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CASSINO SESSANT'ANNI DOPO....
Data: 29-03-2004Autore: GIANCARLO LADICategorie: CronacheTag: #today, commemorazioni

CASSINO, SESSANT'ANNI DOPO.

Un vecchio adagio recita: “ Lascia stare il can che dorme….” Per sessanta anni ho dormito o meglio sonnecchiato ed avrei continuato a farlo se un insieme di rumori, uno starnazzare di gente, uno strepitar di volgo non m'avesse tirato fuori del letargo d'intellettuale sdegnoso nel quale mi crogiolavo.

Sessanta anni dalla battaglia di Cassino! Dopo sessanta anni di mistificazioni o di silenzio, tutti si sono intesi in diritto di commemorare.
Bèh! Mi sono detto, "vuoi per caso anche tu parlare? Come farti ascoltare, se non hai a disposizione la grancassa dei media che ti orchestri l’accompagnamento. Per chi vuoi parlare? Per i pochi che già sanno o per il popolaccio bue? Come vuoi che apprezzi il popolo la storia, se non è corretta e divulgata dalla scatola televisiva? Agli uni ed agli altri non può interessare il tuo dire."
Poi, piano piano, il Don Chisciotte che è in me ha cominciato ad agitarsi. "Non hai dei figli tu? Non vuoi lasciargli detto nulla? Vuoi che te l’ingannino? Vuoi morire senza portare una pietra al monumento delle idee? Me ne stavo dunque tra me e me in queste ambasce quando, gironzolando per internet, capito in un sito che narra di quei luoghi in quel lontano inverno del 1943–1944. Voci appassionate e competenti o ingenue e disordinate ma sempre interessate e vive saltano fuori del monitor e mi balzano incontro. "Vuoi vedere che qualcosa comincia a muoversi tra i giovani?" Mi dico. "Che la sessantennale ridda di trita demagogia inizia a cedere e dalla neve di una nuova stagione spuntano i crocus della verità storica?" Uno schizzo di adrenalina vivifica la mia attenzione.

Commemoriamo dunque! Chi vogliamo commemorare? Gli Americani? Quali, quelli rigettati al di là del Gari in una ecatombe di sangue o i disinvolti spianatori di città e di abbazie? I Marocchini ed Algerini? Quali, quelli inchiodati su Colle Abate e su Colle Belvedere o gli stupratori di donne e fanciulli in quel di Ausonia, Esperia e dintorni? I Maori, distrutti ed inseguiti tra i binari della ferrovia, nelle forre a nord di Montecassino o i Gurkha ed i Rajputana, assediati e massacrati sulla collina dell’Impiccato, dalla quale furono generosamente lasciati fuggire disarmati, non pochi mascherati da feriti? Commemoriamo i Polacchi, quelli battuti, annientati, fatti marcire su quota 593 e nella valle dell’Albaneta dai Fallschirmjager o quelli sopravvissuti, che la mattina del 18 maggio, timorosi ed increduli, trovando le postazioni nemiche, tanto temute, deserte ed abbandonate non immaginavano che sarebbero stati poi ingannati, traditi e venduti dagli inglesi e dagli americani ai russi?

Ditemelo voi quindi chi vogliamo commemorare. Non vorremo certamente commemorare (cosa mai fatta d’altra parte da nessuno in sessanta anni) i vincitori delle battaglie di Cassino. Quella falange di eroi che per cinque mesi, senza cambio, senza cibo, senza acqua, aggrappata alle rocce del Monte, alle macerie della Città impedì agli eserciti inglesi ed americani, con il loro seguito di neozelandesi, indiani, marocchini e polacchi, ecc., qui "inviati come mandrie a svernar nelle maremme" (direbbe il nostro Giusti), di conquistare la piazzaforte. Non vorremo certamente commemorare quella legione di petti d’acciaio tempestati di croci di ferro e di cavaliere, uni di stirpe, di sangue di lingua, di patria che rese inespugnabile ed invitto il ridotto della civiltà europea alle avanguardie armate di quel mondo tristo, immorale e materialista che oggi ci circonda, domina e sommerge.

Ditemelo voi, di tutti questi, chi vogliamo commemorare, perché commemorare significa rievocare eventi trascorsi, andare con il pensiero a quei giorni e coglierne il messaggio muto con riverente gratitudine per chi, inviandocelo, ha sacrificato giovinezza e vita. Non significa strombazzare vuota retorica davanti ad una calca di gente, spacciare ideologie e profittare della ricorrenza storica per far passare eserciti invasori, anche di bassissimo livello, per dispensatori di libertà o benefattori di quei poveracci di italiani, gente senza terra, gente senza Patria.

Dunque chi commemoriamo? Io non so. Io non posso, no amici miei, lascio le commemorazioni ai quaquaraquà della politica, agli imbonitori delle libertà da comizio, a loro il compito di usare il carnaio di Cassino per mistificazioni ad uso degli sprovveduti.

Quanto a me, presi sotto braccio i miei figli, mi avvierò ancora una volta sopra le balze brulle, per le forre scoscese e, sottovoce per non disturbare gli eroi, parlerò loro del tramonto degli Dei. Dirò pure di quando giovinetto, a quattordici anni, dopo un’asperrima scenata fattami da mio padre per non ricordo quale birichinata, decisi di fuggire da casa e non sapendo dove andare a dormire salii su di un treno fermo a Roma S. Lorenzo. Di quando mi svegliai sullo stesso treno vuoto, fermo ad una stazione e, dal finestrino, vidi uno scenario apocalittico che al mio sguardo, pure già avvezzo a scenari di guerra, parve incredibile. Di quando, sceso dal treno, presi ad andare tra cumuli di macerie e, correndo dell’anno 1945 il mese di Ottobre, il freddo mi faceva soffrire, il vento mi tagliava la faccia. Non c’era nessuno cui chiedere del pane od un ricovero. Come fantasmi uomini vestiti per metà con sporche divise kaki sdrucite, per metà con indumenti civili si aggiravano tra i detriti delle case distrutte, trascinando carrette che caricavano di schegge e rottami vari di ferro. Altri, dotati di bracciale con una croce rossa, irroravano di qualche liquido buche e ruderi; gli stessi che indicandomi un luogo dove, da grandi caldaie, soldati distribuivano cibo ai pochi addetti a quei lavori, permisero di sfamarmi. Cataste di residuati, mine, proiettili, bombe erano riunite negli slarghi tra le macerie. Carcasse di carri armati, camion, cannoni, erano tagliati con la fiamma ossidrica mentre le parti meccaniche erano smontate ed ammucchiate sotto delle tende. Qualche pala militare caricava rari camion di macerie. In questo mondo allucinante mi aggiravo interrogato di quando in quando da qualche militare che mi chiedeva se ero del luogo o che cavolo ci stessi a fare lì. Mi dissero alcuni, durante il pasto della sera, dopo essermi aggregato ad un gruppo che in quel luogo c’era stata una grande battaglia ed essendo stato tutto l’abitato distrutto ora non ci viveva più nessuno. Sulla vetta dei colli si vedevano i ruderi di quello, mi accennarono, essere stato un monastero ed un castello. Mi posero in guardia dal toccare qualsiasi oggetto perché avrebbe potuto esplodere.

Dirò ai miei figli del più grande freddo della vita provato quella notte, vicino alla ferrovia, con gli addetti al recupero di ordigni. Un graduato compassionevole mi dette una coperta puzzolente ed io mi ci avvoltolai dentro sotto l’arco di un tombino. Torme di topi trascorsero con me le ore notturne e per non pensarci riflettei sul fatto che quasi tutti i soldati parlavano un dialetto che mi parve essere napoletano. Gli confiderò inoltre che sentii una solitudine immensa, un gran desiderio della mia casa e dei miei cari che quando all’alba andai nuovamente in cerca di cibo e lo trovai presso le solite caldaie, anche qui i topi scorrazzavano senza timore tra bidoni e sacchi. Volevo tornare a casa ma non sapevo se ci sarebbe stato un treno. Mi avviai verso il monte per vedere il tutto dall’alto, quando due militari, probabilmente carabinieri anche se in una divisa strana e con un Thompson a spall’arma (invece del caro moschetto) mi chiesero che facessi, se stessi cercando una casa o dei parenti. Dissi loro di essere capitato lì per caso per essermi addormentato su di un treno. Il più anziano, con una gran faccia bonaria da padre di famiglia e due baffoni da carabiniere, mi apostrofò: "Nè guagliò vatténne a casa tuoie, che cà ce lasse e penne!" Mi fecero strada e posero su un "derrate" addetto alla distribuzione dei cibi americani in polvere e secchi in quelle zone. Il giorno dopo ero tra le braccia dei miei!

Questo dirò ai miei figli, narrandogli il mio primo incontro con la città distrutta e sussurrandogli, forse con una lacrima negli occhi che, da allora, la visione di Cassino mi è rimasta nel cuore come l’immagine della Patria. Una landa di macerie desolata percorsa da torme di topi affamati.

Questo dirò loro consegnandogli la fiaccola e questa sarà la mia sola commemorazione.

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