LE SENTINELLE DI CASSINO
La stretta di Mignano mi ha sempre affascinato ed emozionato, c’è un monte che fa parte della mia vita sin da quando avevo pochi anni:
mio padre ci combattè.
Con l’allargarsi delle conoscenze, quasi a macchia d’olio, ho scoperto che Montelungo faceva parte di una linea fortificata, la Bernhard (o Reinhard),
che era stata preceduta da un paio d’altre un po’ meno coriacee, e seguita dalla Gustav, che sarebbe diventata tristemente
famosa in tutto il mondo. Ho anche scoperto che i tedeschi riponevano molte speranze nella Bernhard, contavano di fermare gli alleati per un tempo più
lungo di quello che in effetti fu, mentre fervevano senza sosta i lavori di approntamento della Gustav, qualche chilometro dietro.
Il perché di questo ottimismo lo si capisce visitando i luoghi, le cartine da sole non bastano. La stretta di Mignano si definisce tale poiché i lati
sono sorvegliati da due giganti quali il monte Camino ed il monte Sammucro, da cui si domina il territorio per chilometri. Il piccolo Montelungo,
appena 351 metri, è un lillipuziano al loro confronto, ma la sua forma molto allungata (da cui il nome) e la posizione, proprio nel mezzo delle due
sentinelle, lo rende imprendibile fintanto che queste resteranno in mano dei difensori.
Inoltre per conformazione morfologica è un vero paradiso per chi difende, un incubo per chi attacca. E’ una pietraia sconnessa, con salti continui di
quota, camminare è difficoltoso e pericoloso, fitti speroni di roccia tagliente alti da pochi centimetri fino a mezzo metro ti fanno pagare cara una
perdita di equilibrio (esperienza personale). I tedeschi approntarono, con la loro solita maestria, postazioni per uomo singolo o per arma automatica
in punti nevralgici (ancora oggi ben visibili) sulle varie quote del monte, in particolare sulle più alte. Erano scavate nella roccia anche usando
esplosivi, i bordi rialzati con pietre a secco, e potevano essere messe a tacere solo con un colpo ben centrato di artiglieria (molto raro) oppure a
distanza ravvicinata con le bombe a mano ed infine all’arma bianca.
Con il crescere della voglia di conoscere meglio ciò che accadde, ho spostato il mio interesse verso monte Sammucro, alle cui pendici sorge il paesino
di S.Pietro Infine, a cui il regista John Huston, con il suo celebre documentario, diede rilevanza mondiale. Questo paese ed il monte che lo sovrasta
furono i luoghi di uno scontro durissimo, che ebbe inizio l'8 dicembre 1943 e durò più di una settimana.
Il 143° reggimento della 36ª Divisione "Texas" attaccò contemporaneamente sia il paese, partendo dalle pendici del Colle Cannavinelle e di Monte Rotondo,
sia la cima del Sammucro, a Q. 1205. Come andarono i fatti lo dice la storia, ci vollero nove giorni di scontri sanguinosi perché la linea cedesse,
i due avversari lasciarono centinaia di morti e migliaia di feriti fra quelle pietre, senza scordare le decine di morti civili ed il paese completamente
distrutto.
Il generale Clark, comandante la V Armata, dirà in seguito, minimizzando le perdite:
San Pietro era la chiave della valle del Liri. Noi lo sapevamo e anche il nemico lo sapeva. Dovevamo conquistarla, sebbene il costo
immediato sarebbe stato alto. La prendemmo, e il costo non fu eccessivo rispetto ai vantaggi ottenuti.
Decisi così di organizzare un’ascensione sul monte, seguendo le direttrici d’attacco degli americani, che furono due, una diretta contro Q. 1205 ed una
(i Ranger) verso Q. 950. A questo punto ebbi un colpo di fortuna: non sarei stato da solo, Luigi Grimaldi mi avrebbe accompagnato. La presenza dell’esperto
Luigi è stata fondamentale, ha il fiuto del cane da reperti ed una preparazione in fatto di cose militari di tutto rispetto, a dispetto della giovane
età.
Così in una bella e torrida giornata di fine luglio (2005 ndr), Luigi ed io abbiamo iniziato la nostra ascesa di primissima mattina, partendo dal
paese di Ceppagna, posto alle pendici orientali del monte Sammucro, proprio come fece la Compagnia A del I/143° americano, che la sera del 7 Dicembre
1943 si avventurò in un’ascensione ardita e piena di rischi su sentieri non conosciuti, con obiettivo la cima più alta.
Il dislivello è di circa 1000 metri, di cui solo i primi 300, forse 400, sono al coperto di una folta vegetazione; poi il terreno si scopre e solo in
qualche rara zona, in specie nel canalone che arriva quasi in cima, si trova ancora della vegetazione, ma non credo che fosse presente al momento
dell’attacco, visto il pesante cannoneggiamento a cui gli americani sottoposero il monte nei giorni antecedenti.
La salita è abbastanza ripida e la pendenza è costante e notevole; già a circa metà della salita, quando arriviamo sul sistema di creste che troneggiano
sulla valle di S Pietro, ci appare la prima visuale libera del campo di battaglia inferiore, la "valle della morte", Monte Rotondo e Monte Lungo. Sullo
sfondo il massiccio del monte Camino, con la sua ultima propaggine, il monte Maggiore, che sorveglia il lato occidentale della strettoia.
Ma se ci volgiamo verso la cima che ci attende, cominciamo a renderci conto di quanto audace sia stato il percorso scelto dagli attaccanti, la pendenza
elevata, il terreno carsico e frastagliato, tutto scoperto, in piena vista.
Proviamo a metterci negli scarponi di quei ragazzoni texani che al buio, nel silenzio più totale, percorsero quegli stessi sentieri con zaini zeppi di
munizioni sulle spalle, attenti a non far scivolare sassi che rotolando in basso li avrebbero rivelati ai difensori; un filo di angoscia
ci assale, più saliamo e più la strada si fa dura, la cima ci sovrasta minacciosa e quasi verticale su di noi, guglie di roccia che avrebbero potuto
nascondere ognuna una posizione tedesca, canne oliate pronte a riversare fiumi di pallottole su gente che ha già un bel da fare a non cadere per i
canaloni, figuriamoci a rispondere al fuoco.
Ci fermiamo sempre più spesso per qualche minuto di riposo ed un goccio d’acqua, il caldo ci perseguita e nel canalone poco sotto la cima trovo una
granata da fucile americana a carica cava, poco dopo uno scheggione di granata da 155, Luigi trova altre schegge americane. Tutto
contribuisce a farci rivivere scene di morte. Verso la cima, qualche tratto lo abbiamo affrontato usando anche le mani, appare difficile credere che
un’intera compagnia sia arrivata a ridosso dei fortini tedeschi in assoluta sorpresa, sommergendoli di bombe a mano ed occupandoli di slancio. Ci
chiediamo come i tedeschi si siano fatti cogliere così di sorpresa, valore e bravura degli americani sono indiscussi, ma la posizione è veramente
formidabile, bastava poco per fermare un’intera compagnia, eppure la cima era presidiata, anche se non troviamo molte tane e fortini, e la reazione
rabbiosa dei tedeschi nelle ore e nei giorni successivi, a costi umani grandissimi, dimostra quanto fosse importante per loro il suo possesso.
Di certo la perdita di questa posizione avrà fatto passare un brutto quarto d’ora a qualche giovane ufficiale comandante di plotone o compagnia
che l’aveva in custodia, non è escluso che ci abbia lasciato la vita per cercare di riconquistarla nei giorni successivi, livido di rabbia e di
vergogna per le strigliate ricevute dai superiori. Sarebbe emozionante poter scendere a questi livelli di conoscenza di una battaglia, storie
individuali, emozioni di un uomo di fronte alla sua probabile morte, la sua lotta per non cedere alla paura, uccidere pur di non morire.
Ci aggiriamo finalmente fra le balze della cima, che in realtà è divisa in due e a Luigi come un prestigiatore si materializzano nelle
mani bossoli, resti arrugginiti di scatole di viveri, caricatori del Garand, io trovo qualcosa solo dopo che lui ha individuato una zona fertile, non
ho l’occhio allenato. L’emozione comunque è grande, quei reperti stanno lì da più di 60 anni a testimoniare qualcosa di terribile ed il silenzio
odierno è stridente, dà quasi fastidio, non ti aiuta a ricostruire ciò che hai letto e quello che quei pezzi metallici rugginosi ti confermano sia
accaduto proprio lì.
Gli americani, dopo il colpo gobbo, riuscirono a non farsi sloggiare da Q. 1205 ma i tedeschi ci provarono decisamente più volte. Ci furono assalti
furiosi sia dal lato occidentale che da quello settentrionale. Due compagnie di granatieri investirono la sella che la divide dalla Q. 950,
che era stata accanitamente contesa dai Ranger ed infine conquistata, e fu l’ennesima carneficina. Scegliamo proprio quel versante per affrontare la
lunga discesa che ci attende e scopriamo un ripido ed interminabile costone irto di pietre che ci porta sotto Q. 950; impossibile non pensare che fu
quasi un attacco suicida per quei valorosi granatieri, gli americani li aspettavano, l’ascesa lunga e ripida è scoperta e l’artiglieria, prima della
mitraglia, deve aver fatto dei vuoti paurosi. Anche qui, nonostante siamo provati dalla stanchezza e dalla sete, rimane difficile non farsi rapire da
quel che immaginiamo sia accaduto, anche se la realtà sarà stata ben peggiore.
Gli americani comunque non si limitarono solo a mantenere il possesso della quota, ma provarono anch’essi ad attaccare per avanzare sulle creste ora
decrescenti del monte ed aggirare S. Pietro, diretti verso S. Vittore, ma i tedeschi resistettero tenacemente e non ci furono sviluppi significativi.
Torniamo a Ceppagna a metà pomeriggio e con la macchina ripercorriamo la strada che, valicando, porta a S. Pietro Infine. Una lunga, stretta e tortuosa
stradina che scende lentamente di quota, ora asfaltata ma a quei tempi poco più di una mulattiera, percorrendo un paio di chilometri della lunghezza del
monte prima di arrivare al paese. Qui qualche ufficiale superiore americano si inventò un attacco di una compagnia di carri, una vera idiozia
probabilmente scaturita dalla disperazione di non sapere che fare per rompere il fronte tedesco, che da sette giorni stava dissanguando la Divisione
senza alcun significativo progresso. I tedeschi videro subito i bestioni che scendevano lentamente per i tornanti, li fecero avvicinare, qualcuno
saltò sulle mine, gli altri li fecero fuori con i controcarro. Solo 4 su 16 tornarono indietro, senza aver ottenuto nulla, come logico. Anche qui mi
immedesimo nei combattenti, i carristi in questo caso, e mentre guido avendo la loro stessa visuale, mi aspetto ad ogni istante il colpo che scuote il
carro, la corazza che si fora e l’orribile morte che ogni carrista teme. Loro sapevano bene quanto fosse assurdo attaccare su una strada stretta senza
possibilità di manovrare liberamente e con l’appoggio della fanteria molto problematico (che in effetti non ci fu), ma obbedirono come i granatieri
tedeschi, sapendo di andare quasi certamente incontro alla morte.
Sulla sinistra, mentre scendiamo, la valle piena di terrazze ed ulivi (ora attraversata dalla nuova strada che porta a Venafro) fu una trappola
infernale per il II e III Battaglione, che si svenarono fra i campi minati, le trappole esplosive, i bunker nascosti che incrociavano in modo micidiale
il loro tiro ed i mortai e l’artiglieria che battevano con precisione ad ogni richiesta di supporto. A guardarlo oggi è un panorama anche bello, che
evoca pace e serenità. Quanto contrasto con quei giorni di Dicembre! La beffa poi per tutti i sacrifici sostenuti dal 143° sulla direttrice
S. Pietro-Sammucro (ma non va dimenticato l’aiuto dato dai parà del 504° che ebbero ingenti perdite) fu che la linea cedette principalmente perché
caddero, il 16 Dicembre, Monte Maggiore ad opera del 142° e Monte Lungo, questo ultimo con il concorso del I Raggruppamento Italiano. I difensori
di S. Pietro quindi dovettero arretrare per non finire tagliati fuori, un po’ come successe con Monte Cassino qualche mese dopo. Se i tedeschi
avessero bloccato sul monte Maggiore gli americani come erano stati capaci sul Sammucro, questa battaglia sarebbe durata ancora.
Fu un anticipo di quello che sarebbe accaduto di lì a poco a Cassino ma i comandi alleati non ne fecero tesoro, così si ripetettero per mesi attacchi
frontali contro posizioni munitissime, sperando che terribili bombardamenti ne mettessero a tacere le difese, invece di cercare l’aggiramento per vie
che sembravano improbabili ma che invece si rileveranno decisive.
Cartografia:
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