STORIA DI GINO, IL BAMBINO ADOTTATO DAI SOLDATI CANADESI
Quel calcio al fondoschiena di Gino fu decisamente inopportuno. Se il soldato avesse appena riflettuto prima di attivare il suo arto inferiore a danno del bambino, questi non avrebbe contestualmente maturato una profonda avversione per lui e per quelli in divisa come lui e l’esercito tedesco non avrebbe visto ingrossare la schiera di coloro che lo avevano in odio.
È presumibilmente la tarda primavera del 1944. Pare certo, invece, che lo scenario fosse quell’alternarsi di colline e piccole valli che si aprono a sud di Frosinone, verso Torrice, più o meno in prossimità della via Casilina.
I riflessi della guerra che ormai da mesi si attarda tra le valli del Rapido, del Garigliano e del Liri, inevitabilmente giungono sin qui. Specie dopo l’attacco alleato alla linea Gustav dell'11 maggio, l'aria che si respira è sempre più inquinata da un diffuso nervosismo. Lo stesso, si presume, che agita l'uomo di Hitler cui il bambino ha portato dell'acqua aspettandosi in cambio almeno un tozzo di pane ma che altro non merita che un calcio nel sedere.
Gino diffida ormai di quell'ambiente dove ha cercato di farsi ben volere in cambio di piccoli servizi e prende allora a vagare senza una meta.
Degli uomini in divisa in genere, ormai ha il terrore. Lo stesso che lo pervade al primo impatto con Paul Hagen, il soldato canadese del
C Platoon (Divisional Tran-sport Troops, 5th Canadian Armoured Division, RCASC) - un plotone inquadrato nella 5.a Divisione corazzata adibito
essenzialmente al trasporto - che, insieme al suo compagno Ike Klassen, una notte casualmente lo incontrò.
Avevano deciso di bere una tazza di thè, Paul ed Ike, cosicché, "al riparo di un alto terrapieno" protetto da una sporgenza, accendono un piccolo fuoco. L'occorrente lo portavano sempre con loro: la gavetta, "una piccola tanica d'acqua, del tè impacchettato e delle taniche di petrolio. Stesa per terra, con due o tre buchi ben assestati col piccone, una tanica di petrolio diventava subito una stufa."
Scrive Paul:
Non sarebbe stato possibile vedere il fuoco da nessuna distanza: rimanemmo perciò stupiti nell'udire un cane abbaiare abbastanza
vicino a noi. Nella notte fonda il buio, reso ancora più buio dall'aureola creata dal nostro piccolo fuoco, rendeva difficile vedere al di là di
pochi passi in qualunque direzione. Sentimmo che qualcosa si muoveva nel buio. (...) La luce del fuoco aveva creato un riflesso luminescente sul
terreno fino ad un punto più scuro ed io ero sicuro che ci fosse un animale che ci stava osservando dal bordo dello scavo, circa dieci passi più
in là. Di solito un animale feroce non si sarebbe avvicinato così agli esseri umani e poi non ringhiava. "Deve essere un cane", pensai e fui
rassicurato quando ricominciò ad abbaiare. "Deve avere fame", dissi ad Ike, il mio compagno. "Non abbiamo niente da dargli da mangiare" aggiunsi,
pensando alla preziosa scatoletta di carne e ad alcune confezioni di gallette che conservavo nello zainetto, sul camion.
Ci allontanammo dal riflesso del fuoco e ci dirigemmo verso la buca da dove arrivavano mesti guaiti.
Precedevo Ike di poco. Quando l'animale si alzò sulle gambe posteriori Ike, con voce rotta, disse "Ma è un bambino!". Nell'udire la voce, il piccolo
smise di abbaiare e per un attimo pensai che sarebbe scappato via.
"Aspate. Aspate", dissi dolcemente nel miglior italiano che conoscevo. "Aspetta. Siamo Canadesi: Siamo amici".
Si fermò e venne quasi di corsa verso di me: "Tu non sei Tedeschi. Tu capire italiano?". Avevo imparato abbastanza l'italiano e spesso fungevo da
interprete ai ragazzi che facevano baratti. Poco dopo lo facemmo sedere accanto al fuoco con la mia preziosa carne in scatola e le gallette che si
infilava in bocca così velocemente che io temetti per la sua salute.
Alla luce del fuoco fui in grado di vedere meglio quell'esserino e fui stupito.
A destare stupore in Paul è soprattutto lo stomaco del bambino "così gonfio da assomigliare ad un birillo da bowling a forma di pera, con le lunghe gambe ed i piedi nudi." Ma è anche l'"abbigliamento" del bambino a destare curiosità:
Aveva indosso solo un paio di pantaloncini da uomo così sporchi e laceri che facemmo fatica a riconoscerli con sicurezza ma egli disse che gli erano stati dati dagli Inglesi. Pensammo che li avesse avuti dalle nostre truppe avanzate, o di fanteria o di reparti genieri.
Racconta ancora Paul:
Quella notte Ike ed io dormimmo con il piccolo italiano, sazio, comodamente sistemato fra di noi. Il povero piccolo era così
prossimo allo sfinimento che dormì come un ghiro; solo alcuni latrati e qualche occasionale guaito erano il segno dei suoi sogni travagliati.
Arrivò il mattino ed il piccolo Gino, felice e contento, si mise in fila davanti al camion cucina, tenendo baldanzosamente in mano la mia gamella di
scorta. Il nostro vecchio cuoco non si sorprendeva di nulla, ma noi volemmo stuzzicarlo un po'; gli dicemmo allora che McKenzie King (il primo ministro
canadese, nda) era a corto di soldati di leva, così mandava qualunque cosa gli capitasse sotto mano.
Quel giorno per Gino fu un giorno diverso, molto diverso da quelli che aveva vissuto sino al giorno prima: i fragori della guerra cominciavano ad
affievolirsi e l'essere circondato da tutti quei soldati gli dava una certa sicurezza. Disse che si chiamava Gino Bragaglia - ma i suoi interlocutori
capirono e trascrissero tutt'altra cosa - e che aveva sui cinque anni. Il resto della sua storia emerse un pò alla volta: il papà sarebbe morto
qualche tempo prima e da allora aveva perso ogni contatto anche con la madre, parlando della quale gli veniva da piangere. E disse poi che non aveva
fratelli, un particolare che però verrà smentito anni dopo.
Quello stesso giorno, per Paul e per Ike s'impose il dovere di informare della presenza di Gino - intanto ribattezzato Jean - l'ufficiale di plotone.
Scrive Paul:
Il sottotenente Smith era un vero soldato ed un autentico gentiluomo. Come i suoi uomini, anch'egli fu in tutto e per tutto
conquistato dal ragazzino e si assunse la responsabilità della situazione. Munito di tutte le informazioni che avevamo raccolto dallo stesso Gino e
conoscendo il luogo in cui l'avevamo trovato, il sottotenente Smith prese due uomini che potevano essere sollevati dal servizio frenetico di quei
giorni, e partì per il paese natale di Gino.
"Red" Oliver Lloyd, un agricoltore di Miniota, nella provincia canadese di Manitoba, era della pattuglia. E proprio lui, "molto equilibrato" e con un
innato talento nell'organizzare e gestire cose (...), trovò un'anziana signora che da anni abitava accanto alla famiglia Brigalia e lei raccontò
ai nostri compagni che il padre di Gino era morto tempo prima, nel 1943, e che la mamma, "alla notizia della morte del marito, aveva avuto un crollo
mentale" per poi finire i suoi giorni nel 1947.
Quando la pattuglia di Smith ultimò la sua missione e tornò al campo, Gino non indossava più gli abbondanti pantaloncini ma biancheria ed indumenti
dell'esercito, di taglia extra large. Gli avevamo detto che era il soldato semplice Gino Brigalia e la nostra mascotte. Red si occupò subito del suo
vestiario. Qualcuno ci diede un'uniforme, che fu immediatamente portata ad una signora esperta di filo e ditale; quando l'uniforme riapparve era una
copia esatta di quella canadese da combattimento e a Gino stava da Dio! Berretto e biancheria arrivarono subito dopo. Prima della fine della
settimana, Red e tutti noi avevamo portato indumenti di ogni genere. Non riuscii mai a sapere da dove arrivarono le scarpe, ma credo che qualcuno
al quartiere generale le avesse portate da Napoli insieme con gli approvvigionamenti regolamentari. Gino trascorse la seconda notte con Ike e con me
e parlammo per ore delle brutte cose che gli erano successe e delle belle cose che i suoi nuovi amici avrebbero fatto per lui.
Si ha motivo di ritenere che l'incontro tra Paul, Ike e Gino avvenga tra la fine di maggio e i primi giorni di giugno. Il 30 maggio, peraltro, proprio al bivio per Torrice sulla via Casilina c'è un violento scontro tra tedeschi e canadesi i quali sono presenti in zona con gli uomini della 78^ Infantry division e del Loyal Edmonton Regiment.
Tempo dopo, quando la linea del fronte si sposta più avanti, racconta sempre Paul Hagen, Gino venne affidato alle cure di "Red" Oliver Lloyd e Mert Massey, il meccanico del plotone, il quale, avendo più tempo a disposizione degli autisti, "divenne il mentore e tutore di Gino durante il giorno."
Gino imparava molto velocemente. L'inglese divenne una lingua quasi spontanea per lui e (...) appena imparò bene la routine del campo e le mansioni, i gradi da caporal maggiore apparvero sulla sua minuscola uniforme. Egli conosceva tutti per nome e di tutti conosceva il grado e la mansione nel plotone. Fotografie del piccolo caporal maggiore Gino furono pubblicate sui giornali dell'esercito ed anche su qualche giornale a casa, in Canada. Una qualunque persona, con una minore personalità, sarebbe diventata estremamente viziata, ma Gino restò il ragazzino rispettoso che noi tutti amavamo. Red e Mert gli insegnarono a dire le preghiere la sera e a mantenere abitudini igieniche regolari. Da non so dove si materializzò una bicicletta e Gino diventò il portaordini degli accampamenti. Qualcun altro scroccò una macchinina a pedali abbastanza grande (Gino ricorda che era addirittura targata con la numerazione progressiva utilizzata per gli automezzi militari in dotazione, nda) ed egli diventò autista effettivo, come tutti noi. Oltre ai molti civili italiani, tutti incuriositi da questo bimbo soldato che parlava inglese, militari delle forze britanniche, americane, altre unità canadesi, alcuni polacchi ed anche uno dei "Ghurka" che combattevano al nostro fianco, tutti passarono a vedere il piccolo caporal maggiore.
Intanto la guerra si sposta verso nord e così pure il reparto di cui Jean, Gino, è la simpatica mascotte. L'ambiente in cui egli è costretto a vivere poco si adatta, però, ad un bambino della sua età cosicché, seppure a malincuore, si decide di affidarlo alle cure ed alle attenzioni degli uomini dell'OSS (Office of Strategic Services), un servizio specialissimo e assai delicato che disponeva di ampi mezzi e che, per quanto fosse talvolta impegnato in azioni molto rischiose, di solito godeva di ampia libertà. Jean non ha difficoltà ad adattarsi alla nuova situazione, trovando anche qui affetto e simpatia da parte di tutti.
Quando il reparto giunge nei pressi di Ravenna, va ad installarsi in una villa di Coccolia solitamente frequentata da un giovane del luogo, Antonio Farneti, il quale, con un nucleo di volontari italiani, aveva compiuto missioni per conto dell'OSS nei territori ancora occupati dai tedeschi. Jean familiarizza subito con Antonio e, soprattutto, con la sua fidanzata, Rina Zaccaria, che prende in simpatia il bambino venendone ricambiata: del resto, è la prima donna che Jean incontra sulla sua strada da diversi mesi a quella parte.
Un pò per volta Jean finisce con l'entrare del tutto nella vita di Rina, nella cui casa ormai dorme e mangia, cosicché il giorno in cui il reparto deve per forza di cose spostarsi ancora più a nord, verso Verona, lui ci rimane molto male nel doverla lasciare.
Intanto la guerra finisce e per il reparto dell'OSS che ha "adottato" Jean arriva l'ordine di spostarsi in Estremo Oriente, in Giappone. Che fare
del bambino? A chi affidarlo? Inevitabilmente si pensa a Rina Zaccaria, la quale, naturalmente, non se lo lascia ripetere due volte. E' il 10 maggio 1945.
Antonio e Rina, che nel frattempo si sono sposati e trasferiti a Ravenna, prendono ad aver cura di Jean - intanto "ribattezzato" Gino - come se fosse
un figlio loro. Ed è per loro una gran gioia vedere il bambino crescere a vista d'occhio, vivace ed intelligente.
Ma c'è un neo: Gino per la burocrazia non esiste. Scrive Tino Dalla Valle:
Aveva fame, e allora c'era ancora il razionamento alimentare, ma per Gino - solamente Gino, così senza un cognome - non si poteva
avere una tessera. Poi, ormai cresciuto, bisognò mandarlo alle scuole e queste lo accolsero ma senza iscriverlo poiché Gino non figurava da alcuna parte.
Egli non seppe niente di tutto questo fino a quando, alla fine dell'anno, andato per vedere i propri voti si accorse con stupore che il suo nome non
figurava fra quelli dei compagni. La scuola lo aveva accolto col nome di Gino Farneti, gli aveva dato le pagelle per i trimestri tollerando qualche
piccolo trucco, ma non poteva segnarlo sui propri registri ufficiali poiché Gino, ufficialmente, non era mai nato!
Quel giorno Gino andò a casa piangente e ci volle tutta la pazienza di "mamma" Rina per consolarlo.
Pazienza, tanta, tante innocenti bugie e piccoli stratagemmi furono le armi cui Antonio e Rina fecero ricorso perché Gino non si sentisse diverso dagli altri. Ma i giovani sposi si interessarono anche a cercare di rintracciare se non i genitori almeno qualche parente del bambino, facendo perciò pubblicare una sua foto sui giornali ed interessando un pò tutte le questure del centro sud. Però senza alcun risultato anche se, dirà Antonio Farneti, più di qualcuno andò a vedere il bambino cercando di rintracciare, ma inutilmente, qualche segno particolare sul suo corpo che potesse consentire di identificare in Gino il proprio figlio, anche lui disperso per via della guerra.
La pratica per l'adozione intanto ristagnava non essendovi una legge cui potersi riferire per l'originale e particolare circostanza e dare così a Gino uno stato civile. Tutto ciò fino a quando il Procuratore della Repubblica di Ravenna non trovò un caso analogo riferito ad un bersagliere che dopo la prima guerra mondiale aveva adottato un fanciullo disperso. Su questa base, il tribunale di Ravenna diede a Gino il cognome di Antonio, che fu designato come tutore, ma con la "t" raddoppiata: "Farnetti". Ed al Comune venne anche redatto l'atto di nascita ma con l'indicazione del solo anno, il 1939. Quanto al giorno ed al mese, i coniugi Farneti presero a festeggiarne il compleanno il 10 maggio, ovvero il giorno in cui il reparto dell'OSS lo aveva affidato a loro, e così hanno continuato a fare per gli anni a venire, man mano che Gino cresceva ed incominciava ad aiutare "papà" Antonio nel suo negozio di pezzi di ricambio per auto e dopo ancora.
Della storia di Gino, nei suoi luoghi di origine, se ne venne a sapere già sul finire del 1945 attraverso "Il Rapido", un settimanale pubblicato a Cassino: "Un bambino biondo con occhi neri è stato raccolto alla periferia di Cassino dalle truppe canadesi. Egli non ha mai saputo dire con precisione il suo nome e non ricorda con esattezza il luogo dove abitava. I canadesi, che lo chiamavano Gino Brighegli, lo portarono con loro e lo lasciarono a Coccolia (Ravenna) il 10 maggio 1945. Da quel giorno è stato raccolto dalla famiglia di Antonio Farneti, Via Ravegnana 64, Coccolia. Ha circa sei anni di età, è robusto, fiorente, biondo con occhi neri."
Un paio di mesi dopo, il giornale pubblica una foto del bambino ed altre notizie sulle vicende capitategli: "Il bambino ha oggi circa sei anni,
è biondo, robusto. Fu raccolto a Cassino da truppe canadesi all'epoca della battaglia (primavera 1944) e dai canadesi fu poi consegnato a soldati
americani che lo tennero per circa un anno fin quando, cioè, dovettero rimpatriare. Il 5 maggio del 1945 il bambino fu affidato ad Antonio Farneti
che se ne prese cura, mandandolo anche a scuola.
A seguito della pubblicazione nel n.3 de "Il Rapido", si presentò al Farneti tal Lanciano Filippo da Cassino il quale avrebbe riconosciuto nel
bambino un suo nipote! Il padre del bambino sarebbe morto tragicamente durante le operazioni belliche ma la madre sarebbe vivente e si troverebbe
ora sfollata in Sicilia. (...) Il Lanciano Filippo ha dichiarato di essere reduce dalla prigionia e di trovarsi ora sfollato a Torrice (Frosinone).
Sulla base di queste informazioni fornite da "Il Rapido", accingendomi a pubblicare il mio libro "Mal'aria" (1998), pensai di contattare il signor Antonio Farneti per sapere qualcosa di più sul "bambino biondo con occhi neri". Le mie attese non andarono deluse cosicché, grazie proprio alla cortesia ed alla disponibilità del signor Farneti e grazie alle informazioni fornitemi, quelle che a quel tempo si conoscevano, fui nella condizione di poter ricostruire le vicende capitate a Gino con il corredo di una serie di foto.
Ipotizzai, allora, avendo come riferimento gli eventi bellici della primavera avanzata del 1944, che il bambino poteva essere stato individuato
mentre vagava, smarrito ed in lacrime, in un "villaggio bombardato nella zona di Pontecorvo", località nelle cui vicinanze era stato molto violento
lo scontro tra i tedeschi e le truppe canadesi, peraltro dirottate sul fronte di Cassino solo verso la fine di aprile.
Che, invece, le cose erano andate in tutt'altro modo son venuto a saperlo solo una quindicina di anni dopo, ovvero verso la metà di luglio di
quest'anno di grazia 2012 quando, per il tramite del direttore della biblioteca comunale di Frosinone Angelo D'Agostini, vengo contattato dalla
professoressa Mariangela Rondinelli di Bagnacavallo, in provincia di Ravenna, che da qualche anno si sta interessando alla storia di Gino, la quale
mi dice di avere importanti novità sulla storia di Gino e chiede la mia collaborazione insieme a quella di altri amici (Paolo Sbarbada, Maurizio
Federico, Gianni Blasi) per alcune verifiche in loco. Lei, che ha letto il mio "I giorni della Hitler" (2009), libro nel quale ho riproposto
la storia di Gino già pubblicata in "Mal'aria", mi dice, in sostanza, che i canadesi il bambino lo avrebbero trovato non già in un villaggio
presso Pontecorvo, o Cassino che dir si voglia, bensì presso Frosinone. Il cognome, poi, non sarebbe "Brighegli" bensì "Brigalia" ovvero "Bragalia".
Da "Brigalia" o "Bragalia" a "Bragaglia" il passo è breve; di conseguenza, è anche più facilmente individuabile l'area dove questo cognome è
diffuso: Frosinone e zone circostanti. Chissà perché, forse per un riflesso mutuato dalla notizia di quel Lanciano Filippo di Cassino ma sfollato
a Torrice che era andato a Ravenna per vedere se il bambino di cui parlavano i giornali fosse un suo parente, chissà perché ma Torrice, con Pofi ed
Arnara, è da subito tra i paesi ipotizzati come patria di Gino.
La conferma la ebbe Paolo Sbarbada quando andò a verificare gli atti di battesimo della parrocchia di San Pietro Apostolo di Torrice presso
l'archivio della diocesi di Frosinone, Veroli e Ferentino dove appunto trovò che "Ginus" Bragaglia, nato il 26 aprile 1938, era stato battezzato in
quella chiesa il primo maggio successivo dal parroco Egidio Vincenzi, padrini Francesco Lisi di Domenico e Angela Magliocco fu Sebastiano.
E ne ebbe ulteriore conferma, insieme a Maurizio Federico, nella ricerca presso l'anagrafe del comune di Torrice dove, grazie alla collaborazione
della responsabile dell'ufficio, Katia Savo, risultò che Gino, figlio di Giuseppe e Filomena Fiacco, vi era stato registrato con il nome di Luigi
"avanti a me Manni Giacinto podestà" sempre quel primo maggio del 1938. Ma risultava anche, per la cronaca, che era stato cancellato dagli
stessi registri il 6 dicembre 1952 per "irreperibilità".
Sta di fatto che il positivo esito della ricerca lo si poteva comunicare, con quale comprensibile emozione è facile intuire, alla professoressa
Rondinelli proprio nell'immediata vigilia della sua partenza per Frosinone insieme a Gino per una visita già programmata a prescindere dall'esito
della ricerca e che deve essere quindi adeguata agli importanti sviluppi intervenuti.
Nel pomeriggio di venerdì 19 ottobre Gino può finalmente conoscere i suoi parenti in località Cervona, proprio nel luogo dove era la casa dove
lui aveva vissuto i suoi primi anni di vita.
Quella casa non c'è più. Al suo posto, nello stesso luogo, vi è ora una moderna costruzione dove vive suo nipote Francesco, figlio di Domenico, quel
fratello più grande di lui di sedici anni di cui Gino ignorava l'esistenza e che purtroppo non ha potuto conoscere essendo morto nel 1995.
Ci sono, però, i suoi figli: Francesco, appunto, e poi Sebastiana e Filomena che abitano a Veroli e che non sono mancate all'appuntamento con lo
zio. Cosa che, invece, non hanno potuto fare Giuseppina e Luciano, gli altri loro fratelli, perché emigrati in Canada così come Vincenzo morto anche lui.
Il giorno dopo, sabato, Gino si reca al cimitero di Torrice per rendere omaggio alla tomba dei suoi cari; poi, alle Valli di Aquino e quindi in prossimità del fiume Melfa, dalle parti di San Vito, dove, tra il 23 e il 25 maggio del 1944, le truppe canadesi sostennero duri ma vittoriosi scontri contro i tedeschi. Luoghi, cioè, che nell'immediatezza della fine delle ostilità Gino potrebbe avere avuto occasione di vedere. Del resto, secondo Gianni Blasi, quella foto con Mert e Red in costumi adamitici sullo sfondo di un dolce ondulare di colline potrebbe essere stata scattata ai margini di un campo di granone sulla Caragno, presso Ceprano e siccome quello scatto, a detto dello stesso Gino, sarebbe del 6 luglio 1944, ciò confermerebbe che egli si muovesse nel territorio accompagnando i suoi amici canadesi nelle loro missioni.
La curiosità di Gino per quegli scorci che rivede dopo anni è grande.
Ed anche la commozione. Ma l'unico ricordo di allora che riesce a rivivere con gli occhi di oggi è probabilmente legato al tempo della fame: il
campo di fave al di sopra della collina che degrada verso casa.
L'emozione, infine. Mi scrive Gino:
Ora quando mi chiedono qualcosa del mio passato finalmente posso rispondere, di chi ero figlio e chi era mia mamma.
A lei il mio pensiero più caro per il dolore che dovette subire, dico a lei, perché le mamme sole erano le più vulnerabili appesantite dalle
responsabilità dei figli, di come sfamarli e accudirli in tempi così drammatici.
Nel caso in cui il testo derivi sempicemente dall'esposizione, con o senza traduzione, di documenti/memorie al solo fine di una migliore e più completa fruizione, la definizione Autore si leggerà A cura di.
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31/07/2021 | richieste: 1550 | PAOLO SBARBADA
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