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LA 2^ COMPAGNIA DEL 100° REGGIMENTO SUL MONTE CIFALCO, DAL RACCONTO DEL MARESCIALLO CAPO FRANZ BUCHNER
Data: 29/08/2010Autore: ALBERTO TURINETTI DI PRIEROCategorie: TestimonianzeTag: gebirgsjäger, germania, monte-cifalco, veterani-reduci

LA 2^ COMPAGNIA DEL 100° REGGIMENTO SUL MONTE CIFALCO, DAL RACCONTO DEL MARESCIALLO CAPO FRANZ BUCHNER

NOTA DI PRECISAZIONE
Questo articolo è stato realizzato a partire da una testimonianza pubblicata da una casa editrice austro-tedesca. Nonostante i nostri tentativi, non siamo riusciti a contattare nè la casa editrice nè l'autore della testimonianza al fine di ottenere il loro permesso all'impiego.
Considerato che la testimonianza in oggetto è una parte molto ridotta dell'intera pubblicazione e che i passaggi utilizzati, quelli virgolettati, sono di gran lunga meno di un terzo dell'intera testimonianza, abbiamo deciso di impiegarla comunque.
Eventuali controversie saranno risolte come indicato in questa pagina.

Si ringrazia il dottor Gianluigi Castagno per la traduzione dalla lingua tedesca.


* * *

Nel 1998, una casa editrice austro-tedesca ebbe l’idea di pubblicare una serie di testimonianze rilasciate da ex militari, tutti appartenenti alla 2ª compagnia, del reggimento 100, della 5. Gebirgsjäger-Division, unità che ha partecipato a gran parte del corso della II guerra mondiale: Bulgaria, Grecia, Creta, Unione Sovietica ed Italia. [1]

LA 5A DIVISIONE CACCIATORI DA MONTAGNA (5. GEBIRGSJÄGERDIVISION)

L'autore ne traccia una breve cronistoria dalle montagne della Grecia all'isola di Creta, dal fronte di Leningrado alla Linea Gustav, dalla ritirata in Italia alle Alpi occidentali, fino alla sua resa agli alleati.

05/02/2005 | richieste: 7383 | ALBERTO TURINETTI DI PRIERO
Spigolature | gebirgsjäger, germania, unità-reparti

I racconti variano quindi da fronte a fronte, ma una di queste testimonianze riguarda da vicino le battaglie di Cassino ed in particolare il monte Cifalco.
L’autore, un maresciallo capo all’epoca dei fatti, era ormai un veterano e proprio durante il rientro della divisione dall’Unione Sovietica aveva ottenuto una licenza di 14 giorni, ma il 26 dicembre 1943 dovette presentarsi al punto di raccolta di Monaco ed il giorno dopo era già in viaggio verso l’Italia con altri commilitoni.
Il suo racconto si snoda dalla fine di dicembre del 1943 al marzo 1944, quando fu chiamato a seguire un corso per allievi ufficiali e trasferito poi in un’unità di fanteria sul fronte russo, ed è ricco di particolari sulla vita dei soldati tedeschi schierati per mesi sul Monte Cifalco.

Il treno sul quale viaggiava il nostro maresciallo capo subì un attacco aereo ad Assisi, ma il convoglio continuò senza perdite fino alla stazione di Settebagni, a pochi chilometri da Roma, dove tutti dovettero scendere e radunarsi sotto i cartelli con il nome delle rispettive unità.
Saliti su un autobus, il 31 dicembre, la notte di San Silvestro, furono scaricati in un’ignota località con l’ordine di raggiungere Atina. Erano in cinque, tutti del reggimento 100; il posto di smistamento era agli ordini di un grasso e scorbutico maresciallo, che, senza minimamente interessarsi alla loro condizione, suggerì di chiedere un passaggio.
Pioveva a dirotto e non passava nessuno; allora uno di loro rientrò nella baracca, prese per il collo il ben pasciuto maresciallo e gli disse:

"Amichetto, se tu non fai arrivare subito un veicolo per noi, ti mollo un paio di sberle delle quali ti ricorderai per un pezzo!"

Quello scattò, si mise al telefono e dopo dieci minuti si fermò lì fuori il camion che aveva richiesto.
L’autocarro proseguì quindi lungo la valle di Comino, ma ad un bivio doveva proseguire verso Villa Latina, e così furono scaricati sulla strada. L’autista li avvertì di un pericolo incombente, perché poco prima di Atina bisognava attraversare un ponte in legno che era sotto il tiro di grossi calibri alleati. Il gruppo si avviò a piedi, sempre sotto una pioggia scrosciante, ma, giunti al ponte, li colse un’enorme esplosione che li scaraventò per terra. Ne uscirono miracolosamente incolumi, anche se un pò frastornati.

Giunti ad Atina vi trovarono soltanto rovine, per le strade non c’era anima viva. Rifugiatisi in una camera di una casa bombardata, vi passarono la notte ed il mattino dopo, il 1 gennaio 1944, si imbatterono in un tenente del comando del reggimento che li accolse sulla sua macchina, una Kübelwagen, e li accompagnò per 10 chilometri, fino alla sede del comando di reggimento. [2]
Un altro camion li condusse fino ad Acquafondata, dove si trovava il comando del I battaglione.
Questa volta il viaggio avvenne sotto il tiro dell’artiglieria alleata, che, in assenza di osservatori, sparava sulla strada ad intermittenza. Riuscirono ad arrivare a destinazione sani e salvi, mentre i portatori di viveri proseguirono a piedi verso Monte Molino, dove era schierata lª 2ª compagnia.

Il maresciallo capo Buchner fu invece distaccato presso una compagnia Pionieri, in posizione molto arretrata, allo sbocco della valle di Belmonte, che aveva il compito di costruire trincee e ripari tra il Monte Cairo ed il Monte Cifalco.

Scrive il testimone:

"Nei primi giorni perlustrammo con il comandante della compagnia del genio l’intera valle ed i suoi fianchi, a destra fino al Monte Cairo ed a sinistra fino al Monte Cifalco, per cercare località appropriate per postazioni di combattimento, piazzole e ricoveri. Per questo venne scavata una profonda trincea a zig-zag."

La compagnia del genio era costituita da uomini di età avanzata, ma era ben provvista di materiali di ogni genere, come una scavatrice, diversi compressori ed un proprio gruppo di specialisti di esplosivi per la costruzione di trincee, ricoveri e caverne nella roccia. Gli uomini con i compressori e gli specialisti di esplosivi lavoravano giorno e notte in due turni e scavarono nelle rocce caverne, postazioni e piazzole. L’attività di supporto si spinse fino alle alture di Monte Cairo e Monte Cifalco.

Mentre i Pionieri continuavano il loro lavoro in una relativa calma, il reggimento 100 venne a trovarsi in difficoltà davanti ai ripetuti attacchi del Corpo di Spedizione Francese. [3]

Continua infatti il racconto del maresciallo:

"Alla fine di gennaio del 1944 cominciò la ritirata di quattro giorni, dalle posizioni finora occupate fino alla Linea Gustav. I primi tre giorni passarono in maniera del tutto ordinata, ma al quarto giorno al nemico riuscì di operare piccoli sfondamenti contro singole unità. (...) Tornarono indietro singoli gruppi, totalmente sopraffatti dal combattimento, ed anche individui isolati. Noi fummo messi al livello di allarme 1 e l’unità del genio venne immediatamente sciolta da un capitano del reggimento. Io venni subito portato assieme a lui a Belmonte, dove in un cortile erano arrivati circa 60 uomini. Il capitano mi diede l’incarico di costituire con loro una compagnia di pronto impiego."

Il maresciallo capo si accorse subito che si trattava quasi esclusivamente di sottufficiali provenienti da tutti i possibili servizi ed unità di retroguardia, poco inclini al maneggio di mitragliatrici e bombe a mano. Con sorpresa, ma forse anche con soddisfazione, si accorse che fra di loro c’era anche il maresciallo, il grassone, quello della notte di San Silvestro, giudicato forte abbastanza per caricarsi sulle spalle una mitragliatrice!
La posizione avrebbe dovuto essere tenuta per almeno 48 ore, ma mentre ancora arrivavano dalla zona del fronte singoli individui e gruppi sparsi, che venivano avviati al punto di raccolta nella valle di Belmonte, arrivò un portaordini con l’ordine di raggiungere subito il comando del battaglione.

Gli fu chiesto di fare da guida all’intero battaglione verso il Cifalco, passando da Valleluce. Ai piedi del monte, i vari settori furono assegnati alle compagnie ed alla 2ª spettò quello dai piedi dell’ultima salita al fondo valle, mentre al nostro maresciallo capo fu assegnato il comando del plotone più a monte.
Si accorsero subito però che in quella zona non c’era nulla di simile alle ben costruite postazioni della valle di Belmonte, non c’era un solo appostamento per tiratori, nessuna postazione per mitragliatrici e nessun ricovero, a volte c’era solo la nuda roccia.
Il reparto fu diviso in due gruppi, uno che occupasse la pietraia sotto l’attacco della vetta e l’altro il vicino uliveto a terrazze, ma in quella prima notte scomparvero due sottufficiali, i cui corpi vennero trovati alla luce del giorno al fondo di una cavità della roccia, dove erano caduti, forse per un banale incidente o forse spinti dallo spostamento d’aria dell’esplosione di una granata.

Dunque, ai primi di febbraio 1944, sul Cifalco non esisteva ancora nulla di quelle postazioni che si vedono ancora oggi e la compagnia si attrezzò come meglio poteva.

Un gruppo di esploratori fu inviato nel villaggio di Valleluce con il compito di portare dal villaggio evacuato qualsiasi tipo di attrezzi: pale e piccozze, martelli, palanchini, ma anche un fiasco di vino rosso per bagnare un poco le gole assetate. [4]

Racconta il maresciallo capo:

"Da quel momento cominciammo veramente a scalpellarci i nascondigli nelle rocce. Fortunatamente la roccia non era molto dura, si trattava di calcare bianco usato per la lavorazione della calce, come testimoniavano alcuni forni da calce. Ogni palata di detriti doveva subito venir sgombrata, perchè gli osservatori di artiglieria nemica erano sempre appostati. Guai se riuscivano a scoprirci: subito ne seguiva un diluvio di fuoco."

Dapprima si provvide a realizzare le "tane di volpe", comuni sul fronte italiano, che erano buche per due uomini, provviste di travi da miniera portate dai genieri: erano così profonde che nella parte superiore rimaneva ancora un mezzo metro per nascondersi dietro pietre e rami d’olivo.

Continua il racconto:

"Solo quando la linea principale fu provvista di un numero sufficiente di tane di volpe cominciò la costruzione di caverne per i gruppi: queste vennero realizzate completamente dentro le rocce, con un’entrata laterale, e, quando a volte i genieri ci portavano delle cariche da scavo, si frantumava la pietra fino alla profondità di un mezzo metro.
Si lavorava a turni giorno e notte e già dopo circa otto giorni avevamo in qualche modo una protezione contro i cannoneggiamenti che si susseguivano in maniera irregolare.
(...) Poichè ne avevamo il tempo, cercammo di migliorare sempre più le nostre postazioni: scavare sempre più a fondo nelle rocce e renderle in qualche maniera abitabili.
Le pattuglie esploranti notturne portavano tutto il necessario da Valleluce, che si trovava tra le due linee avversarie, e nessun capo pattuglia si dimenticava di portarsi dietro delle taniche da benzina per riportarci del vino rosso da fonti inesauribili.
Quando una pattuglia una notte riportò tre piccole stufe di ghisa e i relativi tubi, potemmo persino riscaldare le caverne e noi che vi abitavamo, dato che le notti erano eccezionalmente fredde.
(...) Su suggerimento di un comandante di gruppo raccogliemmo di notte i rami degli olivi spezzati dalle cannonate e li portammo circa 50 metri davanti alla nostra posizione: con questi realizzammo uno sbarramento continuo, in luogo di uno di filo spinato. Successivamente questo venne anche minato dai nostri genieri.
Lasciammo liberi soltanto due piccoli varchi, uno circa al centro della nostra postazione e l’altro su in alto presso il dirupo della vetta del Monte Cifalco."

Il racconto riporta ora un fatto stupefacente e cioè che dal Cifalco attraversavano le linee le spie italiane; rivela il nostro testimone:

"Un giorno arrivò un capitano che cercava un passaggio adatto per i suoi V-Männer. (...) Egli trovò che il varco superiore era perfettamente adatto e nel giro di qualche giorno ci portò due italiani in abiti civili, che come V-Männer avrebbero dovuto spiare l’altra parte. [5]
In totale ne passarono sei, dei quali tre tornarono indietro."

Il maresciallo capo annota con una punta d’orgoglio che le postazioni erano così ben costruite, che si dovettero lamentare solo pochi casi di feriti per il fuoco di artiglieria, ma anche che erano ormai diventati "uomini delle caverne".
Il flusso dei rifornimenti era straordinariamente buono: nonostante la lunga marcia, le corvées, arrivavano puntualmente ogni notte.

Si legge nel racconto:

"Potevamo scaldare il cibo sulle stufe, il che era un vantaggio specialmente per le sentinelle. Come cibo freddo c’era quasi solo salciccia, frutta e agrumi. In pratica mancava solo l’acqua.
Il cammino dal posto avanzato del rifornimento fino al posto di comando del battaglione durava quattro ore e si doveva ricorrere alle bestie da soma. Di lì in poi dovevano portare alle compagnie i contenitori del rancio, le cassette di munizioni ed i rotoli di filo spinato, e ogni volta dovevano essere di ritorno prima dello spuntare del giorno, per non essere sorpresi dagli aerei a bassa quota, che, nelle ore di luce, erano onnipresenti. Il nemico aveva puntato i suoi pezzi su determinati punti del percorso e così c’erano continuamente perdite di uomini e di animali."

Il problema più grosso era costituito dall’acqua, appena sufficiente per bere, come spiega il maresciallo:

Da settimane non ci potevamo più lavare. Per raderci, e dovevamo pur farlo ogni tanto perchè le barbe incolte prudevano così tanto, adopravamo il té od anche il vino rosso che ci veniva portato dalle inesauribili riserve di Valleluce.

Si arrivò così agli inizi di marzo, con le postazioni dotate persino di telefoni, uno per plotone, ma arrivò anche la notte sul 6 marzo 1944, quando il maresciallo capo Franz Buchner ricevette l’ordine di rientrare con la corvée delle vettovaglie al comando arretrato, dove ricevette l’ordine di marcia per raggiungere le retrovie, perchè doveva raggiungere un corso di addestramento per Aspirante Ufficiale.

Ricorda:

"Sulla via del ritorno passai per quel posto vicino ad Atina dove nella notte di San Silvestro una cannonata a lunga gittata di 210 per poco non spazzava via la vita di noi cinque rientranti dalla licenza, ancor prima di arrivare sul fronte italiano."

Nell’autunno del 1944 il nostro maresciallo capo, ormai ufficiale, venne trasferito come sottotenente ad una divisione di fanteria prussiana sul fronte orientale, uscendo poi vivo da sette anni di guerra.

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Note

  1. ^ Kameraden unterm Edelweiss, 1939-1945, Kriegsgeschichte der 2. Kompanie Gebirgjägerregiment 100, Buchdienst Südtirol, Nürnberg, 1998. Il titolo del racconto originale è il seguente: Franz Buchner, Oberfeldwebel, Die 2./100 in der Gustavlinie bei Mt. Cassino.
  2. ^ E’ possibile che in quei giorni il comando del 100° reggimento fosse nei pressi dell’abitato di San Biagio Picinisco.
  3. ^ Il 100° reggimento, dopo la perdita di Acquafondata, si trovò frazionato, con due battaglioni, il II ed il III, che si erano ritirati sulle posizioni di montagna fra il Monte Cifalco e il Monte Rotolo, mentre il I era rimasto isolato nella Valle del Rapido, raggiungendo qualche giorno dopo il resto del reggimento attraverso la strada di Belmonte.
  4. ^ Il piccolo villaggio di Valleluce, come tutti i paesi della zona, era stato sgombrato a forza nel dicembre 1943. Fino al mese di maggio 1944 le sue case vennero a trovarsi nel bel mezzo di un’ampia terra di nessuno.
  5. ^ Abbreviazione del termine Verbindungs-mann, usato come spia o spione.

Nel caso in cui il testo derivi sempicemente dall'esposizione, con o senza traduzione, di documenti/memorie al solo fine di una migliore e più completa fruizione, la definizione Autore si leggerà A cura di.

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