DAL DON A MONTELUNGO, IL MAGGIORE RANIERI CAMPELLO
Qualcuno si sarà chiesto il perché su questo sito sia stata annunciata una mostra fotografica dedicata ad un famoso cavaliere degli anni Trenta,
così come qualcuno si sarà chiesto chi sarà mai stato quell’ufficiale italiano ritratto alle pendici di Monte Lungo in una notissima fotografia
mentre conversa con il generale Clark, alla presenza del generale Dapino, allora comandante del I Raggruppamento Motorizzato, e del generale
Walker, comandante della 36ª divisione di fanteria americana nel dicembre 1943.
E’ proprio quella fotografia che gli eredi di quell’ufficiale hanno trovato sul sito e richiesto a Valentino Rossetti per poterne riprodurre
l’immagine, esporla nella mostra e pubblicarla nel catalogo.
Chi era dunque quell’ufficiale italiano con quella strana uniforme: un maglione civile, una giubba sahariana di tela color sabbia con le vistose
fiamme bianche di “Novara Cavalleria”, un’elegante bustina di panno diagonale con l’emblema ricamato dei Lancieri e, sul petto, il piccolo scudo
sabaudo, distintivo del I Raggruppamento?
Ebbene il cavaliere e l’ufficiale erano la stessa persona: il maggiore di cavalleria Ranieri di Campello, una figura dalle incredibili avventure,
legato indissolubilmente a Monte Lungo.
Ranieri di Campello era figlio del conte Pompeo, senatore del Regno, e della principessa Guglielmina Boncompagni Ludovisi, dama di corte della
Regina Elena, ed era nato a Spoleto nel 1908.
Fin da piccolo aveva manifestato di voler seguire una tradizione di famiglia, la passione per i cavalli e l’equitazione; non fu quindi un caso
se scelse la carriera militare e l’Arma di cavalleria.
Frequentata l’Accademia militare di Modena, fu del tutto naturale che, ottenuta la nomina a ufficiale in servizio permanente, fosse stato
destinato alla scuola di cavalleria di Tor di Quinto e poi a quella di Pinerolo, allora celebre in tutto il mondo.
Eccellente cavaliere, Ranieri di Campello entrò a far parte della squadra nazionale italiana, partecipando a numerosi concorsi internazionali
fino alle Olimpiadi del 1936, dove una rovinosa caduta non gli permise di emergere.
L’anno successivo vinse però con la squadra italiana la prestigiosa Coppa delle Nazioni al Concorso Ippico Internazionale di Roma; nel 1939
ottenne la rivincita di Berlino, trionfando al Prix Caprilli ad Aquisgrana, e battendo la medaglia d’oro delle Olimpiadi, il capitano tedesco
Ludwig Stubbendorf.
Ormai famoso in tutta Europa, se non fosse scoppiata la guerra Ranieri di Campello avrebbe continuato una carriera ricca di premi, soddisfazioni
sportive e riconoscimenti internazionali. Nel maggio 1940 fu invece chiamato a far parte del Servizio Informazioni Militari ed inviato
all’ambasciata di Bucarest come addetto militare, ma nell’ottobre di quell’anno venne richiamato in Italia ed inviato in Spagna per svolgere una
singolare e delicata missione.
Fu infatti destinato ad Algeciras, di fronte a Gibilterra, presso l’osservatorio che il S.I.M. aveva impiantato su una nave semiaffondata dalla
quale erano non solo trasmesse informazioni ai sommergibili ed ai sommozzatori del comandante Borghese, ma che divenne base operativa per i
famosi “maiali” che attaccarono più volte il porto di Gibilterra. La nave semiaffondata era il piroscafo “Volterra”! (1)
Una missione molto particolare, tanto segreta da non essere nemmeno citata nel suo foglio matricolare.
Ufficiale di “Savoia cavalleria”, dopo il suo rientro in Italia e la promozione a maggiore, chiese di raggiungere un fronte e fu assegnato al
comando dell’8ª Armata, partendo per la Russia nel giugno 1942.
Addetto all’Ufficio Informazioni dell’Armata, il maggiore Campello vi avrebbe certamente compiuto il proprio dovere con il massimo impegno, ma
la sua vita militare non sarebbe andata oltre ad una “routine” che tra le incombenze tipiche di questo servizio comprendeva l’esame degli
interrogatori dei prigionieri alla ricerca di ogni notizia utile sulle truppe nemiche.
Fu così che il maggiore si imbatté in un campo dove erano rinchiusi centinaia di ufficiali e cavalieri cosacchi.
Campello, non dimentichiamolo, era non solo un ufficiale di cavalleria, ma anche un campione d’equitazione: non poté sfuggirgli che quei gruppi di
prigionieri dalle uniformi lacere e stracciate, erano in realtà splendidi cavalieri per doti naturali e tradizioni antichissime.
Nel 1942, i tedeschi avevano già iniziato un’opera di proselitismo fra i prigionieri sovietici ed i civili delle zone occupate per formare reparti
di militari da impiegare nella guerra, sfruttando l’acceso antibolscevismo che caratterizzava molti ex sudditi di Stalin.
Fu appunto interrogando alcuni di quegli ufficiali che Campello colse la loro offerta di continuare la lotta contro i comunisti agli ordini degli
Italiani, una lotta che era stata solo interrotta alla fine degli anni Venti. (2)
Campello propose l’idea al comando dell’8ª Armata, ricevendo una risposta interlocutoria. Un rapporto raggiunse il Ministero della Guerra a Roma
e, probabilmente, lo stesso Mussolini. Il parere finale fu positivo, ma mancavano comunque i mezzi per allestire uno squadrone.
E’ vero quanto si racconta e cioè che, raccolte le adesioni, mancavano i cavalli e che, prospettato il problema agli ufficiali cosacchi, costoro
risposero di non preoccuparsi che lo avrebbero risolto loro stessi. Sta di fatto che pochi giorni dopo spuntarono cavalli, selle e finimenti!
Nel luglio del 1942, nacque il «Gruppo Squadroni Cosacchi Maggiore Campello», dipendente dall’Ufficio Informazioni dell’8ª Armata.
Il Gruppo, che indossava l’uniforme della cavalleria italiana mantenendo però la tipica giubba abbottonata al collo, ed i tradizionali mantelli e
colbacchi, era equipaggiato con armamento italiano, ma conservava la classica sciabola di tradizione secolare. Esso era formato da tre “sotnie” ed
una fanfara a cavallo, mentre ad ufficiali e sottufficiali era stato riconosciuto il grado gia` ricoperto nell’Armata Rossa. (3)
Questa piccola “armata a cavallo” si rivelò subito attiva con azioni di perlustrazione e di controllo del territorio, operando pressoché
quotidianamente. All’atto della ritirata dal Don, a partire dalla fine di dicembre del 1942, l’azione dei cavalieri cosacchi si rivelò preziosa
per la capacità che avevano di muoversi su un terreno innevato ed ostile, in condizioni climatiche particolarmente sfavorevoli, difendendo le
colonne italiane dalle continue incursioni di partigiani e soldati sovietici.
In una di queste azioni, il 19 gennaio 1943, presso il villaggio di Nikitowka, il maggiore Campello fu gravemente ferito in uno scontro a fuoco
contro elementi nemici. Lo salvarono i suoi cosacchi, il capitano Vladimir Ostrowsky in testa, che riuscì a rompere il momentaneo accerchiamento
e a trascinarlo fino ad una zona sicura, da dove fu trasportato all’ospedale di Kharkov. (4)
Arrivato in Italia con un treno ospedale, Campello fu ricoverato all’ospedale militare di Firenze e quindi a quello di Roma, dove giunse il 15
febbraio 1943.
La motivazione della Medaglia d’Argento al Valor Militare che gli fu attribuita recita:
«In ogni incarico era primo nell’offerta e nell’esempio.
Guidava il gruppo in situazione difficile per insidie nemiche, clima e disagi, in modo esemplare. In ogni occasione ha dato di più di quanto
richiesto. Ferito, continuava a guidare il gruppo dando sagge disposizioni per sfuggire all’accerchiamento.»
L’8 settembre 1943, il maggiore si trovava in convalescenza a Roma, dove avrebbe potuto rimanere, sfruttando la licenza, ma non era da par suo.
Ormai sapeva che il governo legittimo si era stabilito al Sud.
Lasciò trascorrere il compleanno di sua figlia, il 19 settembre, ma il 21, giorno del proprio compleanno, era a Ussita, piccolissimo borgo vicino
a Visso, in provincia di Macerata. Era iniziata una lunga ed avventurosa camminata sulle montagne, dove trovò ospitalità presso vari conventi.
Attraversato il Gran Sasso, raggiunse la costa abruzzese fino a Roseto degli Abruzzi, da dove, su una barca di pescatori, superò felicemente le
linee alleate.
Presentatosi al centro mobilitazione del Distretto Militare di Lecce, il 15 ottobre 1943 fu assegnato al Quartier Generale del costituendo I
Raggruppamento motorizzato italiano.
Probabilmente il maggiore Campello avrebbe preferito un ruolo più attivo, ma va considerato che i postumi della grave ferita riportata in
Russia non glielo avrebbero consentito.
Ed eccolo a Monte Lungo.
La sua conoscenza dell’inglese si rivelò essenziale ed il generale Vincenzo Dapino se lo tenne stretto come interprete e ufficiale di collegamento
con i comandi americani, ma il 14 dicembre una salva di mortai tedeschi si abbatté sulla linea italiana.
Rimasero feriti un ufficiale e sei militari di truppa, cita il Diario Storico dell’unità.
L’ufficiale era il maggiore Ranieri di Campello!
Trasportato d’urgenza all’ospedale da campo 244, a Maddaloni, il maggiore venne trasferito all’ospedale militare di Napoli il 17 dicembre.
Le sue esperienze di guerra, seppur così intense, si conclusero con quella seconda ferita, non senza che gli Americani gli conferissero la “Bronze Star” per il coraggio dimostrato in quei giorni e per i servizi resi.
E i suoi valorosi Cosacchi?
All’atto del rimpatrio dei superstiti dell’8ª Armata italiana, fu deciso di trasferire in Italia anche i superstiti delle formazioni cosacche che si erano create in Russia. Essi furono riuniti in un’unica unità, agli ordini del capitano Giorgio Stavro Santarosa, che li comandò fino all’8 settembre 1943.
Nell’agosto 1943, il “Gruppo Cosacchi Savoia” fu accasermato a Macaccari, in provincia di Verona, per essere riorganizzato, appoggiato amministrativamente al deposito del reggimento “Novara cavalleria”. Il numero totale di cosacchi in forza alla banda era di 266 uomini, di cui 10 ufficiali e 24 sottufficiali.“ (5)
Dove finirono dopo l’8 settembre? Certamente catturati dai tedeschi, molti di loro andarono a militare nelle divisioni di cavalleria cosacca impegnate dai tedeschi in Jugoslavia nel 1944-1945, delle quali seguirono il triste epilogo quando, ormai prigionieri delle truppe britanniche, vennero consegnati ai sovietici nel maggio 1945.
Qualcuno si salvò e riuscì a rimanere in Italia, come quel misterioso personaggio che si rifiutò di dichiarare il proprio nome all’attonito direttore del Museo Nazionale della Cavalleria, a Pinerolo, colonnello Emilio Grimaldi. Gli concesse solo l’informazione sulla sua città di provenienza, che era Venezia, ma lasciò al Museo una valigia che conteneva, perfettamente conservata, la propria uniforme di cosacco al servizio del Regio Esercito.
Ed il maggiore Ranieri di Campello?
Dopo il referendum istituzionale del giugno 1946, preferì lasciare l’esercito.
Ricoprì l’incarico di commissario della Federazione Italiana Sport Equestri e ne divenne reggente dal 1944 al 1946, anno in cui venne eletto
presidente della Federazione Italiana Sport Equestri. Ricoprì in seguito la carica di vice presidente della Federazione Equestre Internazionale,
membro della Giunta esecutiva del CONI.
Seguì con passione le sue terre, a Campello, mantenendo la carica di sindaco dal 1952 fino alla sua scomparsa.
Si spense il 29 maggio 1959.
Si ringrazia di cuore Cintia di Campello Torlonia, figlia di Ranieri, per le preziose notizie che hanno consentito gran parte della stesura di
queste note.
Note:
- Cfr. Stefano Fabei, I volontari cosacchi nell’Esercito italiano, in Storia Nazionale.
- Pochi mesi dopo il definitivo crollo del regime sovietico nel 1989, i Cosacchi sorpresero il mondo, pretendendo la consegna delle spoglie dei loro Atamani, dei loro capi storici, fucilati o impiccati dai sovietici nel 1945-47 e seppellite in anonimi cimiteri di Mosca. Esse furono ritumulate con tutti gli onori nei più sacri santuari ortodossi.
- Stefano Fabei, Cit.
- Cfr. Roberto de Mattei, Fronte del Don: un conte italiano e i suoi cosacchi, Messaggero Veneto, 3 aprile 1996.
- Cfr. Stefano Fabei, Cit.
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