STORIE DELLA BATTAGLIA DI CASSINO VISSUTE DICIOTTO ANNI DOPO (SECONDA PARTE)
Mattina d’Aprile dell’anno 1961 sulle montagne del cassinate. Primavera di piccoli fiori di monte che cospargono il camino di chi lo percorre. A piedi mi arrampico verso la collina dell’impiccato, a quota 475, dopo aver lasciato l’auto al lato della curva a gomito, presso il castello, della strada che da Cassino porta al monastero. Il sole ancora non riesce a mettere fuori la testa dalla corona dei monti circostanti, la valle è azzurrata da una nebbiolina fina fina ed il Gari fumiga vapori densi. Pettirossi e forasiepe mi precedono man mano che avanzo nella fitta ed intricata vegetazione di bassi cespugli che rendono l’arrampicata quasi impossibile. Rocce ed arbusti spinosi, arbusti e rocce, sassi che sfuggono sotto il piede, mani che si graffiano nel tentativo di aggrapparsi da qualche parte. Ogni roccia, ogni anfratto, ogni rilievo faticosamente raggiunto mi racconta qualcosa. Narrano storie le rupi scheggiate, smozzicate, annerite dagli impatti delle granate, i muretti di pietre a secco semi demoliti, le piccole buche scavate tra un masso e l’altro, i giacitoi invasi da sterpi o da muschi. Stanco, ansante mi siedo ogni qual volta il terreno me lo permette. Lo sguardo si perde lontano nel paesaggio familiare che va da Atina a monte Majo attraverso le valli del Gari, del Liri e del Garigliano. Monte Trocchio, isolato al centro, domina la scena ed il terreno degrada da lui giù giù per la valle fino alla città, fino alla ferrovia, risale poi le colline con coste brulle fino al castello, ai tornanti della strada, ai miei piedi. La serena calma mattutina di una giornata radiosa, con la luce filtrata dai pollini che aleggiano già nell’aria, poco a poco si dissolve in scenario da incubo. Lo spazio si riempie di sibili, di scoppi, d’esplosioni secche e violente o soffocate e cupe, di nubi gialle, grigie o nere. L’odore acre della cordite, della balistite, della pentrite, del TNT, del fosforo, della polvere sollevata dal suolo attacca la gola, brucia gli occhi. La scena si colma di macerie, rottami, relitti di carri, camion, carrette, cisterne. Carcasse di muli e cadaveri d’uomini ammorbano l’aria percorsa da innumeri scie di proietti traccianti, di bengala luminosi. Accucciato in un buco, straziato dai rovi, dimentico del vasto spettacolo circostante, limito il mio orizzonte ai pochi metri di rocce che mi sono davanti, studio il mio settore di tiro, mi concentro sulle probabili vie d’accesso a quel fazzoletto di terra che è tutto il mio universo, tento dietro di me, con la mano, la mia riserva di granate difensive, controllo con la coda dell’occhio il nastro di munizioni della mia Spandau ed attendo con il dito rattrappito sul grilletto l’apparire di un arma o di un elmetto.
Un cinguettio malizioso tutto dissolve, sgombra la mente, oscura l’immaginazione. Un merlo nero con il becco giallo, saltellando di sasso in sasso, ne rincorre uno bigio con il becco nero ed io mi perdo dietro di loro nella radiosità del giorno che avanza.
Che sarà successo veramente intorno a quest’anfratto in quei giorni? Chi lo avrà presidiato? Quale sarà stata la sua sorte, ove sarà in questo momento quell’uomo, che vita avrà avuto, come vivrà ora dopo il crollo del mondo? Rifiuto dal rimettermi a fantasticare e nell’alzarmi carezzo con affetto quella roccia che mi ha fatto per un pò da culla spinosa.
Il piede fatica ad uscire da sotto un rovo ove è finito e con la mano, afferrato il malleolo, cerco di sollevarlo. Uscendo il piede mostra un oggetto. Faccio pulizia intorno e scopro il tacco di una scarpa. Dopo poco questi si rivela per un vecchio stivale con una strana appendice. Ancora pochi minuti di lavoro e la strana appendice mi mozza il fiato. Dallo stivale fuoriesce una tibia. Mi siedo nuovamente nel buco con le gambe che tremano ed il cuore in subbuglio.
Non so quanto sia rimasto lì ma quando mi muovo il sole è già alto nel cielo. Scendo lentamente verso il castello per raggiungere l’auto. Il mio fantasticare, la mia curiosità, tutto è stato tragicamente appagato! Di lui non c’è più nulla da sapere, nessun mistero da svelare. Non ha vissuto una sua vita. E’ qui, qui con me!
Porto la reliquia a Roma senza aver il coraggio di esplorarla ulteriormente e la conservo nella mia libreria. Mia madre mi aggredisce, umilia, distrugge. Non comprende che sono terribilmente sconvolto, incapace di qualsiasi azione, per decidere cosa fare ho bisogno di tempo. Due settimane dopo, al rientro dal lavoro da Cassino, non trovo più la reliquia e mia madre si rifiuta di parlarmene. La sua morte, anni dopo, ha portato con se il mio segreto.
Questa che sto per narrarvi ora è una storia dal sapore un pò picaresco ed ho quasi pudore a raccontarvela ma poi mi dico che certamente vi muoverà al riso e continuo nel mio racconto. Siamo sempre nel 1961, in estate ed io lavoro alla costruzione dell’Autostrada del Sole dove ho un cantiere di sette chilometri subito a sud di Mignano, vivo però a Cassino dove è anche la sede del mio ufficio.
Tutte le mattine, lasciato l’Hotel Excelsior, dove alloggio, mi reco al lavoro percorrendo la via statale Casilina. All’altezza del Montelungo, dopo il lungo rettifilo alberato, la strada s’impegna, con una serie di curve, sulle colline del valico prima di imboccare, in discesa, la valle di Mignano; per intenderci, poco prima del luogo dove, in seguito, sorgerà il sacrario militare. Prima delle curve, dicevo, spesso incrocio, all’andata od al ritorno, una o due “lucciole” che lì hanno il loro posto di lavoro. Siedono poco discoste dal ciglio della via mostrando le loro grazie ed attendendo dei clienti di passaggio. Dopo mesi di avanti ed indietro le considero ormai parte del paesaggio e rimango quasi deluso quando non ci sono. Loro pure ormai mi conoscono ed al transitare ricevo sempre un saluto ed un invito che però ho sempre disatteso. Un bel giorno caldo di Luglio decido di andare in cantiere in “lambretta” invece che in auto. E’ circa mezzogiorno e rientro verso Cassino dopo una mattinata di grane e scocciature quando, passato il valico, scorgo le lucciole sotto l’ombra di un albero che, vicine alla strada deserta, offrono al sole il loro corpo ben poco vestito. Cosa debbo dirvi? Sarà che sono stato preso forse a tradimento o che ho bisogno di un diversivo o che mi sono piaciute un bel po’, fatto sta che non resisto e presa la più in carne, con una lunga capigliatura corvina che, scendendole sulle spalle, la copre più degli indumenti, me la carico sul sellino posteriore della motoretta. Mi avvio per un sentiero da lei indicato alla destra della via nazionale. Il sentiero, allontanandosi in linea retta perpendicolarmente alla strada principale s’inoltra in un bosco di vegetazione a volte alta, a volte bassa, con di tanto in tanto qualche piccola radura coperta da sterpaglia. Procediamo in direzione di San Pietro, distrutta, della quale si vedono davanti a noi i ruderi e le macerie, intatte, arroccate a mezza costa del monte. Abbiamo lasciato alle spalle il bastione brullo e roccioso di Montelungo ed abbiamo sulla destra il pelato monte Rotondo. Faccio per prendere una deviazione del sentiero sulla sinistra ma lei mi dice di no perchè da quelle parti ci sono ancora molte bombe ed essa ha paura. Sulla destra, più avanti, si apre una piccola radura proprio sotto le colline che in quel punto cominciano ad elevarsi ed ai piedi delle quali corre un fosso asciutto.
Mi fa fermare. Do uno sguardo intorno memorizzando la posizione del luogo ed avvicinandomi al fosso, sul fondo del quale qualcosa attira la mia attenzione. La donna si è tolta di dosso quel poco che ha e monopolizza tutte le mie risorse vitali distraendomi. Le sue poppe grosse e piene, le sue cosce forti e calde, i suoi glutei abbronzati e lisci, il solleone di Luglio, il luogo bucolico ed isolato, fanno il loro effetto rinnovando l’eterno miracolo dell’amore, o… chiamatelo come volete voi. Tutte le mie pulsioni virili sono per lei che le accoglie materna e ricettiva con silenziose, continue contrazioni del ventre attraente e lunghi, umidi spasmi del corpo accaldato. Passata la tempesta, rinato alla realtà, subito mi tornano alla mente gli oggetti intravisti nel fosso. Scesa la scarpata noto due barattoloni, di cui uno con tre appendici, che affioravano dal fango del fondo. Subito mi è chiaro che si tratta di due mine antiuomo a “shrapnell” che già avevo avuto modo di studiare nella scuola del genio della Cecchignola, durante il corso di allievo ufficiale che li avevo frequentato anni prima. Evidentemente qualcuno, addetto allo sminamento, aveva ritenuto più facile sbarazzarsene gettandole nel fosso pieno d’acqua che portarsele appresso per poi distruggerle altrove. Prima di toccarle mi accerto dello stato degli accenditori. Nella prima noto che le spine di sicurezza sono state già reinserite nelle loro sedi, probabilmente dagli sminatori succeduti alle operazioni belliche. Nella seconda non ci sono accenditori e la sede della miccia principale ritardata è chiusa dal suo tappo a vite originale. Estrattele dal fango e pulitele alla meno peggio carico le due mine, tra le gambe, sulla predella della “lambretta” dicendo alla mia amica, seduta sul seggiolino posteriore, per non spaventarla ed avere seccature, trattarsi di due vecchi barattoli di carne americani. Giunto a Cassino trasbordo i due ordigni nel portabagagli della macchina con la quale nel pomeriggio raggiungerò Roma per il fine settimana.
Giunto a Roma riservo alle due mine un bel bagno tiepido ed una delicata insaponatura, con spazzola e pennello, per rimuovere tutte le tracce di fango e terra ancora presenti. Una volta fatta toeletta e costatato che la ruggine ha potuto ben poco sull’ottima protezione predisposta delle industrie tedesche, le osservo a lungo per stabilire da che parte cominciare l’assalto. La domenica mattina in casa non c’è nessuno quindi, sentendomi a posto con la coscienza, inizio il lavoro.
Una delle due mine non è stata mai messa in opera, manca, infatti, di accenditore ed ha ancora il tappo di protezione sulla miccia centrale ritardata. La seconda è stata sicuramente attivata poichè ha tre accenditori montati sull’apposito raccordo a tre vie: il centrale a pressione, con i suoi tre caratteristici ardiglioni di acciaio disposti a 120° l’uno dall’altro, uno dei laterali a rilascio di tensione e l’altro ugualmente laterale a strappo. Bella! Proprio bella! E’ una S.Mi. 35. Pesa 4,3 Kg. ed ha una carica esplosiva di T.N.T. di 500 grammi. Raggio d’azione 100 metri. L’una è marcata: brj 43 – 55 e l’altra brj 43 – 114. Sono proprio mine di lusso poiché dopo diciotto anni sono fresche come due rose e con tutte le guarnizioni intatte! In vero sono, in assoluto, le più geniali e ben fatte mine antiuomo della seconda guerra mondiale. La loro realizzazione è di altissima precisione e la si può paragonare a quella di un arma. Quando il nemico involontariamente la fa partire, l’involucro centrale contenente più di un centinaio di sferette di acciaio e la carica esplosiva è espulso in alto, a circa due metri dal piano ove la mina è stata interrata, da una carica di lancio operante all’interno dell’involucro principale esterno che funge da canna di lancio. L’esplosione a mezz’aria dell’ordigno, per un raggio di cento metri e su trecentosessanta gradi di orizzonte, non lascia scampo a nessuno si trovi in quella zona.
Affronto dei due ordigni per primo quello senza accenditori. Presumo che non essendo mai stato posto in opera debba essere privo, nei tre appositi alloggiamenti, sia delle micce a rapida combustione che dei detonatori. Rimossi con un gira tubi i tre tappi a vite zigrinati (poiché con un grosso cacciavite non mi era riuscito), costato corretta la mia previsione. Svito, con una chiave inglese, il bullone forato centrale sul contenitore della miccia a ritardata combustione principale e, finalmente, sollevo il coperchio. Centinaia di sfere di acciaio sono contenute in una camera circolare intorno all’ordigno mentre nel centro dello stesso è inserita la carica esplosiva fusa attraversata dai tre alloggiamenti per i detonatori. Tutto è in perfetto ordine poiché le guarnizioni hanno ben tenuto per tutti questi anni. Rimuovo tutte le parti componenti e dal fondello d’acciaio estraggo la carica di lancio. Da questo momento la mina è soltanto un soprammobile carico di fascino e ricordi.
Più complesso e soprattutto più pericoloso si annuncia il lavoro di disattivazione della seconda mina. Allento i tre tappi a vite, zigrinati, come nella precedente, li tolgo e vedo che negli alloggiamenti sono presenti i detonatori. Capovolgo la mina, scuotendola delicatamente, per farli uscire ma solamente due obbediscono. Il terzo non si muove. E’ un bel guaio! Rifletto a lungo sul da farsi, poi prendo un fiammifero di legno e, con una goccia di collante per nitrocellulosa, lo fisso alla sommità del detonatore che s’intravede nel foro della sua sede. Dopo un ora il fiammifero è saldamente connesso e tirandolo dolcemente ma con decisione lo estraggo. Esso, buono buono, esce dal suo buco con il detonatore che è d’alluminio, caricato con azotidrato di piombo.
A questo punto non me la sento di tentare di rimuovere i tre accenditori, collegati alla carica centrale di lancio, uno per uno. Dopo aver messo l’ordigno in una morsa, con il gira tubi, cerco di svitare l’adattatore a tre vie sul quale sono posti gli accenditori. Piano piano questo inizia a girare fino a quando riesco a separarlo dal resto della mina. E’ fatta! Procedo ora come per l’altra e smonto tutti i pezzi. Senza più tante preoccupazioni separo gli accenditori di alluminio (S.Mi.Z.35), uno per volta, dal raccordo a tre vie. Li apro togliendo da ogn’uno percussore e capsula.
Questo amici è tutto, più facile a descriversi però che a farsi! Vi mostro due foto degli oggetti di questa storia sperando di non avervi annoiati troppo. Mancano dalle foto gli accenditori ed il raccordo a tre vie ma in questi lunghi quarantatre anni che sono trascorsi, alcuni dei quali passati all’estero, qualcuno ha provveduto a farmeli fuori od a perderli.
A presto…. se vorrete.
Nel caso in cui il testo derivi sempicemente dall'esposizione, con o senza traduzione, di documenti/memorie al solo fine di una migliore e più completa fruizione, la definizione Autore si leggerà A cura di.
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