La battaglia di Monte Lungo
NOTA DI AUTORIZZAZIONE
I contenuti di questa pagina sono tratti integralmente da Giuseppe Conti, "IL PRIMO RAGGRUPPAMENTO MOTORIZZATO", Stato Maggiore dell'Esercito -
Ufficio Storico, Roma 1986.
L'utilizzo in questo sito internet di alcune parti di questo volume, è stato concesso dallo Stato Maggiore dell'Esercito - V Reparto Affari Generali - Ufficio Storico, con
autorizzazione prot. n. 6016 cod.id.STOR1 ind. cl. 12.4 del 23/12/2009.
E' vietata ogni ulteriore riproduzione o duplicazione.
* * *
Presentazione
Montelungo, nel dicembre del 1943, era un nome sconosciuto.
Esso aveva senso soltanto per i "locali" dell'alto bacino del Volturno.
Dal punto di vista operativo il significato di questa località non ha aumentato la sua importanza neanche dopo i fatti d'arme del dicembre 1943.
I combattimenti che vi si sono infatti svolti, specie se posti accanto a quelli di Cassino, che ben altra importanza assumono nella storiografia militare,
hanno uno scarso peso nell'economia della campagna d'Italia.
Ma, come ebbe a dire il generale Utili,
"anche se il combattimento di Montelungo non è stato un modello di arte militare, e nemmeno si potrebbe sostenere che abbia avuto un peso di rilievo sul complesso delle operazioni, tuttavia, per il suo valore ideale, esso appartiene non alla cronaca ma alla storia d'Italia e non sarà perciò dimenticato. Poichè esso permise che si diffondesse nel mondo la notizia che, per la prima volta nella seconda guerra mondiale, i soldati italiani si battevano a fianco dei soldati alleati, e si battevano con impeto e saldezza.".
Questi soldati erano quelli del 1° Raggruppamento Motorizzato italiano, la prima unità costituita, fra mille difficoltà frapposte dagli Alleati, dal Governo italiano del sud dopo l'armistizio dell'8 settembre 1943.
... omissis ...CAPITOLO III. - MONTE LUNGO
La "Winter Line"
Di fronte alla "Winter Line" gli americani erano venuti a trovarsi nella prima metà di novembre, dopo una lenta e faticosa avanzata costata un mese di dure lotte, in seguito all'attraversamento del Volturno [1].
Fu un impatto difficile quello con l'autunno italiano che lasciò il segno sulle truppe di Clark che ne ricavarono un triste presagio sul futuro che le attendeva. Così descrive la situazione materiale e morale il comandante della 5ª Armata:
(...) ci trovammo di fronte un terreno tra i più difficili tra quelli incontrati poi e il tempo peggiore di tutta la campagna. La pioggia cadeva a tofrrenti, i veicoli sprofondavano nel fango fin sopra i mozzi delle ruote, le terre basse diventavano mari di melma, e le retroguardie tedesche si triceravano abilmente sulle alture per ritardare la nostra avanzata [2].
Ma non erano soltanto le avversità atmosferiche a deprimere gli stanchi e infangati uomini della 5ª Armata; incideva negativamente sul loro morale sempre più col passare del tempo la senzazione di affrontare ogni giorno una posizione difensiva formidabile, mentre (avanzavano) a poco a poco attraverso quell'aspro terreno (...) [3].
Era una sensazione pienamente giustificata: gli americani stavano cominciando a fare le spese della forza della "Winterstellung" prima ancora di conoscerne con esattezza l'esistenza. Soltanto sul finire di ottobre infatti essi poterono avere da alcuni prigionieri le prime notizie sul sistema difensivo tedesco: notizie vaghe e spesso contrastanti circa una linea difensiva che correva dal Tirreno alL'Adriatico; in realtà, come poterono constatare direttamente in seguito, si trattava di due munitissime linee, distinte ma integrantisi e costituenti un unico baluardo [4]. [schizzo n. 3].
La principale delle due, propriamente detta "Linea Gustav" univa effettivamente i due mari nel punto più stretto della penisola, misurando circa 160 km. Nel versante tirrenico, che è quello che ci interessa più da vicino, correva lungo il Fiume Garigliano dal Mare Tirreno al Fiume Gari, poi seguiva la riva destra di questo verso Cassino e proseguiva lungo le pendici avanzate dei colli dietro Cassino verso Atina [5]. Su questa linea i tedeschi intendevano fermare gli alleati definitivamente. Per proteggere i lavori di fortificazione e allo scopo di rallentare l'avanzata nemica però, i tedeschi avevano provveduto a costruire davanti a questa un'altra linea a carattere temporaneo che essi chiamavano "Reinhard" o "Bernhard" e che agli anglo-americani indicheranno come "Winter Line" [6]. Nel settore americano passava a sud di M. Marrone lungo i colli sopra Venafro, verso la stretta di Mignano tra M. Sammucro e le masse collinose del Maggiore e del Camino, entrambi tenuti in forze. Continuava lungo le pendici orientali e meridionali del Camino e infine superava il Fiume Garigliano per unirsi alla linea Gustav [7].
La forza dell'intera "Winterstellung" stava nel fatto che era un sistema di difese dislocate in profondità, prive di un punto chiave. Non c'era possibilità di sferrare un colpo decisivo che ne determinasse il crollo: ogni montagna doveva essere presa separatamente, ogni valle rastrellata, e poi ci si trovava di fronte a sempre nuove montagne e a un'altra linea che doveva essere a sua volta spezzata da ostinati attacchi di fanteria [8].
A metà novembre dunque le truppe americane avevano già fatto conoscenza con le difficoltà del nuovo settore, in particolare col pilastro meridionale della Winter Line, il Monte Camino, posizione di capitale importanza per l'osservazione della zona circostante [9]. Proprio l'esito disastroso dell'attacco al monte a opera di reparti della 56ª Divisione britannica nei giorni tra il 5 e il 15 novembre, aveva convinto Clark che era il caso di dare un periodo di riposo a truppe ormai logorate, molte delle quali combattevano ininterrottamente da oltre due mesi, dall'epoca dello sbarco a Salerno [10]. In queste condizioni era da escludere un attacco immediato da parte dell'Armata che poteva limitarsi a mantenere le posizioni attuali, raggruppare le proprie forze e prepararsi a lanciare un attacco intorno al 30 novembre [11].
Sul fronte della 5ª Armata la direttrice d'attacco pressochè obbligata era quella che seguendo la ss. statale n. 6 Casilina, attraversava la cosidetta stetta di Mignano (Mignano Gap). E' questa una angusta valle il cui ingresso dal sud è controllato dal già citato gruppo del Camino, comprendente i monti La Difensa, la Remetanea e Maggiore. La Casilina le percorre affiancata alla ferrovia Roma-Napoli fin poco dopo l'abitato di Mignano che sorge al centro della valle. Poi, di fronte a M. Lungo, la ferrovia volta a sinistra e la strada a destra per proseguire verso Cassino. All'estremità settentrionale la stretta è dominata dal Monte Sammucro (m. 1205) di fronte al quale, verso occidente, si trova Monte Maggiore (630 m.). Esattamente al centro della stretta, Monte Rotondo (m. 357) e Monte Lungo (m. 351) due formidabili barriere a dispetto dell'altezza. Dopo Monte Lungo in successione, come violente ondate nella superficie piatta della valle, Monte Porchia e Monte Trocchio [12]. Infine, dopo il Trocchio, l'ampia valle del Liri, l'ingresso a Roma.
L'attacco alla "Winter Line"
In vista della ripresa operativa il Quartier Generale della 5ª Armata emanava il 24 novembre le Istruzioni speciali n. 11 nelle quali era previsto un attacco in tre fasi distinte l'ultima delle quali doveva concludersi con lo sfondamento al centro per guadagnare l'accesso alla strada di Roma nella valle del Liri [13]. La prima fase, con inizio il 2 o 3 dicembre, doveva portare alla conquista delle posizioni-chiave di Monte Camino, Monte La Difensa e Monte Maggiore. Quanto alla fase centrale, nella quale era prevista l'entrata in linea del Raggruppamento, aveva come obiettivo principale Monte Sammucro e un attacco verso occidente lungo la strada Colli-Atina [14].
Alla vigilia dell'attacco la 5ª Armata era schierata su tre Corpi d'Armata lungo un fronte di circa 70 chilometri. A occidente, dalla costa di Monte Camino, vi era il X Corpo d'Armata comandato dal generale inglese McCreery (Divisioni di fanteria 56ª e 46ª); l'estrema destra era tenuta dal VI Corpo d'Armata (Divisioni di fanteria 45ª e 34ª) comandato dal generale americano Lucas. Al centro si trovava il II Corpo d'Armata comandato dal generale americano Keyes alle cui dipendenze operavano i generali Truscott (3ª Divisione) e Walker comandante della 36ª Divisione di fanteria ("Texas"): a questa unità americana fu aggregato il I Raggruppamento motorizzato italiano [15].
A queste forze i tedeschi potevano opporre forze quasi equivalenti, ammontanti a circa 5 Divisioni granatieri corrazzati, più la Divisione corrazzata "Hermann Goering" di riserva. Per di più, le due Divisioni schierate al centro della linea erano fresche: una di queste, la 29 Divisione granatieri corrazzati, teneva le posizioni centrali e settentrionali della stretta di Mignano e in particolare Monte Lungo [16].
La prima fase dell'attacco, detta anche operazione "Raincoat", ebbe inizio regolarmente il 2 dicembre. Alle 16,30 le artiglierie della 5ª Armata forti di 925 pezzi, aprirono il fuoco: tutti i pezzi meno 105 tiravano sulle posizioni che il nemico occupava sulle pendici nude del Monte Camino [17].
L'azione dell'artiglieria proseguì per due giorni: furono lanciati proiettili ad alto esplosivo e al fosforo contro le caverne e le tricee profonde dei tedeschi [18]. Era la massa di fuoco più intensa vista fino a quel momento nella campagna d'Italia: tuttavia gli esiti furono inferiori all'attesa [19].
Alle 16,30 la 56ª Divisione iniziò l'attacco rinnovando con due battaglioni il tentativo di conquistare Monte Camino la cui vetta fu occupata finalmente il 6 dicembre. Mentre questo attacco, il più importante previsto nella I fase, avveniva sulla sinistra del fronte a opera delle unità del X Corpo d'Armata, al centro le truppe del II Corpo si battevano duramente per conquistare prima e difendere poi i monti La Remetanea e La Difensa, che costituivano la chiave d'attacco alla cresta del Monte Maggiore, occupati definitivamente soltanto alla metà dell'8 dicembre. Quanto al Monte Maggiore, l'attacco fu affidato al 142° reggimento fanteria americano (36ª Divisione) che riuscì ad occuparne le sommità (quote 619 e 630) il 3 dicembre e le difese da numerosi attacchi tedeschi nei giorni successivi [20].
Si chiudeva così la prima fase con un sostanziale successo e col raggiungimento degli obiettivi prefissati
Il 7 dicembre, mentre la prima fase era ancora in corso, aveva inizio la seconda i cui scopi erano così indicati nella relazione ufficiale della 5ª Armata:
Il compito principale della seconda fase, assegnato al II Corpo, era il Monte Sammucro. L'operazione "Raincoat" aveva aperto la strada al Garigliano per una distanza di venti miglia dal mare, ma le alture di Monte Lungo e Monte Sammucro che controllavano la stretta di Mignano e l'ingresso alla Valle del Liri, erano ancora in mano del nemico. La stretta valle compresa fra queste due montagne era molto ben difesa, con San Pietro ai piedi del Sammucro come centro di resistenza. Perchè un attacco contro San Pietro avesse successo occorreva che Monte Lungo e quota 1205, la sommità del Sammucro, fossero conquistati [21].
Si trattava di un compito non facile, al punto che occorsero due tentativi per avere ragione della tenace e ben organizzata resistenza tedesca; cosicchè la seconda fase dell'attacco alla "Winter Line" si sdoppiò nelle due battaglie di San Pietro, secondo la definizione degli americani. Questo compito, come detto, era stato assegnato al II Corpo d'Armata e, in particolare, alla 36ª Divisione americana ("Texas") alla quale a partire dal 4 dicembre fu aggregato il I Raggruppamento motorizzato, che si doveva tenere pronto a muovere la forza necessaria all'operazione (..) la sera del 6 dicembre, secondo le indicazioni del comunicato del II Corpo d'Armata americano inviato al comandante del Raggruppamento il 3 dicembre [22].
Il generale Dapino a tale scopo prendeva immediatamente contatto col comandante della 36ª Divisione americana per istruzioni e per coordinare dei piani di azione. I risultati dei colloqui furono poi riassunti dal generale Walker in un Memorandum per il generale Dapino nel quale si prevedeva che:
Erano come si vede indicazioni preliminari riguardanti i compiti spettanti al Raggruppamento e il settore ad esso assegnato nell'azione imminente. Il 6 dicembre giunse dal comando della 36ª Divisione americana l'ordine di operazioni n. 39 relativo all'attacco a Monte Lungo e Sammucro alle ore 6,20 dell'8 dicembre [24]. Questo il piano d'azione predisposto dal generale Walker:
Il 6 dicembre, dopo aver ricevuto le istruzioni della 36ª Divisione americana, il generale Dapino inviava ai comandanti dipendenti l'Ordine di operazione n. 1 nel quale affermava che il Raggruppamento avrebbe attaccato preponderando con le forze lungo il costone q. 253-343-351 [25]. La colonna, guidata dal colonnello Bonfigli comandante il 67° reggimento fanteria, comprendeva il LI battaglione bersaglieri, il V battaglione controcarri, 2 plotoni artieri con elementi specializzati nella ricerca di mine, e 2 sezioni da 20, m/m. L'attacco principale sarebbe stato condotto da un battaglione di fanteria in primo scaglione, mentre l'altro battaglione, in secondo scaglione, restava sulle pendici sud di Monte Rotondo. Sulla sinistra il LI battaglione bersaglieri avrebbe operato in appoggio con un attacco sussidiario contro Colle San Giacomo. Complessivamente la fanteria combattente ammontava a circa 1500/1600 uomini, 600 circa per ciascuno dei due battaglioni del 67°, ai quali andavano aggiunti i circa 350 del LI bersaglieri [26].
Il giorno successivo con l'Ordine d'operazione n. 2 si prevedevano alcune modifiche riguardanti l'aggregazione di una sola compagnia di bersaglieri al 67° da impiegare per proteggere dalle provenienze della zona di Colle San Giacomo l'azione del battaglione in primo scaglione [27]. Le altre compagnie dovevano rimanere sul rovescio di Monte Rotondo per costituire riserva del Raggruppamento. Quanto all'artiglieria erano previsti tiri di preparazione a partire da 45 minuti prima dell'ora "H" fissata per l'attacco ad opera dell'11° reggimento artiglieria su Monte Lungo, limitatamente al settore compreso fra la ferrovia e la rotabile nazionale n. 6. Mezz'ora prima dell'ora "H" l'artiglieria americana avrebbe aperto il fuoco su Monte Lungo, Colle San Giacomo e zona retrostante a questo. A partire dall'ora "H", mentre l'11° artiglieria continuava a tirare su Monte Lungo, l'artiglieria americana teneva sotto il fuoco Colle San Giacomo, pronta ad allungare il tiro su Monte Lungo dietro richiesta italiana [28].
Tutto sembrava dunque predisposto per l'attacco italiano su Monte Lungo, dosso allungato, scoperto e roccioso (...) vera e propria altura carsica, spezzata in una serie di ondulazioni di altezza crescente man mano che si procede verso le posizioni nemiche [29].
Per quanto riguarda la situazione del nemico, va osservato che le notizie in possesso degli italiani e americani presentavano una discrepanza che avrebbe dovuto essere tenuta in maggiore considerazione: l'Ufficio "I" del II Corpo d'Armata americano riteneva che la linea tedesca partisse da q. 100 della ss. n. 6 a nord-est di Monte Rotondo per tagliare le pendici orientali di Monte Lungo, attraversare il Torrente Peccia, risalire a Colle San Giacomo e attestarsi sulle basse pendici settentrionali di Monte Maggiore; secondo le informazioni in possesso degli italiani, che alla prova dei fatti risulteranno esatte, invece la linea risultava più a sud, passando per Monte Rotondo q. 253, per scendera a Ponte Primo Peccia [30].
Queste posizioni erano tenute, secondo le informazioni ricavate da prigionieri e disertori, poi verificate direttamente, dal III battaglione del 15° reggimento della 29ª Divisione granatieri corrazzati: in tutto 4 compagnie, la 9ª, la 10ª, 11ª e 12ª. Le prime due, ai margini orientali di Monte Lungo, le altre due su quelli settentrionali: complessivamente 500 uomini. A sinistra del III era schierato il I battaglione dello stesso reggimento, mentre il II era in secondo scaglione. Sul monte si trovavano numerose postazioni di mitragliatrici e mortai [31].
La prima azione su Monte Lungo
La sera del 7 dicembre, poche poche ore prima dell'attacco italiano, ebbero inizio le operazioni per la conquista degli obiettivi sulla destra di Monte Lungo: il Monte Sammucro e il paese di San Pietro Infine [32]. [schizzo n. 4].
Le truppe della 36ª Divisione americana, e precisamente il I battaglione del 143° reggimento fanteria, mossero all'attacco della quota 1205 del Sammucro, mentre il III battaglione "Rangers" puntava su quota 950. Conquistati i due obiettivi con un riuscito attacco a sorpresa, le unità americane erano ricacciate sulle posizioni di partenza da un contrattacco tedesco la mattina dell'8 dicembre. Soltanto un nuovo duro attacco permetteva al I battaglione di riprendere quota 1205 alla metà di quella mattina, mentre quota 950 era conquistata dai "Rangers" soltanto all'alba del giorno successivo, 9 dicembre. Occupate le quote dominanti il giuoco sembrava fatto: invece i tedeschi mantenevano il controllo della valle e di San Pietro grazie alle loro posizioni sulle pendici inferiori del monte [33].
Quanto a San Pietro, le cose andarono ancora peggio. Qui il II battaglione partì all'attacco contemporaneamente al I Raggruppamento motorizzato, esattamente alle 6,20 dell'8 dicembre, ma, percorsi poco più di 400 metri, i fanti americani dovettero arrestarsi di fronte a un fuoco di mortai pesanti, artiglierie e mitragliatrici [34]. Neppure le due compagnie del III battaglione inviate in soccorso del II battaglione riuscirono a raddrizzare la situazione. Durante la notte le posizioni tedesche furono sottoposte ad un intenso fuoco d'artiglieria. All'alba del 9 fu ripreso l'attacco che si protrasse dalle 7 alle 19 ma con risultati insignificanti. La fanteria fu costretta ancora una volta a tornare sulle posizioni di partenza lasciando all'artiglieria la magra soddisfazione di far piovere bombe sulle pressoché inespugnabili postazioni nemiche [35].
Mentre questi fatti accadevano sulla destra, il I Raggruppamento motorizzato si preparava ad attaccare all'ora "H" Monte Lungo coperto da una fitta nebbia che imediva l'osservazione del fuoco d'artiglieria. Secondo Dapino questo risulterà comunque abbastanza soddisfacente essendo stati eseguiti tiri di inquadramento nel giorno precedente [36]. Tiro preciso forse ma, certamente, non altrettanto efficace come vedremo. Alle 6,20, come previsto, ha inizio l'attacco. I fanti del I battaglione in primo scaglione cominciano ad avanzare verso quota 253. Sulla sinistra è schierata la 2ª compagnia bersaglieri, che procede a cavallo della ferrovia [37].
L'avanzata dei fanti è subito ostacolata da alcune contrarietà, sebbene di lieve entità per il momento, così descritte dal capitano Enzo Corselli comandante la 1ª compagnia:
Iniziammo il movimento durante il fuoco di preparazione, ancora in una fitta oscurità. Ma, a causa di questa e del terreno comnpartimentato e rotto, i nostri plotoni si disunivano e perdevano la direzione. Sciupammo così del tempo prezioso, sfasando la nostra azione rispetto al fuoco d'artiglieria, col quale era sicnrocnizzata in base all'orario, non essendo possibile l'osservazione date le condizioni di visibilità [38].
La perdita di tempo si rivela dannosa anche perchè impedisce di approfittare dell'oscurità fino in fondo; nel frattempo il nemico ha avuto modo di capire le intenzioni italiane e di correre ai ripari: ben presto i reparti del Raggruppamento sono sottoposti a raffiche sempre più intense (...) e i proiettili, impattando sul terreno roccioso, generavano miriadi di schegge [39].
Per fortuna la nebbia è ancora fitta e serve a proteggere gli uomini della 1ª compagnia che scendono di corsa da quota 253 con le squadre
ancora in fila [40]. Ben presto un nuovo grave contrattempo viene a turbare l'avanzata: la perdita del collegamento col comando di
battaglione, assicurato a mezzo di un telefono volante; isolati dal resto del reggimento, i fanti del 1° battaglione continuano l'attacco mentre cresce
di intensità il fuoco nemico, sia di mortai sia di armi leggere [41]. Bisogna stringere i tempi, anche perchè intanto la nebbia va diradandosi.
Lasciamo di nuovo la parola al capitano Corselli:
La compagnia spiegò le squadre diradandosi sul terreno, poiché l'aumentata visibilità lo consentiva senza che il reparto
si disunisse, ed assunse la formazione di un attacco con due plotoni avanzati ed uno di rincalzo.
Superammo, senza incontrare il nemico, l'obiettivo intermedio (quota senza indicazione di numero) [42].
La risposta a questa apparente anomalia la forniscono immediatamente gli stessi tedeschi con un fuoco micidiale di armi automatiche proveniente da Monte Maggiore: Evidentemente - commenta Corselli - quell'obiettivo era "tenuto" col fuoco accuratamente predisposto su di esso [43].
E' appunto questo fuoco inatteso che sta seminando strage sulla sinistra dei bersaglieri: particolarmente sotto tiro è il fianco sinistro del fronte
d'attacco del battaglione bersaglieri dove agisce la 2ª compagnia. Questa è letteralmente presa tra due fuochi, quello frontale e d'infilata sulla
sinistra, per l'improvviso svelarsi da questa parte di un reparto tedesco che per evitare di essere tagliato fuori dalla nostra azione frontale stava
ritirandosi sulle basse pendici di Monte Maggiore per ricongiungersi al bastione di Montelungo [44].
L'improvviso attacco tedesco
provoca il vuoto tra le file della compagnia che in breve tempo perde gran parte dei suoi effettivi, compresi 4 ufficiali [45].
Frattanto sul Monte Lungo la 1ª e la 2ª compagnia, seguite dalla 3ª di rincalzo, proseguono l'avanzata. Fino ad ora le perdite non sono state sensibili, secondo Corselli, per via della nebbia e della nostra corsa senza respiro che ci aveva fatto superare lo sbarramento del fuoco dei mortai avversari [46].
A questo punto la svolta. Mentre sfumava la nebbia (e) il sole decembrino si levava scialbo a illuminare la fase conclusiva (...) la reazione
nemica raggiungeva l'apice della sua violenza. Il terreno era spazzato dal fuoco delle mitragliatrici, frontalmente, dalle posizioni di quota 343, e
d'infilata e di schiancio da Monte Maggiore E' lo stesso fuoco che a valle, sulla sinistra del fronte principale d'attacco
ha decimato i bersaglieri del LI battaglione. Per i fanti del 67°, più defilati, le cose per il momento vanno meglio.
Essi sono ormai sotto
l'obiettivo; ha ora un duello a bombe a mano che vede gli italiani svantaggiati rispetto ai tedeschi, costretti come sono a lanciare le bombe
dal basso verso l'alto, stando allo scoperto. Inoltre, dispongono soltanto di bombe tipo SCRM contro le più efficaci bombe Mod. '24, che i
tedeschi lanciano legate a grappoli di tre [48]. E' in questa fase che i reparti del 67° subiscono le perdite più pesanti. Ciò
nonostante, con un ultimo sforzo elementi della 1ª compagnia riescono a conquistare numerose posizioni di q. 343: a meno di due ore dall'inizio
dell'attacco, l'obiettivo sembra essere stato raggiunto [49]; è però una vittoria effimera:
Prima ancora che potessimo pensare ad oltrepassare le postazioni espugnate ed a consolidarsi sul terreno, un fuoco violentissimo c'investì [50].
La reazione tedesca coglie di sorpresa gli italiani non tanto per la sua violenza, peraltro prevedibile, quanto per la sua natura insolita che il capitano Corselli così descrive:
Non era il classico fuoco di repressione effettuato da artiglieria e da mortai. Era il tiro mirato, diretto al singolo avversario da brevissima distanza, effettuato da un nemico cbe non riuscivamo ad individuare. In tre anni di guerra su diversi fronti e contro eserciti diversi, mai avevamo subito una tale forma di contrattacco (...). I tedeschi strisciavano a terra vicinissimi, tra roccia e roccia, si frammischiavano a noi e ci bersagliavano con raffiche di mitra e bombe di pistola [51].
Anche da parte tedesca si sottolinea la sorpresa provocata negli italiani dal contrattacco inarrestabile lanciato dai cacciatori che avevano ormai superato l’iniziale momento di paura [52]. Di fronte alla reazione dei tedeschi che ora escono al contrattacco, i fanti del 67°, esaurite le scorte di bombe a mano, non disponendo che del lento fuoco dei (...) moschetti '91, sono costretti a ripiegare [53].
La ritirata delle truppe italiane è protetta dalle artiglierie del 141° inviate per la circostanza su Monte Rotondo e dagli obici del 194° e del 155° artiglieria campale che battono la sommità di Monte Lungo e in particolare le posizioni di quota 545 per scoraggiare i tedeschi dall'approfittare del successo [54]. Mentre i resti della lª e 2ª compagnia e della 3ª del I battaglione rimasta di rincalzo, sono ricacciati verso le posizioni di partenza, su quota 253 vengono inviate le compagnie 6ª e 7ª del II battaglione che era stato lasciato in secondo scaglione. Questa unità si era nel frattempo notevolmente ridotta di forze, sia per alcune perdite dovute al tiro dei mortai tedeschi, sia, soprattutto, perché molti dei suoi componenti si erano sbandati impressionati dalle voci allarmistiche provenienti dalla prima linea: soltanto a sera inoltrata erano ripresi alla mano e inviati su quota 253 dove giungevano alle 19,30 [55].
Alla fine della giornata il bilancio risultava molto grave per le perdite di uomini e per la profonda depressione morale provocata nelle truppe dall’esito negativo della prova. La situazione, per la verità, apparve anche peggiore di quanto realmente fosse perché la confusione del momento fece lievitare fin quasi a raddoppiarle le perdite del Raggruppamento che a un primo esame sembravano ammontare a circa 500 fra morti, feriti e dispersi [56]. Successivi e più attenti controlli dettero il seguente quadro definitivo, certamente non lieve, ma meno tragico della situazione: 47 morti, 102 feriti, 151 dispersi [57].Impossibile tradurre in termini concreti la portata del danno morale che fu comunque profondo e duraturo, come vedremo in seguito.
Le cause di un fallimento
A questo punto è d’obbligo domandarsi perché sia fallita un’azione come quella su Monte Lungo che sulla carta appariva facile e alla quale gli italiani si erano apprestati pieni di entusiasmo e grandi speranze di successo, secondo le testimonianze degli stessi americani [58]. A questo interrogativo cercarono di rispondere subito i protagonisti della vicenda per trarne insegnamenti che permettessero di ritentare con successo l’operazione.
ll generale Dapino fu il primo a muoversi in questa direzione. Le sue considerazioni, scritte a caldo, individuano le cause dell’insuccesso nella mancata realizzazione di alcune condizioni preliminari ritenute dagli stessi alleati indispensabili per il buon esito dell’intera operazione. Il pensiero di Dapino si può così sintetizzare: contrariamente a quanto ripetutamente affermato dai comandi del Il Corpo d’Armata e della 36ª Divisione, 1) le posizioni di Monte Maggiore non erano completamente in mano alleata al momento dell’attacco italiano su Monte Lungo, 2) l’attacco del 143° reggimento non ebbe successo nella conquista di San Pietro e del Monte Sammucro (sulla destra di Monte Lungo), 3) Monte Lungo non era difeso da un velo di fuoco, ma da forze consistenti e ben equipaggiate, 4) l’artiglieria fu meno efficace del previsto, 5) i reparti del Raggruppamento furono portati in linea, per motivi di sicurezza, soltanto il giorno precedente l’azione, senza concedere loro il necessario periodo di orientamento, 6) per questo stesso motivo non ebbero il tempo di raccogliere informazioni di prima mano e di vagliare l’esattezza di quelle che erano state loro fornite [59].
L’esito negativo della prova diveniva in queste condizioni pressoché inevitabile.
Dapino riconosce tuttavia che vi furono anche da parte italiana alcune carenze che attribuisce in parte al collasso provocato in alcuni dalla sorte toccata al I battaglione fanteria, ma in parte anche alla deficienza dei quadri, particolarmente avvertita nel II battaglione del 67 ° fanteria nel quale effettivamente il fenomeno dello sbandamento fu più rilevante [60].
Da parte loro gli americani tendono generalmente a individuare le cause del fallimento nei limiti soggettivi delle truppe italiane e negli errori commessi dai comandi del Raggruppamento piuttosto che nelle pur riconosciute difficoltà oggettive presentate dall’azione. È un’impostazione che possiamo cogliere, come è stato giustamente affermato, già dal messaggio inviato il 10 dicembre al generale Dapino dal generale Walker comandante la 36ª Divisione che dopo aver elogiato le truppe italiane per l’entusiasmo, lo spirito ed il magnifico coraggio che hanno dimostrato, così conclude:
Sono sicuro che le vostre truppe, come le nostre, integreranno il loro entusiasmo con una maggiore esperienza per portare a termine l’opera di distruzione del nostro comune nemico [61].
Ma quello che è appena un cenno, attenuato dalle espressioni di cortesia e dall’accostamento delle vicende dei soldati italiani a quelle dei cobelligeranti americani, in sede storiografica è divenuta una precisa impostazione interpretativa. Martin Blumenson, uno degli storici ufficiali dell’Esercito degli Stati Uniti nella seconda guerra mondiale, insiste, oltreché sull’inesperienza, su errori e disorganizzazione; errori riscontrabili 1) nella scelta tattica di avanzare in formazione compatta, fidando più del dovuto nell’azione demolitrice dell'artiglieria; 2) nella carenza di munizioni verificatasi nel vivo della battaglia a causa delle errate valutazioni di Dapino circa le necessità del Raggruppamento in proposito. La disorganizzazione, fu particolarmente grave nei collegamenti tra fanteria, artiglieria e servizi. Inoltre Blumenson ritiene di dover sottolineare come alla vigilia dell’azine il generale Walker perdesse gran parte della sua fiducia nel successo in seguito alla visita del generale Dapino che lo impressionò meno che favorevolmente. Con la qual cosa Blumenson sembra voler suggerire, senza troppi sottintesi, un’altra possibile concausa del fallimento [62]. Va detto però che a conclusione della sua analisi sulle cause del mancato successo del Raggruppamento motorizzato italiano, Blumenson riconosce che Monte Lungo, e in particolare la sua estremità meridionale, non era un'obiettivo facile per una unità che intraprendeva la sua prima azione operativa [63]. Questa verità evidente, che costituisce agli occhi dello storico americano una grossa attenuante, non sposta i termini del problema rispetto all’impostazione di Dapino: in sostanza per Blumenson è pur sempre per proprie carenze soggettive che l’unità italiana non colse l’obiettivo propostole; obiettivo difficile certamente, ma tale, sembra dire Blumenson, da poter essere conseguito da un reparto esperto e bene addestrato.
Come si vede l’impostazione è affatto opposta a quella del generale Dapino per il quale le cause del fallimento sono, per così dire, esterne all’operato della propria unità e, in definitiva, dovute a circostanze tali da mettere in difficoltà qualunque tipo di truppa, a prescindere dall’addestramento e dall’esperienza.
Quale di queste due linee interpretative e quella corretta? È quello che cercheremo di chiarire avendo come punti di riferimento nella nostra analisi le indicazioni fornite dai due autori citati.
Tornando a Dapino, abbiamo visto che il comandante del Raggruppamento motorizzato sottolineava (punti 5 e 6) come molto grave il fatto che le truppe italiane fossero condotte in linea soltanto alla vigilia del combattimento, cosa che impedì loro di prendere confidenza con il terreno e informazioni di prima mano sui tedeschi. Su quest’ultimo punto torneremo fra poco. Per quanto riguarda il primo, si tratta di un fattore la cui importanza ai fini della riuscita dell’operazione si commenta da sola. La scarsa, o per meglio dire nulla, dimestichezza con il campo di battaglia ebbe effetti disastrosi sulla fanteria che iniziò l’attacco in una totale crisi di disorientamento [64].
Circa l’azione di fuoco dell’artiglieria (Dapino, punto 4) essa fu breve ma di intensita eccezionale, come scrive il capitano Corselli che così precisa:
Però, come constatammo una volta che fummo sulle postazioni nemiche, il tiro della nostra artiglieria risultò corto e quello dell'artiglieria americana lungo [65].
Intanto però l’enorme sfoggio di potenza da parte dell’artiglieria americana aveva avuto l’effetto di far sorgere negli italiani ingiustificate aspettative negli effetti del tiro preparatorio, con conseguenze nefaste per gli attaccanti. A questo stato d’animo si dovrebbe dunque l’adozione di un piano d’attacco preparato e condotto secondo una tecnica da passeggiata da effettuarsi lungo la linea di massima pendenza, come lo definisce Cesare Medeghini; un giudizio forse un pò forte ma che conferma quanto scritto dal Blumenson circa l'indisciplina d'attacco con la quale le nostre truppe si lanciarono alla conquista di Monte Lungo [66]. Un atteggiamento non giustificabile ma nella circostanza spiegabile con la convinzione di trovare su Monte Lungo una resistenza se non vinta per lo meno notevolmente ammorbidita dalla serenade americana che aveva preceduto l’attacco [67].
In tal modo si spiegherebbe anche la sottovalutazione di quelli che il Medeghini definisce eventuali imprevisti, anche di carattere meteorologico, che avrebbero potuto verificarsi durante lo svolgimento dell'azione. In particolare la nebbia che, presente sul monte al momento dell’attacco, si sollevò all’improvviso nel corso della battaglia lasciando allo scoperto gli attaccanti, dopo aver protetto le prime fasi dell’azione. In tal modo, fanti e bersaglieri (che avevano marciato con tanta sicurezza tenendo i fianchi completamente scoperti) si trovarono circondati non appena la nebbia si dileguò, divenendo oggetto come si è visto, di un vero e proprio tiro al bersaglioda parte dei tedeschi [68].
Qui Medeghini tocca due punti già citati dal generale Dapino e precisamente il fatto che le nostre fanterie furono sottoposte a intenso fuoco
proveniente dai fianchi che dovevano essere liberi e l’inattesa intensità del fuoco tedesco. Cominciamo da questo secondo aspetto. I tedeschi,
scriveva Dapino (punto 3), non disponevano su Monte Lungo di un semplice velo di fuoco; erano invece numerosi e bene equipaggiati. In realtà il
numero assoluto dei tedeschi non era elevatissimo e, come abbiamo visto in precedenza, le loro forze erano sufficientemente note ai comandi
del Raggruppamento alla vigilia dell'attacco.
Le posizioni di Monte Lungo erano tenute dal III battaglione del 15° reggimento granatieri corazzati su quattro compagnie per complessivi 500 uomini
circa, ai quali si opponevano i poco meno di 1000 tra fanti e bersaglieri del 67° in primo scaglione. Sulla carta dunque un rapporto di 2 a 1. Nella
realtà le cose andarono molto diversamente perché i difensori di quota 343 poterono contare sull’apporto di elementi della «Goering» e sul fuoco
inatteso dei reparti lasciati sulle pendici di Monte Maggiore; per contro le unità del 67° in secondo scaglione non furono quasi di alcun aiuto ai
reparti in ritirata [69]. Nonostante ciò è probabile che i tedeschi impegnati nella difesa di Monte Lungo furono inferiori numericamente
agli italiani ma sufficienti, date le favorevoli condizioni logistiche e di armamento, per rovesciare i rapporti di forza a proprio vantaggio. In
particolare, i tedeschi si rivelarono superiori per quanto riguarda l’armamento. Di ciò gli italiani vennero a conoscenza alla immediata vigilia
dell’attacco, forse troppo tardi per correre ai ripari. Furono gli stessi americani, ai quali stavano dando il cambio, a informarli:
(...) i tedeschi sono relativamente pochi, ma dispongono di un grande volume di fuoco e tirano assai hene. Avrete di fronte truppe scelte della 29 Divisione Panzergrenadiere [70].
Queste truppe di prima qualità si erano organizzate a difesa in formidabili postazioni (...) di forma circolare, scavate nella viva roccia con esplosivo, munite di un parapetto costituito da sacchetti di sabbia inframmezzati da pezzi di rotaia divelti dalla strada ferrata che correva a fondo valle (...). Ciascuna postazione era presidiata da due soli uomini che però disponevano di un MG 42, due fucili Mauser con cannocchiale, due pistole mitragliatrici, per la difesa vicina, e casse ai bombe a mano [71].
Da questo punto di vista invece da parte italiana vi erano carenze che si rivelarono particolarmente gravi proprio al momento del contrattacco tedesco allorchè, esaurite le bombe a mano, ci si dovette difendere con i poco efficaci moschetti "91", perchè - scrive Corselli — la compagnia aveva ricevuto solo tre mitra 38 A, al momento di andare in linea, destinati ai soli comandanti di plotoni fucilieri [72].
Per quanto riguarda il fuoco inatteso sui fianchi che falcidiò le truppe attaccanti, esso proveniva dunque da Monte Maggiore dato per certo in mano degli americani. Per l'esattezza Dapino sottolinea che anche sul fianco destro riteneva alla vigilia di non dover nulla temere avendogli assicurato gli americani che l’obiettivo previsto da quella parte (Monte Sammucro - San Pietro Infine) sarebbe stato attaccato e sicuramente conquistato.
L’ordine di operazione n. 6 della 36ª Divisione americana, datato 6 dicembre, prevedeva, come abbiamo visto, si dovesse attaccare e conquistare Monte Lungo e Monte Sammuero (sic) alle ore 6,20 dell’8 dicembre [73]. Un attacco simultaneo dunque nel quale ciascuno dei due attaccanti avrebbe potuto trarre beneficio dal successo dell’altro. Se ciò non avvenne fu appunto per il contemporaneo fallimento del I Raggruppamento motorizzato e del 145° fanteria americano dovuto in gran parte a cause comuni. C’è da osservare anzi che la relazione ufficiale della 5ª Armata affronta in modo alquanto diverso l’episodio sostenendo che il fallimento del tentativo di prendere San Pietro mediante una manovra di aggiramento sulla sinistra (Monte Lungo) e sulla destra (Monte Sammucro) fu dovuto appunto al mancato successo delle operazioni condotte sui fianchi: a sinistra dal Raggruppamento italiano, del quale peraltro si riconosce il coraggio nella battaglia, a destra, dal II battaglione del 143° reggimento [74].
Questa unità americana fu letteralmente inchiodata dal fuoco di fianco che proveniva dalle posizioni tedesche sul Monte Sammucro. Così commenta la relazione ufficiale americana:
Ogni accesso a San Pietro era protetto dal fuoco di fianco che proveniva dalle posizioni ancora tenute dal nemico su Monte Sammucro e Monte Lungo. Il villaggio non poteva essere preso fincbe' il nemico non fosse stato sloggiato da queste posizioni di fianco [75].
Il mancato successo del Raggruppamento motorizzato viene dunque inserito all’interno del complessivo fallimento dell’intera azione e messo in stretto rapporto a quello del II battaglione del 143° reggimento sulla destra e il ragionamento di Dapino viene ad essere rovesciato per quanto riguarda il fianco destro del Monte Lungo: non è stato, secondo gli americani, il fuoco proveniente da destra a impedire il successo italiano, ma, al contrario, la mancata conquista del monte da parte dei fanti del Raggruppamento ha impedito per la sua parte al 143° impegnato nell’attacco a San Pietro di avere il fianco sinistro libero. Il ragionamento della relazione ufficiale americano è formalmente ineccepibile, traendo forza dalla stessa impostazione tattica della battaglia che aveva come obiettivo principale lo sfondamento al centro su San Pietro (ed eventualmente la successiva conquista di San Vittore) da ottenere appunto mediante l’aggiramento sui fianchi.
Ma se E vero che i reparti americani operanti al centro dello schieramento d’attacco possono lamentarsi di non aver ricevuto l’aiuto sperato dai loro compagni di Divisione sulla destra e dagli italiani sulla sinistra, questi, a loro volta, hanno diritto di recriminare per essersi trovati di fronte a una situazione sul fianco sinistro talmente imprevista e difficile da fronteggiare, da causare il fallimento dell’azione e impedire loro di assolvere il compito che gli era stato affidato. Ed è proprio la seconda battaglia di San Pietro che conforta le affermazioni di Dapino su questo punto, che riteniamo effettivamente una delle chiavi di volta per comprendere il fallimento del primo tentativo: il 16 dicembre infatti l’occupazione, questa volta completa, di Monte Maggiore faciliterà la conquista di Monte Lungo, preludio alla definitiva ritirata tedesca dalla stretta di Mignano.
Per quanto riguarda la presenza tedesca sulle pendici di Monte Maggiore, la maggior parte degli autori ha sottolineato l’inesattezza delle informazioni in possesso degli americani: questi per la verità, sapevano che i tedeschi tenevano ancora numerose posizioni sul monte e alla vigilia dell’attacco su Monte Lungo se ne accorsero anche gli italiani. La mattina del 7 dicembre infatti, il capitano Corselli andò in ispezione con un suo ufficiale oltre la quota 253 per rendersi conto del terreno sul quale si sarebbe dovuto attaccare [76]. Ecco la testimonianza del comandante della 1ª compagnia che si esprime in terza persona:
La giornata era chiara: appena i due ufficiali ebbero superata strisciando la quota 253, sul lato overt (...) raffiche rabbiose e qualche colpo isolato di fucile li accolsero (...)
Corselli si sorprese del fatto, dal momento che la posizione occupata e i numerosi ripari rocciosi offerti dal terreno facevano escludere l’avvistamento dalle posizioni tedesche sulla quota 343. Appena qualche attimo di incertezza poi una raffica con cartucce traccianti, chiarì la situazione: il fuoco proveniva dalla loro sinistra, da Monte Maggiore. Ma questo monte ci era stato dato occupato dagli americani, possibile che fossero loro a sparare? Essi sapevano che il terreno su cui sparavano era occupato da noi: non erano gli americani ovviamente, ma i tedeschi: (...) e poi il ritmo delle mitragliatrici '42, le mitragliatrici dai 200 colpi al minuto che noi chiamavamo la «voce di Hitler» era inconfondibile: quindi su Monte Maggiore, dal quale si dominava tatto il percorso che la compagnia avrebbe dovuto effettuare attaccando, vi erano i tedeschi! [77].
La preoccupazione di Corselli è comprensibile: l’inattesa novità poteva sconvolgere tutti i piani di attacco. ll comando italiano informato della cosa cercò chiarimenti presso gli americani ottenendo una risposta apparentemente rassicurante:
(...) la situazione a Monte Maggiore era fluttuante, essendovi ancora delle residue postazioni tedesche in caverna, ma gli americani avrebbero effettuato delle azioni contro di esse nel corso del nostro attacco, per cui non sarebbero state in condizioni di nuocerci [78].
Ma non fu così e lo stesso Corselli commenta amaramente:
Invece l’indomani, proprio il fuoco proveniente da questo monte, doveva costarci caro [79].
Come si spiega tutto ciò? E sufficiente a tale scopo l’ipotesi di un equivoco (?) sull'interpretazione delle quote avanzata, peraltro senza molta convinzione, dal colonnello Castelli? [80]. ln ogni caso mancò un’altra delle premesse sulle quali si basavano i piani di operazione elaborati dai comandi americani: vale a dire, l’appoggio dalla sinistra all’attacco del Raggruppamento da parte del 142° reggimento fanteria. Infatti contrariamente alle assicurazioni l’attacco contemporaneo sulle pendici di Monte Maggiore (...) non venne nemmeno tentato dai fanti americani, lasciando così sguarnito il settore [81]. I fanti italiani si trovarono a dover combattere sotto gli sguardi di gente che dall’anfiteatro circostante li osservava curiosamente con le armi ai piedi [82].
Queste vicende belliche e, ancor più le conseguenze «politiche» che queste ebbero di lì a poco, (vale a dire la decisione americana di ritirare il Raggruppamento dal fronte e utilizzarne la maggior parte degli effettivi per servizi ausiliari) hanno spinto qualche autore ad avanzare l’ipotesi che da parte americana ci sia stata la precisa volontà di provocare proprio quel tipo di risultato. Secondo Filippo Frassati e Pietro Secchia infatti, le stesse truppe italiane furono le prime ad avere la scoraggiante sensazione ai essere state deliberatamente mandate allo sbaraglio dagli alleati, in base al calcolo che un insuccesso iniziale avrebbe costituito un ottimo pretesto per liquidare ogni ulteriore pretesa italiana di contribuire efficacemente alla guerra, sia potenziando quell'esiguo corpo, sia costituendo altre unità da combattimento, e non solo fornendo uomini per lavoro di manovalanza [83].
L’ipotesi non è priva di suggestioni anche perché permetterebbe di dare una spiegazione logica a una serie di punti oscuri finora esaminati, a cominciare dalla precipitazione con la quale l’unità italiana fu portata in linea e mandata a combattere praticamente «al buio», per finire col modo sconcertante con il quale fu lasciata sola nel momento cruciale della battaglia. Ma in casi di questo genere è bene fare attenzione alle troppo facili suggestioni. Senza voler prendere in considerazione le ragioni politiche che al momento consigliavano una partecipazione, seppure soltanto simbolica, degli italiani alla guerra, basterebbe ricordare che furono gli stessi americani ad offrire al I Raggruppamento la possibilità di ritentare la prova una settimana più tardi; nella circostanza parvero addirittura forzare la mano allo scoraggiato generale Dapino che da parte sua avrebbe voluto rinunciare e ritirare anzitempo il Raggruppamento [84].
Ma ancora prima di ogni altra considerazione, ci sembra valgano a ridimensionare l'ipotesi che stiamo discutendo alcuni riscontri obiettivi sui metodi di guerra messi in mostra dagli americani in questa fase della campagna d’Italia e alcune vicende che, anche in conseguenza di quei metodi, videro protagoniste negative le loro truppe. A cominciare da quelle del 143° fanteria che nell’assalto a San Pietro Infine ebbe una sorte non dissimile da quella toccata al I Raggruppamento motorizzato (anche per quanto riguarda i danni dovuti al previsto fuoco di fianco). Non era la prima volta del resto che questo accadeva, né sarebbe stata l’ultima se si pensa al tentativo di attraversare il Fiume Rapido effettuato il 20 e 22 gennaio 1944 che vide ancora una volta la 36ª Divisione comandata dal generale Walker andare incontro a un clamoroso insuccesso [85]. Per questo episodio, a guerra finita, Clark fu sottoposto a una inchiesta voluta dai reduci della Divisione «Texas» che ritenevano di essere stati sprecati senza un motivo in una operazione cbe non aveva possibilità di successo [86]. Un ragionamento non molto diverso da quello che fa giungere il generale Utili alla affermazione che a Monte Lungo gli italiani furono impiegati come cavie: un’ipotesi che abbiamo preso in considerazione per gli italiani, ma che evidentemente non è neppure pensabile per le truppe americane. Dunque, la spiegazione di questi fallimenti va cercata altrove; e l’analisi in parallelo delle due battaglie, di San Pietro e del Rapido, ci è estremamente utile a tale scopo, tante e tali sono in questi due episodi le analogie per quanto riguarda gli errori commessi dagli americani e le incertezze e i limiti da loro messi in mostra in entrambe le occasioni nella impostazione prima e nell'esecuzione poi dell'attacco. Questo infatti, in entrambi i casi non fu preceduto da una scrupolosa ricognizione delle posizioni nemiche, né da piani per trarre in inganno il nemico, né da prove generali; mancò insomma del tutto quell’intenso lavoro di preparazione che gli americani, a detta del generale inglese Jackson, consideravano alquanto retrogrado [87].
A rendere più difficile l’azione contribuì inoltre una consistente rigidità (...) del sistema di comando americano secondo il quale i piani operativi erano elaborati nei minimi dettagli dal contando di divisionee e reggimenti e battaglioni dovevano seguire tassativamente i relativi ordini scritti; questi vincoli diventavano tanto più pesanti quando, come sostiene lo storico inglese Fred Majdalany riferendosi al caso della battaglia del Rapido, la divisione aveva (...) opinioni cbe si potrebbero definire «stravaganti» sul modo di condurre le operazioni [88].
Quest’ultimo giudizio per la verità non ci sentiremmo di applicarlo alle decisioni adottate dal comando della 36ª Divisione per la prima battaglia di San Pietro; parlare di idee stravaganti ci sembra in questo caso un pò forte, ma certamente come nel caso della battaglia del Rapido, si trattò di una operazione mal condotta dal comando e dallo stato maggiore della 36ª divisione americana [89].
Questo comportamento denota nei comandi americani una leggerezza non spiegabile se non ipotizzando da parte loro un clamoroso errore di calcolo circa le reali difficoltà del compito che li attendeva; a cominciare dalla sottovalutazione della tenacia dei tedeschi nell’azione difensiva, con l’inverno quale loro alleato [90]. Probabilmente coglie nel segno Puddu quando sostiene che nel dicembre del 1943 gli americani non avevano ancora smaltito l'euforia della conquista della Sicilia, la quale fece ritenere possibile di condurre la guerra solo a cavaliere delle grandi vie di comunicazione, a mezzo ai grosse colonne motorizzate precedute da avanguardie ai carri armati e di aerei, limitando al massimo l'impiego della fanteria [91]. Era la mentalità africana, basata sulle grandi possibilita di manovra, utile a vincere le battaglie nel deserto, in Russia, nell’Europa centrale, ma incapace di capire la diversa natura della guerra di montagna; abituati all’idea che tutto si sarebbe risolto rapidamente con l’intervento di mezzi corazzati e artiglieria, gli americani, scrive ancora il Puddu, finirono persino per dimenticare la norma elementare di assumere preventivamente informazioni sul nemico [92].
È appunto questo misto di incredulità e faciloneria, per dirla ancora col Puddu, che governa i comandi americani nelle fasi preparatorie dell'attacco alla «Winter Line» per quanto riguarda l’attività informativa. Secondo la testimonianza insospettabile di Martin Blumenson, alla vigilia dell’attacco i generali Keyes e Walker, rispettivamente comandante del Il Corpo d’Armata e della 36ª Divisione, non erano ancora a conoscenza: 1) della reale entità delle forze nemiche, 2) delle loro intenzioni operative, al punto da ritenere che si preparassero a una ritirata [93].
Sul finire di novembre i due generali erano convinti che San Pietro e Monte Lungo non sarebbero stati oggetto di una accanita difesa da parte tedesca, essendo Monte Lungo completamente dominato da Monte Maggiore e da Monte Rotondo. Quanto a San Pietro, e all’intero Monte Sammucro, addirittura apparivano liberi da truppe tedesche. (!)
Dunque, i servizi di informazione alleati non soltanto non erano riusciti a conoscere l’entità delle forze tedesche, ma, quel che è più grave, avevano equivocato sulle loro intenzioni, ritenendo che intendessero ritirarsi da una posizione che i tedeschi si preparavano invece a difendere a oltranza.
Al servizio informazioni americano, conclude significativamente Blumenson, era sfuggito quanto San Pietro fosse inaccessibile.
Tutto questo, nonostante quanto era toccato in sorte a un battaglione Rangers che nella notte del 29 novembre, nel tentativo di avvicinarsi appunto a San Pietro, era stato inchiodato dal fuoco tedesco proveniente dal villaggio riportando ben 10 morti e 14 feriti. In questa circostanza il generale Walker attribuì il fallimento alla mancanza di determinazione del comandante, ritenendo che una rapida manovra avrebbe portato i «rangers» in San Pietro.
Nei giorni successivi, durante la settimana che precedette l’attacco a Monte Lungo, questa situazione non subì sostanziali modifiche. Gli ulteriori tentativi di ottenere informazioni contribuirono anzi a confermare i generali americani nell’errore; in particolare, le perlustrazioni effettuate da pattuglie di «rangers» nelle notti del 2 e del 4 dicembre, senza incontrare nemici, dovettero convincere definitivamente il generale Keyes che i tedeschi erano pronti a ritirarsi dopo avere euttuato una dimnostrazione ai forza.
Ma la stessa notte del 4 dicembre, scrive ancora Blumenson, una pattuglia del 143° fanteria riferì che (San Pietro) era pieno di truppe nemiche. Dunque, i segnali d’allarme non mancarono per i generali americani i quali non seppero o non vollero ascoltarli perché troppo fermi nella loro convinzione. In definitiva, come scrive Blumenson con una affermazione che si commenta da sola, Keyes e Walker ancora non conoscevano la forza delle difese tedesche quando organizzarono la successiva fase delle operazioni.
Tutto questo potrebbe spiegare l’equivoco in cui caddero i comandi americani circa le reali difficoltà dell'attacco alla stretta di Mignano e, in particolare a Monte Lungo considerato un obiettivo facile, scelto apposta per reparti alla prima azione, e rivelatosi invece una noce dura da schiacciare, secondo la più appropriata definizione di Alexander.
In questo errore, secondo Lombardi, sarebbe caduto lo stesso comandante del Raggruppamento il quale, sedotto dalla portata spirituale di un possibile successo, non valutò forse a pieno tutte le difficoltà [94].
Questo è appunto quanto rimprovera al generale Dapino anche il generale Basso, comandante delle Forze Armate della Campania, dal quale dipendeva il Raggruppamento, che individua le cause dell’insuccesso:
— nella mancanza di una accurata, severa organizzazione preventiva, non basata sltanto su informazioni verbali sulla situazione di fatto preesistente, ma controllata con accurati accertamenti da parte del Comando Italiano in posto, per garantire al reparto operante la cornice di inquadramento tattico sì da evitargli, con opportune predisposizioni concomitanti, la possibilità di forti reazioni frontali e fiancheggianti.
— nell’essere stato assegnato al Raggruppamento un compito tattico notevolmente superiore alle sue possibilita, organiche e di armamento; infatti il voler affrontare con azione a sè stante, come si è fatto, la conquista di Monte Lungo, quando non si è garantiti dal possesso di Monte Maggiore a sud-ovest e del costone di San Pietro Infine a nord-est, è azione avventata che non può dare garanzia di successo se non con notevole sacrificio di sangue e con la assicurata possibilità di alimentazione della hattaglia, disponendo di numerosi reparti di riserva ed un potente, sicuro appoggio di mezzi ai fuoco [95].
Ora, tutte queste condizioni non sussistevano già prima del difficile impegno il quale, a parere di Basso, fu assunto perciò con poca ponderatezza e con misure precauzionali assai limitate; questo perché il Comando del Raggruppamento si era fatto convincere facilmente che l’azione nella quale si impegnava era facile in quanto su Monte Lungo si sarebbe trovato di fronte ad un’occupazione nemica leggera (...) [96].
Il giudizio di Basso era molto severo, ma viene da chiedersi quale alternativa aveva effettivamente il comando del Raggruppamento all’entrata in linea. E' evidente che un rinvio non soltanto era inopportuno, ma, al momento, appariva del tutto ingiustificato. Non era opportuno per motivi politici fin troppo evidenti: un nostro rifiuto, pur motivato, di combattere ora che ce ne veniva offerta l’occasione, dopo settimane di pressanti richieste in tal senso, avrebbe senz’altro avuto conseguenze di gravità imprevedibile nei rapporti con gli alleati. Certamente le considerazioni di natura politica sarebbero state messe da parte di fronte a insuperabili deficienze di carattere tecnico-militare: ma da questo punto di vista non vi erano guasti irreparabili o, comunque, tali da mettere in discussione addirittura la partecipazione all'azione su Monte Lungo. Vi erano, come detto, carenze di materiale, munizioni soprattutto, che si stava provvedendo a colmare; l'azione era presentata ostentatamente come facile e quasi scelta apposta per una unità che entrava in linea per la prima volta, gli uomini erano pronti a battersi, e poi sui fianchi avrebbero avuto la presenza rassicurante di due collaudati reggimenti della 36ª Divisione americana. Col senno di poi possiamo dire che si trattava di impressioni fallaci, che le lacune si rivelarono più gravi del previsto. Ma in quel momento le condizioni complessive del Raggruppamento, sia materiali, sia spirituali, non sembravano tali da impedire il battesimo del fuoco della prima unità operativa italiana rinata dopo la catastrofe nazionale dell'8 settembre.
La seconda azione su Monte Lungo
Ammaestrato dall’esperienza dell’8 dicembre e ormai consapevole della reale difficoltà dell’azione, il generale Walker preparò questa volta un piano di attacco su larga scala, coordinato e progressivo contro i tre obiettivi immediati: San Pietro, Monte Lungo e San Vittore [97].
L’azione si sarebbe aperta con l’attacco alle pendici del Monte Sammucro, un miglio a occidente della quota 1205 il cui possesso ben poco aveva giovato agli americani. Una volta conquistato il triangolo costituito dalle quote 816, 730 e 687, Walker avrebbe definitivamente circondato San Pietro e cercato di tagliare ai tedeschi la via della ritirata da Monte Lungo (..) Ivoltre avrebbe avuto truppe in buona posizioneper una avanzata verso San Vittore [98]. Questi compiti erano affidati al I battaglione del 143° fanteria e al 504° paracadutisti che avrebbero attaccato nella notte sul 15 dicembre [99]. A questo punto, a mezzogiorno del 15 dicembre, poteva avere inizio la successiva fase nella quale lo sforzo principale era rappresentato da un movimento a tenaglia contro San Pietro operato da carri avanzanti da est e appoggiati dall'avanzata del 141° fanteria da Monte Rotondo, a sud [100].
Una volta messi fuori gioco i difensori di San Pietro, o, almeno, impegnatili in combattimento in modo che non potessero minacciare Monte Lungo, Walker intendeva dare inizio a quella che nei suoi piani doveva essere la fase conclusiva dell’intera operazione: nella sera del 15 dicembre il 142° reggimento fanteria americano avrebbe attaccato Monte Lungo da occidente, dalle posizioni di Colle San Giacomo e dalle quote 141 e 72, preventivamente occupate nei giorni precedenti l’azione, per conquistare la sommità centro-settentrionale del monte. La parte meridionale era lasciata al I Raggruppamento motorizzato che avrebbe attaccato all'alba del giorno 16: in tal modo l’unità italiana rientrava in linea a una settimana dal sanguinoso esordio dell’8 dicembre [101].
La realta dei fatti sconvolse il piano del generale Walker che ebbe si successo, ma, per ironia della sorte, trovando una realizzazione, per così dire, a rovescio rispetto alla formulazione originaria. In pratica, il contributo determinante per la vittoria finale venne proprio da quel fianco sinistro che nei piani doveva agire per ultimo, nella speranza di poter beneficiare dei progressi degli altri settori. Infatti, i reparti del I battaglione del 143° fanteria operanti sul Monte Sammucro, partiti all’attacco nella notte fra il 14 e il 15, non soltanto non riuscirono a raggiungere l’obiettivo, ma subirono una durissima lezione dai tedeschi e furono costretti a ritirarsi sulle posizioni di partenza: a giorno fatto, allorché il generale Walker contava di avere in mano i tre colli posti nella parte occidentale del Sammucro, il battaglione di fanteria non soltanto aveva fallito il proprio obiettivo, ma era ridotto a 155 effettivi, per di piùprivi di munizioni [102].
Sorte analoga toccò al 504° battaglione paracadutisti che dopo un’avanzata di poche centinaia di metri, fu costretto a ritornare sulle posizioni di partenza e non potè fare altro che sistemarsi sulle pendici inferiori di q. 681 [103].
La prima fase dell’azione che aveva come obiettivo il triangolo del Sammucro sulla destra del fronte d’attacco, si era dunque conclusa con un nuovo fallimento. Più o meno analogo l’esito della seconda, iniziata nonostante ciò alle ore 11 del 15 dicembre come previsto dal piano. Questa volta furono i carri «Sherman», usati per l’occasione nell'attacco su San Pietro, a subire i duri colpi del nemico: dei 16 carri utilizzati, soltanto 4 fecero ritorno alla base di partenza [104]. Anche peggio andarono le cose per i fanti del II battaglione del 141°. Partiti all’attacco alle 12 dello stesso giorno riuscirono ad avvicinarsi all’estremità meridionale del villaggio ma qui poterono salvarsi dal micidiale fuoco tedesco soltanto grazie a un provvidenziale muretto di pietra dietro il quale trovarono riparo. Tra la notte del 15 e l’alba del 16, il battaglione, spinto dal quartier generale dei reggimento a prendere San Pietro a qualsiasi costo, ritentò nonostante le gravissime perdite subite, ben due assalti; gruppi di soldati riuscirono attorno alla mezzanotte del 15 a raggiungere le prime case del villaggio a colpi di granate e di baionetta ma, privi di rinforzi non poterono resistere. Quelli che furono in grado di farlo, tornarono al muretto di pietra [105].
All’alba del 16 il drammatico epilogo:
Con una forza effettiva di non più ai 130 uomini, il 2° hattaglione dei 141° fanteria rinnovò il tentativo (...) nello stesso momento in cui il 1 ° battaglione del 143°, sulla cima del Sammucro, tentava di nuovo di raggiungere i suoi due obiettivi presso l'estremità occidentale della montagna. Nessuno dei due hattaglioni compì progressi. Nel pomeriggio il 2° battaglione del 141 ° tornò battuto su Monte Rotondo. La mattina successiva, il 17 dicembre, l'esausto 1° battaglione dei 143° fu sostituito dai 1° del 141 ° e gli stanchi uomini disceser da Monte Sammucro e furono inviati nelle retrovie per un periodo di riposo [106].
L’intera stretta di Mignano e non soltanto Monte Lungo si stava dunque rivelando una noce dura da schiacciare! Ancora una volta l’assalto all’obiettivo principale era fallito: sembrava destinato che la sorte della battaglia di San Pietro fosse legata a Monte Lungo.
Nella notte sul 16 dicembre il 142° partì all’attacco dalle posizioni di Monte Maggiore e Colle San Giacomo conquistate nei giorni precedenti: il II battaglione puntò verso l’estremità settentrionale di Monte Lungo, il I si diresse verso la parte centrale dello stesso. Entrambi ottennero un immediato successo:
Presero il nemico di sorpresa, snidarono dalle trincee il battaglione di ricognizione della 29 Divisione panzer e raggiunsero la sommità della montagna all'alba [107].
A questo punto scattò l’ordine per l'entrata in azione del I Raggruppamento motorizzato. Alle 7,40 del 16 dicembre il comando tattico dell’unità italiana comunico al comandante del 67° reggimento fanteria che il II/142 ° aveva occupato le quote 141 e 351 su Monte Lungo e disponeva che il reggimento di fanteria e il LI battaglione bersaglieri si tenessero pronti a iniziare l'attacco secondo i piani prestabiliti [108].
Questi piani erano stati comunicati al generale Dapino il 13 dicembre. In base all’ordine d’operazione n. 40 della 36ª Divisione il Raggruppamento italiano doveva attaccare a giorno fatto, il mattino dei 16, su ordina della Divisione, per prendere e tenere quota 343 e rastrellare la pendici di Monte Lungo ad ovest della ordinata 960 [109].
Il giorno successivo, 14 dicembre, il comando del 142° fanteria precisava: I Raggruppamento motorizzato darà ii cambio a questo reggimento su ordine dei generale comandante la Divisione dopo che il 142° fanteria avrà finito di spezzare ogni resistenza nel suo settore [110].
Sulla base di queste direttive Dapino emanava l’ordine di operazione n. 4, in data 15 dicembre che prevedeva:
Il I Raggruppamento motorizzato inquadrato a sinistra con il 142° fanteria americano e a destra con il 141 ° fantaeria americano, riprenderà l’attacco su Monte Lungo [111].
Dapino chiariva i suoi intenti operativi in questi termini: in primo luogo occorreva impadronirsi dell’altura senza indicazioni di quota sita a circa 300 metri a nord-est di quota 253 mediante azioni sui due lati di gruppi di combattimento di fanteria. L’attacco, che sarebbe stato preceduto da 30 minuti di fuoco della artiglieria, doveva essere appoggiato nel suo svolgimento dal fuoco delle armi di accompagnamento schierate sulla base di partenza e da quello delle armi schierate sui pendii di Colle San Giacomo [112].
In secondo tempo occorreva puntare su quota 343, l’obiettivo principale, mediante azioni di gruppi di combattimento di bersaglieri provenienti da Ponte Peccia, operanti in stretto contatto con le fanterie che sarebbero partite dalle pendici meridionali del monte. Contemporaneamente si doveva provvedere a mantenere i contatti con il 142° fanteria sulla sinistra e con il 141° sulla destra rispettivamente con pattuglie di bersaglieri e di fanti [113].
La scelta del piano era questa volta per alcuni aspetti obbligata o, almeno, condizionata dalla necessità di coordinare le proprie mosse con quelle delle unità americane che agivano sui fianchi del Raggruppamento. A tale proposito gli americani stessi posero alcune limitazioni alla nostra azione: in particolare, la fanteria italiana non doveva nella propria azione superare le pendici nord di Monte Lungo ad ovest della quota senza numero, 300 metri ad ovest di q. 253. Quanto all’artiglieria non doveva eseguire tiri ad ovest di q. 343 affinché il nostro fuoco non danneggiasse le colonne del 142° reggimento americano [114].
Particolarmente gravi risultarono i limiti imposti all’artiglieria, anche perché all’ultimo momento si dovette rinunciare all’aiuto americano: infatti un gruppo da 155 dato in appoggio al Raggruppamento venne all'ultimo momento distolto. Come se non bastasse, un gruppo di mortai da 107 sollevò obiezioni per la difficoltà tecnica di effettuare tiri su un obiettivo tanto vicino alla linea di fanteria (quando si decise, l'occupazzone della quota era ormai un fatto compiuto. (!)
Insomma, gli italiani ancora una volta dovettero fare praticamente da soli, e stavolta fecero le cose per bene. Scrive Dapino:
Si decise allora di eseguire la preparazione sulla quota con tutti i mortai da 81 del 67° fanteria (12 pezzi), con un gruppo da 75/18 che prese posizione in località completamente dominata e scoperta onde eseguire i tiri di infilata. Si crearono inoltre due basi di fuoco, con armi di accompagnamento, completamente all’infuori del nostro settore, sulla vetta di Monte Rotondo e su Colle San Giacomo. Da esse le posizioni nemiche potevano essere colpite anche sui rovesci. I rimanenti gruppi ai artiglieria avrebbero eseguito concentramenti tra quota precedente e la q. 343.
La mattina del 16 l’artiglieria aprì il fuoco:
Alle ore 8,30 iniziò il tiro di preparazione che si rivelò subito di una precisione meravigliosa: quello sulla quota senza numero 300 metri a nord-est di q. 343, a non piu di 200-250 metri dalle nostre linee, destò l'ammirazione degli osservatori americani.
L’attacco delle fanterie ebbe inizio alle ore 9,15. Partirono il II battaglione fanteria e una compagnia della LI bersaglieri:
Il nemico, stordito dal tiro della nostra artiglieria, minacciato sul tergo dall’azione del 142° fanteria, non offrì questa
volta una resistenza tenace.
Alle 10,20 la quota senza numero era conquistata e alle 12,30 le prime pattuglie del II/67° giungevano sulla quota 343 mentre più a nord i bersaglieri
prendevano contatto sul costone di Monte Lungo col 142° reggimento fanteria americano.
Questa volta tutti gli obiettivi assegnati al primo raggruppamento motorizzato erano stati raggiunti. Le perdite si rivelarono relativamente
contenute: 6 morti e 30 feriti.
Furono presi prigionieri 5 tedeschi, ma molti di più se ne potevano catturare se gli americani non avessero limitato il nostro raggio di azione sul
versante nord, cosa che permise ai tedeschi di ritirarsi verso San Pietro. La seconda azione del I Raggruppamento motorizzato su Monte Lungo si
concludeva dunque con un successo; un esito peraltro prevedibile già alla vigilia, come riconosceva lo stesso Dapino. Secondo il generale italiano
infatti questa volta le condizioni erano favorevoli, principalmente per due motivi:
1) il fatto che era sgombra dal nemico tutta la zona di Colle San Giacomo dalla quale proveniva ai precedenza un micidiale
fuoco di armi automatiche sui fianchi meridionali di Monte Lungo;
2) l’attacco di due battaglioni del 142° reggimento fanteria americano contro le quote settentrionali di Monte Lungo che ne minacciava l’intera
occupazione..
Note
Termine dei contenuti tratti da Giuseppe Conti, "IL PRIMO RAGGRUPPAMENTO MOTORIZZATO", Stato Maggiore dell'Esercito -
Ufficio Storico, Roma, 1986; il cui utilizzo è stato concesso dallo Stato Maggiore dell'Esercito - V Reparto Affari Generali - Ufficio Storico, con
autorizzazione prot. n. 6016 cod.id.STOR1 ind. cl. 12.4 del 23/12/2009.
E' vietata ogni ulteriore riproduzione o duplicazione.
Immagini
Nel caso in cui il testo derivi sempicemente dall'esposizione, con o senza traduzione, di documenti/memorie al solo fine di una migliore e più completa fruizione, la definizione Autore si leggerà A cura di.
Articoli associati
G. CENCI, IL I RAGGRUPPAMENTO MOTORIZZATO NELLA STORIOGRAFIA
La storia del I Raggruppamento Motorizzato è la storia di un momento di gravissima crisi del Paese e delle sue Forze Armate, di tutto un popolo.
03/10/2008 | richieste: 3442 | GIULIANO CENCI
ESTERNI AL SITO | Le battaglie | #dicembre 1943, #gennaio 1944, #febbraio 1944, #marzo 1944, #aprile 1944, #maggio 1944, italia, unità-reparti
[PDF]
Nel dicembre 1943 sulla Linea d'Inverno, i tedeschi occupavano le masse montuose del sistema Maggiore-Camino e tutte le montagne che si stendevano verso la catena principale degli Appennini.
03/12/2001 | richieste: 6903 | FRANCESCO ARCESE
Le battaglie | #dicembre 1943, san-pietro-infine
JOHN HUSTON - SAN PIETRO, IL DOCUMENTARIO
Il documentario, del 1943, è relativo alla battaglia di S.Pietro Infine avvenuta nel più ampio scenario della battaglia di Montelungo. Il filmato, girato dal grande regista americano John Huston, viene analizzato in queste pagine tratte da un lavoro di Marco Pellegrinelli.
08/08/2001 | richieste: 6785 | MARCO PELLEGRINELLI
I luoghi | #dicembre 1943, filmografia, huston-john, protagonisti, san-pietro-infine