NAPOLI E IL DOPOGUERRA - SCRIVE UN TESTE D’EPOCA
Introduzione
Gianni de Felice, giornalista del Corriere della Sera e poi condirettore della Gazzetta dello Sport, vincitore del premio Saint Vincent.
Lo abbiamo conosciuto tramite Facebook, dopo un suo amabile commento ad alcune fotografie di Napoli nell’immediato dopoguerra. Non lo sapevamo, ma de
Felice allora era un bambino, fra i tanti sfollati e le tante famiglie che combattevano per la sopravvivenza. E’ nata così l’idea di chiedergli
se avesse potuto scrivere un articolo sui suoi ricordi di quel periodo e non solo ci ha risposto immediatamente, con molta cordialità, ma ci ha
inviato una vivida testimonianza di quei mesi darmmatici.
Il mio dopoguerra cominciò in un imprecisato pomeriggio del Novembre 1943. Una donnetta discese a rotta di collo la gradinata ripida che arrivava in fondo alla grotta-cellaio dove eravamo rifugiati, urlando. “’E ‘ngrisi, ‘e ‘ngrisi!” Voleva dire: gli inglesi. I miei genitori s’accalcarono in quella piccola folla di talpe umane, trascinando me di sette anni e il mio fratellino di dieci mesi. Quando fummo in superficie attraversai anch’io di corsa il cortile sconnesso e fangoso che ci separava dalla strada e m’intrufolai dinanzi alla siepe di gente che, addossata ai muri del corso Vittorio Emanuele di Marano – paesone una quindicina di chilometri a nord di Napoli dove eravamo sfollati – vedeva per la prima volta avanzare sferraglianti e lenti i carrarmati con la stella bianca, non più nemici ma da qualche mese alleati, anzi: liberatori.
Erano americani, non inglesi. E io li guardavo incantato e attento. Non avevo mai visto da vicino un carrarmato, così pesante e potente. Con quei cingoli che trituravano il selciato. Con quel cannone minacciosamente proteso in avanti. E con quei due soldati di guardia in torretta, con l’elmetto, le cuffie, il binocolo, che mi sembravano dei semidei. Non avevo mai visto uno straniero: parola che evocava in me sensazioni di diffidenza, pericolo, ignoto. E fui perciò molto colpito dal fatto che gli “stranieri” vestiti da soldati pigramente allungati sui copricingoli lanciassero manciate di roba alla gente, soprattutto ai ragazzini adoranti e attoniti al loro passaggio. Ero piccolino e non riuscii a raccogliere altro che un pacchettino piccolo e lungo come una sigaretta: strappai l’etichetta che l’avvolgeva, tolsi la carta stagnola che fasciava una barretta di non sapevo che e mi arrivò una fragranza di zucchero e menta. Misi in bocca e mangiai: buonissima. Ce n’erano cinque, le mangiai tutte. Dopo mi spiegarono che bisognava solo masticarle. Era il primo chewing-gum della mia vita.
Quella ingordigia aveva una ragione. A sette anni non avevo mai visto un cioccolatino e mai una banana. Da mesi lo zucchero era finito negli spacci alimentari, dove si prendeva da mangiare con la tessera: bisognava procurarselo a borsa nera, ma non avevamo soldi. Non avevamo neanche pane e farina. Esaurita la scorta di patate – cucinate in tutti i possibili modi: bollite, all’insalata, a crocchette, a gatteau – ci eravamo rivolti, per i carboidrati, ad alcuni sacchi d’orzo avanzati chissà come. Ogni sera mio padre, mia madre, due mie cugine ed io trasformavamo coi macinini da caffè l’orzo in “farina”. Poiché alla luce di un paio di candele l’operazione era deprimente e noiosa, mia madre pensava bene di movimentarla con la recita del rosario, spiritualmente utile. Se c’era un bombardamento in corso, ad ogni fischio di bomba in arrivo mia madre alzava il tono della voce, come se col livello della preghiera volesse o deviare la traiettoria o farci trovare meglio preparati all’evento.
Con la farina d’orzo s’impastava una sorta di pasta particolarmente ricca di fibre. Oggi viene forse venduta nei reparti bio, ma allora mi faceva dire: “Mamma, mi punge nella pancia”. E lei: “Ma no, è un’impressione”. Impressionante sarebbe stato il nostro aspetto, se avessimo avuto uno specchio in cui mirarci. Pasta d’orzo, mai carne, qualche uovo ogni tanto e per frutta mele, cachi o fichi presi dagli alberi in giardino. Malnutrito, ero diventato così filiforme da essere stato per due settimane l’unico a poter infilarmi – spingendo un piatto di patate e una bottiglia d’acqua – nella falsa pietra che celava il sottotetto segreto, in cui mio padre – progettista di siluri a Baia – si era nascosto per sfuggire ai tedeschi che volevano portarlo a Peenemunde.
Con questo regime alle spalle era spiegabile la mia infantile e un po’ selvaggia precipitazione a ingollarmi nello stomaco cinque chewing-gum di fila. E anche il mio stupore quando mi trovai di fronte non semplicemente al pane, così come l’avevo sempre visto, in moderata razione ovviamente, ma addirittura al pane bianco di cui non avevo la minima idea. Mio padre aveva saputo che nel vicino paese di Chiaiano gli americani avevano aperto un piccolo spaccio UNRRA (struttura United Nations per le popolazioni affamate). Ma non c’erano mezzi di trasporto perché i tedeschi in ritirata avevano fatto saltare i due ponti che dividevano Marano dalla rotonda di Capodimonte e quindi da Piazza Dante dove faceva capolinea il tram 61. Quindi si poteva raggiungere lo spaccio Unrra solo scendendo e risalendo i due valloni attraversati dai ponti distrutti: totale, quattro chilometri andata e quattro al ritorno. Che, fatti da un bambino di sette anni, malnutrito da mesi, non erano proprio il massimo del wellness e del trekking: ho sempre sospettato che derivi da quella traumatica esperienza la mia scarsa propensione alle marce e al nordic walking. Ma quale meraviglia fu il premio per quel sacrificio! Un militare biondo e lentigginoso ci allungò dal banco la razione che spettava alla nostra famiglia di due adulti e due bambini: appena 125 grammi. La deludente esiguità del boccone passava tuttavia in second’ordine di fronte al profumo, all’aroma che saliva da quella mollica candida e morbida come una piumino da cipria, avvolta da una crosta nient’affatto crostacea ma delicata e sottile, colorata e lucida come un violino. Pane, quello? Ma era una brioche, un’anticamera di babà.
Non fu la sola scoperta. Mi venne presentato in quella occasione anche un altro alimento, di cui non avevo idea: il burro. Al suo posto, in mancanza di olio d’oliva, avevo visto sempre usare la sugna, che al nord chiamano strutto, conservata appesa al muro nella vescica del maiale dal cui lardo era stata estratta. Molti decenni più tardi sarei stato informato del cattivo rapporto tra burro e colesterolo, della pessima relazione tra strutto e trigliceridi, lardo e lipidi e di tutte le perniciose conseguenze dell’abuso di carboidrati. Ma a quell’epoca le patologie sociali non erano l’obesità e il diabete: nell’Italia meridionale del dopoguerra – dove erano diffuse malattie come tbc, tifo petecchiale e meningite – la g ente affamata avrebbe mangiato anche le tomaie bollite delle scarpe. Non si esclude che qualcuno, nei giorni più tragici dello scontro fra americani e tedeschi, partigiani e repubblichini, sia arrivato a farlo.
Sembrava ai miei genitori, o almeno così s’illudevano, che quei terribili giorni fossero alle spalle. Molti anni più tardi mi avrebbero parlato delle Quattro Giornate di Napoli e della lunghissima devastante Battaglia di Montecassino, verso la quale si avviavano i carrarmati con la stella bianca che avevo visto sfilare lungo il corso centrale di Marano e i loro soldati che mi avevano lanciato i chewing-gum. Una battaglia che i miei seguirono col passaparola dei parenti, perché l’abate in carica, Gregorio Diamare, era un lontano zio di mia madre, fratello di uno zio Vincenzino Diamare – cui rendevamo spesso noiosissime visite - docente universitario di diabetologia e studioso di un ormone di cui da pochi anni si cominciava a sapere qualcosa: l’insulina. Il passaparola era divenuto possibile perché nel frattempo, il 1 gennaio 1944, eravamo ritornati nella nostra casa di Napoli.
Sissignori, anche i miei caddero nell’equivoco di credere che la guerra fosse finita con l’armistizio di Cassibile e l’arrivo dei provvidenziali Alleati: qualifica generica che includeva truppe di tutte le razze, dai G-men americani ai gurka nepalesi, dagli scozzesi con cornamuse ai polacchi, dai marocchini ai cosacchi. Un campionario di varia umanità in uniforme e arma alla mano, cui si aggiungevano infermiere altoatesine rimaste bloccate al sud, mercanti cinesi residenti da tempo, sudamericani a caccia di occasioni propizie. I giovani di oggi non possono neanche immaginare che tipo di caravan serraglio provvisorio, avventuriero, straccione, scarrupato, ambiguo, infetto, fosse quell’Italia appena uscita dai martellamenti della seconda guerra mondiale propriamente detta (1940-43) e subito avviata alle mitragliate di un’appendice bellica sanguinosa e lacerante: la guerra civile di Liberazione (1943-45).
Per tornare a Napoli, nei giorni di quel Gennaio del ’44, bisognò affrontare un lungo giro. La strada diretta era inagibile a causa, come s’è detto, dei ponti minati dai tedeschi in ritirata. Ci dirigemmo allora nella direzione opposta, verso nord. Valicammo a piedi certe collinette, chiamate Le Pennine, diretti a Qualiano e poi a Quarto Flegreo, ma non appena ridiscesi in pianura, e molto prima della destinazione finale, che era una masseria detta “del Convento”, venne a prenderci lo zio con un calesse. Non doveva essere confortevole la seduta sul divanetto del “riròte” (due ruote) di tre adulti, con due bambini in braccio, ma per me fu un gran divertimento. Non ero mai andato su un calesse, non avevo mai visto il mastodontico deretano di un cavallo a meno di un metro con quei suoi poderosi quarti ballonzolanti al ritmo del trotto e, soprattutto, mai visto alzare la coda per lasciar cadere liberamente quello che io ero obbligato a far cadere nel vasino al chiuso di una stanzetta chiamata cesso. Ricordo che quest’ultima cosa, forse perché mi pareva trasgressiva, mi entusiasmò molto. Un flash di memoria: questo come altri.
I ricordi di quando si ha sette anni sono fatti a lampi, non hanno sequenza logica, si stampano nella mente per le istantanee sensazioni che suscitano. E difatti ero contento di lasciare Marano, forse perché mi era accaduto di assistervi, nascosto, a una scena tremenda: nel giardino dietro casa quattro uomini vestiti da cacciatori tenevano sotto il tiro dei loro fucili due motociclisti tedeschi, con gli stivali neri da militari ma già disarmati: gli stranieri urlavano cose che non capivo e mostravano foto che conservavano nei portafogli, i cacciatori zitti gli diedero delle pale ma loro invece di usarle cominciarono a piangere e a inginocchiarsi, allora i quattro vestiti da cacciatori spararono tutti insieme e i due soldati biondi caddero a terra e non si mossero più. Mi venne un brivido, cominciai a tremare, corsi via da quel nascondiglio e non dissi nulla, neanche a mia madre: avevo visto la Morte, una cosa che non volevo vedere.
Anche dalla masseria di Quarto andai via con piacere, anche lì avevo registrato nella memoria un episodio impressionante: le strilla altissime disperatissime, tutte particolari, del maiale istintivamente conscio che gli uomini inseguitori vogliono ammazzarlo. Il corpaccione ruvido della bestia tenuto da quattro forzuti con la testa immobilizzata sul fondo di un mastello rovesciato. Un quinto uomo che gli taglia con un sol colpo la gola e il sangue che zampilla con un fiotto copioso e fumante, mentre il grugnito si va esaurendo in un rantolo sempre più flebile. A sette anni anche l’uccisione di un maiale scuote la coscienza: ti mette paura, ti avverte che la vita può finire. Mia zia – più pratica di mia madre in quelle faccende campagnole – lasciò rapprendere il sangue del porco raccolto in una larga teglia e, una volta solido, lo tagliò a tocchetti e lo mise a friggere in padella. “Mangia, ti fa bene, proprio tu che sei anemico...” si raccomandò mia madre. Fuggii da tavola inorridito. Anche quella del maiale era una Morte.
Da Villa Literno a Napoli andammo con uno spezzone di ferrovia sopravvissuto ai bombardamenti: da Fuorigrotta a Piazza Amedeo diventava “metropolitana”. Casa nostra era ancora in piedi, ma una stanza era resa inagibile da uno spezzone incendiario che aveva bucato il lastrico di copertura: per fortuna non aveva incendiato niente, perché mio padre – secondo una tecnica diffusa fra le popolazioni bombardabili – aveva ammassato mobilia, quadri e masserizie in una sola camera: o si perdeva tutto o non si perdeva niente, era la roulette delle bombe. Le strade napoletane erano pressoché deserte, pochissimi gli automezzi, sui marciapiedi calcinacci e soprattutto vetri. Frequente la visione di muri diroccati, di muri che portavano stampate le tracce di piani e camere di un palazzo che non c’era più, di infissi divelti per lo spostamento d’aria. Questo fu lo spettrale scenario che si offrì a una famigliola di sfollati che provava a ritornare a casa. E alla vita di prima.
A poco a poco, nel volgere di pochi mesi, Napoli si ripopolò. Molte strade erano ostruite dai barbacani eretti a puntello di facciate pericolanti. Si cominciava a spolverare le insegne dei negozi. E altre insegne apparvero in una lingua nuova: l’inglese. La città andava americanizzandosi rapidamente. Le prime parole strane che imparai erano: off limits, barber shop, Military Police (MP, sigla che gli avvistatori dei mercati abusivi traducevano in gergo “Mammà e Papà”). Naturalmente, la dizione inglese dei bancarellari non era quella della BBC. “Tengo ‘o cess e ‘o morrìss” voleva dire che il banchetto era provvisto di Chesterfield e di Philip Morris. Per il pacchetto rosso di Pall Mall con la la striscia azzurra marcata “stores”, garante di sicura provenienza dai depositi militari, l’annuncio era: “Tengo ‘e pallemmàne c’a storia” Per il brand Senior Service, che sul pacchetto aveva il volto di un irsuto marinaio, si abbandonava anche il travisamento del nome e si andava diretti sull’illustrazione: “Tengo ‘o viécchio c’a barba”.
Promotori di improbabili affari ti sfioravano, biascicando a bassa voce: “Orologi, dollari, chi compra?” Gli orologi erano di provenienza assai dubbia e i dollari probabilmente falsi. Di gran moda il “bàito”: nei bar-postriboli che pullulavano nei dintorni del porto ragazze di piccola virtù facevano ubriacare fino al sonno il marinaio americano prescelto, quindi lo “vendevano” agli spogliatori, che lo caricavano su un camioncino e lo portavano sempre incosciente sui vicoli di Toledo, dove lo spogliavano di tutto: al mattino lo avrebbero trovato, nudo ma vivo, quelli della MP: solo se si svegliava anzi tempo e reagiva, il malcapitato aveva buone probabilità di rimetterci la pelle. I ragazzini che volevano sottrarsi al faticoso destino di muzzunari – raccoglitori di cicche, mozziconi, per cavarne tabacco bruciacchiato e insalivato da vendere a peso – si dedicavano alla pulitura delle scarpe: giravano portando a tracolla una cassetta di legno polifunzionale, contenitore di cromatine e spazzole e rialzo poggiapiede sul coperchio. Il loro richiamo fu reso famoso da Vittorio De Sica: “Sciuscià”. Partenopeizzazione dell’americano “shoeshine”.
I grandi, cioè quelli che andavano da una ventina d’anni in su, si appassionavano alle cravatte e alle giacche di Madras caraibiche in vendita nei grandi mercati di stracci di quarta mano inviati dal buon cuore Usa, al Ponte di Casanova o a Resina, paese vesuviano che diventò presto la Mecca dell’american fashion dei poveri, dove si trovava la camicia a scacchettoni come quella di Gregory Peck o la giacca a smoking come quella di Clark Gable. Rincorrevano i dischi in vinile, 78 giri, con le musiche di Cole Porter e Glenn Miller, fino allora introvabili e comunque proibitissime. La colonna sonora di quella Napoli, per come la ricordo io, era “In the mood”: il primo boogie-woogie ballato dall’Italia ancora per poco monarchica, ma sicuramente già democratica. Le parole di “Night and day, thinking of you...” avevano già preso il posto di “Vieni, c’è una strada nel bosco…”. Per molte napoletane piacenti, e compiacenti, alla passione per l’abbigliamento americano e le melodie di Irving Berlin si aggiungeva quella per conoscenze personali molto approfondite. Erano pudicamente chiamate “segnorine”, modellando la qualifica sulla pronuncia yankee. Quando ne vedevo qualcuna arrampicarsi su un gigantesco Dodge militare, tirata su da un altrettanto gigantesco nero di Louisville o di Charlotte, domandavo, sempre curiosone: “Mamma, perché va su quel camion, dove la porta?” E la santa donna: “Lo accompagna in giro per fargli vedere Napoli...” Non ancora avevo motivo di non crederle.
L’orizzonte di noi bambini era più modesto, ma non meno avventuroso. Nel 1945 fui felice quando un compagno di classe – quarta elementare - mi vendette per dieci am-lire (una valuta da monòpoli inventata per il regime di occupazione militare) una bussola in galalite grigioverde da polso, con l’ago e i punti cardinali fosforescenti. Il mio sogno era possedere una mini-bike da paracadutista: un microscooterino che sembrava u n parallelepipedo con due minuscole ruote, l’adulto che lo cavalcava aveva le ginocchia in bocca. Inarrivabile ma di infinito fascino era l’imponente Harley Davidson militare, con un motorone da camion, col primo cambio a bilanciere e con la retromarcia, perché spostarla a mano – quasi quattro quintali – era impossibile. Ci incantavamo anche a studiare la jeep (General Purposes), la macchinetta che più della Coca Cola portò l’America nel mondo. Grandi discussioni su cosa fosse quella leva più piccola accanto alla leva grande del cambio. “Sono le ridotte” pontificava l’immancabile saputello. Ma non riuscivamo a capire cosa significasse. Forse neanche lui.
Tutta questa roba usciva dai campi ARAR, dove si vendevano i residuati di guerra. A disposizione elmetti da commando e mitra Sten forse funzionanti, pistole automatiche Browning magari senza caricatore e borracce con fodera e gancio, radiotrasmittenti e tende da campo, giubbotti salvagente e razioni da rancio, amfibi da marcia e cassette di pronto soccorso. Anche i paracadute erano in vendita: non essendo stato ancora inventato il nylon, erano fatti di seta per motivi di spessore e resistenza tanto il telo dell’ombrello quanto le funi di sospensione: ebbene, col primo si facevano le camicie e con le seconde, sfilate, si sferruzzavano le maglie di morbidissimi e caldi pullover. Non mi incuriosiva all’epoca questo aspetto economico, ma col tempo ho capito che su quel maxi-commercio, più incontrollato che libero, fiorirono molte ricchezze a miliardi di lire. Non tutto, anzi quasi niente era chiaro. Provenienze misteriose, distribuzioni insondabili. Si procedeva per sigle: meno si capiva e meglio era. La più diffusa era ERP, l’European Reconstruction Program messo a punto con il Piano Marshall, ma quasi nessuno lo sapeva. Mai saputo cosa significasse ARAR, che voleva dire Azienda Rilievo Alienazione Residuati. La sigla UNRRA si riferiva a spacci di tessuti, specie se di lana, e alimenti. Ma cosa voleva dire l’acrònimo? Chi volete che se lo domandasse e fosse lieto di sapere che significava United Nations Relief Rehabilitation Administration: l’importante era mangiare. E chi voleva riuscirvi, più che documentarsi su una sigla, doveva addentrarsi nei tre immensi ipermercati a cielo aperto, nei sovrappopolati suk che sfamavano Napoli: Via Forcella, il Borgo di Sant’Antonio e il Ponte della Maddalena.
Non c’erano montagne di spaghetti al sugo dove si rotolavano valanghe di parmigiano grattugiato, come nel regno di Bengodi, ma c’erano le miracolose cans di corned beef, alte, a sezione quadrata per ottimizzarne stoccaggio e trasporto, munite di chiavetta e banda per l’apertura senza apriscatole e con dentro una carne deliziosa, pochissimo grasso e tanto sapore: ne andavo ghiotto e forse per questo ancora oggi mangio volentieri la carne in scatola. E c’erano le prodigiose polveri. Polvere d’uovo per fare frittatine e omelette. Polveri di piselli e di fave, polveri di ceci e fagioli. Tutto liofilizzato e finemente polverizzato. Mi piacevano tanto i loro gusti speziati che le mangiavo anche a secco, quando riuscivo a rubarne un pizzico col cucchiaino. Ma erano insuperabili quando cotte – nella dose giusta, non troppo dense e non troppo liquide – nell’acqua calda, girando a fuoco lento come si fa con la polenta. Giuro che quando nei ristoranti mi propongono: “Gradisce una delicata vellutata di piselli?”, mi tornano sempre in mente le minestre a base di “polvere di” che mia madre metteva a tavola – e non tutte le sere – nel freddissimo inverno 1944-45. Sì, in certe sere ci toccava anche il piatto di castagne lesse: non erano più buone, ma erano gratuite. Le castagne si trovavano sui marciapiedi...
Vado spesso negli ipermercati e ci vado con piacere. Quando mi sento inghiottito dalla straripante colorata ricchezza dei loro sconfinati scaffali, dove trovo i granchi vietnamiti e il palmito brasiliano, venti tipi di zuccheri, il coriandolo e l’arissa, tutti gli spaghetti che voglio, il riso nero e le salse verdi, rosse, gialle, il wasabi e la rouille, i detersivi per cachemere e quelli per seta, il vino, gli sciroppi, i superalcolici, le acque minerali, la carne, il pesce, la cacciagione, i legumi, i cereali, tutto il commestibile che mi passa per la testa. Quando mi trovo sommerso da tutto quel ben di Dio a portata di mano, provo sempre un gran senso di soddisfazione, per non dire di quasi felicità. Mi sento libero. E mi rattrista solo il pensiero che i bambini di oggi non potranno mai assaporare la mia stessa soddisfazione, la mia quasi felicità. Loro, quel ben di Dio, non hanno dovuto aspettarlo: se lo son trovato già nella culla, ci sono nati dentro. Mi viene la molesta idea che il mondo sarebbe un pochino diverso, se i bambini che hanno oggi sette-otto anni potessero vivere per un mese, un mese soltanto – come se fosse un “servizio di leva” – nelle condizioni in cui si viveva in Italia, a Napoli, quando i sette anni li avevo io.
Proprietà letteraria riservata a Gianni de Felice.
Nel caso in cui il testo derivi sempicemente dall'esposizione, con o senza traduzione, di documenti/memorie al solo fine di una migliore e più completa fruizione, la definizione Autore si leggerà A cura di.