migliore e più completa fruizione, la definizione Autore si leggerà A cura di.

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