MONTE MARRONE E GLI ALPINI DEL BATTAGLIONE "PIEMONTE"
Introduzione
Oggi ai piedi di monte Marrone si può tranquillamente arrivare in auto, fino al monumento di colle Rotondo, a pochi chilometri da Castelnuovo al
Volturno, eretto in memoria dei soldati e dei caduti italiani, che dal febbraio al maggio 1944 occuparono questo tratto della Linea Gustav.
Quando però si arriva in quel punto, è gioco forza alzare lo sguardo verso la vetta e la montagna si trasforma in un Ciclope, sotto la cui mole si
diventa piccoli come formiche.
Malgrado la sua altezza massima di 1.770 metri non sia niente di eccezionale, la cresta, lunga più di un chilometro, appare come un susseguirsi di
guglie, canalini, dirupi, precipizi minacciosi e lontani: dalla base del monte per arrivare in cima bisogna infatti superare 700 metri di dislivello!
Dal basso è difficile immaginare che la parte orientale della cresta si trasformi in una serie di facili declivi erbosi fino a raggiungere la vicina
ed attigua vetta di monte Mare (2.021 m.).Da lassù si dominano l’alta valle del fiume Volturno, il monte San Michele e il monte Castelnuovo ad est,
e buona parte della catena delle Mainarde, a sud-ovest. Sostando davanti al monumento, nel silenzio che è proprio di quel luogo, è persino difficile
pensare che sia stato contaminato dalla furia della guerra, ma anche che il monte possa essere stato conquistato in una sola notte, grazie ad una
magistrale arrampicata di centinaia di uomini...
Il fronte si avvicina all’alto Volturno
Nella lenta ritirata verso la Linea Gustav, i comandi tedeschi avevano deciso fin dall’ottobre del 1943 di opporsi all’avanzata alleata su
successive linee di resistenza per guadagnare il tempo necessario all’allestimento della linea difensiva principale.
Benché il fronte sembrasse ancora lontano, alla metà di ottobre del 1943 agli abitanti dei paesi più prossimi a monte Marrone, Castelnuovo al
Volturno, Rocchetta al Volturno, Scapoli, Castel San Vincenzo cominciò a giungere, di notte e di giorno, il brontolio minaccioso delle opposte
artiglierie, sempre più vicino, a mano a mano che le truppe inglesi e americane avanzavano.
Il 27 ottobre 1943, il comando di zona tedesco fece apporre sul portone del comune di Scapoli un semplice biglietto con l’ordine dell’evacuazione
del paese, tempo cinque giorni di tempo. In assenza di ogni altra indicazione, molte famiglie cercarono scampo in direzione delle linee alleate, ma
furono respinte indietro da implacabili sentinelle tedesche e pochi riuscirono nell’impresa. Il 31, il paese fu circondato e tutta la popolazione
maschile, dai 16 ai 65 anni venne tratta in arresto, avviata verso San Biagio Saracinisco e quindi trasportata in vari paesi del Nord Italia.
La stessa sorte toccò agli abitanti dei paesi vicini e quelli che riuscirono a salvarsi dalle razzie, cercarono di nascondersi sulle montagne, ma
non mancarono omicidi e sopraffazioni, come nel caso di sette pastori che caddero sotto il fuoco di carnefici in divisa. Tutto il bestiame fu
confiscato e le case saccheggiate. [1]
Il fronte raggiunse la zona il 29 novembre 1943, quando il 6° Corpo americano, composto dalla 34a e 45a divisione di fanteria, riprese l’offensiva: la 34a divisione ebbe come compito immediato la cattura delle quote chiave a nord e a sud del paese di Cerasuolo, che sovrastano la strada Colli-Atina. Il 133° reggimento di fanteria mosse dalle vicinanze di Scapoli il mattino del 29 novembre verso le alture fra Castelnuovo e Cerasuolo, ma la rabbiosa reazione tedesca fiaccò lo slancio dei fanti americani che riuscirono ancora ad attestarsi sulla quota 1.180 di Monte Marrone, presa con un attacco di sorpresa nella notte fra il 2 e il 3 dicembre, “across snow and ice”. Il 9 dicembre, la 34a divisione di fanteria era ormai estremamente provata da ben 64 giorni di attività ininterrotta e cominciò ad essere sostituita da reparti della 2a divisione di fanteria marocchina. [2]
L’arrivo dei Francesi
L’11 dicembre 1943, la 2a divisione di fanteria marocchina (2e DIM) rilevava la 34a americana, assumendo la responsabilità del settore di fronte
fra Lagone (escluso) al sud e Pizzone (incluso) al nord, con il compito di mantenere il contatto con la 78a divisione di fanteria britannica, una cui
unità si era stabilmente attestata nel paese di Castel San Vincenzo, abbandonato intatto dai tedeschi.[3]
L’idea del generale Juin, comandante del C.E.F., e del generale Dody, comandante della 2e DIM era quella di compiere una manovra aggirante delle
difese tedesche schierate sull’asse monte Marrone-monte Mare, per piombare poi alle spalle dello schieramento tedesco nella zona delle Mainarde.
Né l’uno né l’altro avevano fatto i conti con la realtà del fronte italiano: una forte difesa tedesca, rinforzata da bunker, postazioni protette e
da estesi campi minati, ma soprattutto il forte innevamento che copriva le montagne del Molise ed il freddo dell’inverno.[4]
Il comando della 5a Armata dispose comunque che per facilitare lo sfondamento della cosiddetta “Stretta di Mignano” da parte del II Corpo americano,
il VI doveva impegnare le due divisioni di fanteria tedesche 44a e 305a a partire dal 15 dicembre. Il piano francese prevedeva la creazione di un
gruppo di manovra agli ordini del colonnello Callies, comandante la fanteria della 2e DIM.[5]
Alle 19 del 15 dicembre, il II battaglione del 8e Régiment de Tirailleurs Marocains (RTM) avanzò verso la Chiusa di San Michele e la Valle
di Mezzo, e pur trovandovi una forte resistenza, riuscì ad occuparla; il III battaglione del 4e RTM si impossessò della Cresta di San Michele e di
Colle Alto. Il 5e Tabor, che avrebbe dovuto appoggiare il II/8e RTM, si perse nella notte e finì per riparare a Castel San Vincenzo
con un buon numero di congelati e dispersi; l’8° Tabor si disperse lungo le falde del Castelnuovo; l’11° non ebbe nemmeno il tempo di intervenire e
si smarrì nella notte provenendo da Colli al Volturno.[6]
La reazione tedesca era stata estremamente efficace e la sorpresa era venuta a mancare, tanto che già alle 23,30 il colonnello Callies ordinò la
sospensione dell’operazione, che era comunque costata 34 morti, 89 feriti e un gran numero di congelati ai piedi.[7]
In quella stessa notte, ad un distaccamento comprendente il II/8e RTM e l’8° Tabor venne dato l’incarico di mantenere il contatto con l’8a
Armata inglese e di assicurare nella zona monte Marrone-monte Mare la copertura del fianco destro del settore francese ed in pratica la linea del
fronte si stabilizzò.[8]
Il monte Marrone ed il monte Mare rimasero nelle mani dei tedeschi: due ottimi osservatori che dominavano valli e paesi sottostanti.
Tra il dicembre 1943 e il gennaio 1944 l’asse di attacco del dispositivo francese si spostò verso la propria ala sinistra, in appoggio
all’offensiva americana verso Cassino e Montecassino. La 3a divisione di fanteria algerina dovette impegnarsi nei furiosi combattimenti per il
possesso del Belvedere.
Il generale Clark chiese al generale Juin di prolungare il settore di fronte del C.E.F. da Castel San Vincenzo fino al monte Castellone, nella valle
del Rapido, richiesta che preoccupò non poco i Francesi che temevano, avendo soltanto più un velo di truppe disponibili, le conseguenze di un sempre
possibile attacco tedesco nella zona Marrone-Mare.[9]
Il generale Juin fece presente al comando della 5a Armata la necessità di ottenere altri reparti ai quali affidare la difesa di quel settore, nel
frattempo posto agli ordini del generale Augustin Guillaume, comandante dei Tabors marocchini, e la risposta del generale americano fu pronta.
Il I Raggruppamento Motorizzato Italiano rientra in linea
Il 5 febbraio al comando del I Raggruppamento Motorizzato italiano, in fase di riorganizzazione nella zona S. Agata dei Goti-Airole-Solopaca,
giunse l’ordine che a partire dalle ore 12 dello stesso giorno esso sarebbe stato aggregato al Corpo di spedizione francese. Furono immediatamente
allertati il XXIX battaglione bersaglieri. il CLXXXV battaglione paracadutisti, l’11° reggimento artiglieria ed il 4° reparto salmerie.
Il compito assegnato era di:
Il battaglione Alpini "Piemonte"
A Castelnuovo al Volturno arrivarono anche gli Alpini, un reparto molto speciale, non solo per il cappello con la piuma, ma anche perché erano
noti come coloro che "non volevano fare la guerra"... .
Per capire bisogna tornare alla sera dell’8 settembre 1943, a Bari.
Tra civili e soldati in festa per la notizia dell’armistizio, quella sera c’erano anche numerosi Alpini, quasi tutti provenienti dal Piemonte:
reclute o richiamati in attesa dell’imbarco per il Montenegro, e "veci", in attesa di una tradotta per la licenza. Tutti facevano capo ad un
comando tappa della divisione "Taurinense".
Nella grande confusione che venne a crearsi, qualcuno di loro fece anche parte del gruppo che attaccò i tedeschi al porto mentre tentavano di farlo
saltare, ma gli Alpini rimasero uniti, fecero blocco forti del cappello con la piuma e della comune provenienza. [14]
A Bari si trovava il capitano Renato Maiorca, aiutante maggiore del 3° reggimento Alpini, che nel caos generale pensò di raccogliere tutti gli Alpini
che si trovavano nella zona. "Non fu semplice – scrive un testimone - gli alpini avevano un solo obbiettivo, raggiungere le loro case, i
loro cari, dopo tre anni di sacrifici e rischi non volevano più saperne di tornare a combattere. La propaganda disfattista e comunista rafforzava
le loro idee e il loro convincimento."[15]
Il capitano Maiorca riuscì a raggrupparne un certo numero in un "Reparto Esplorante Alpini" da inserire nella divisione "Piceno" che si diceva
sarebbe di lì a poco entrata in linea e tale reparto fu spostato ad Alberobello (Bari).[16]
Con il passare dei giorni i problemi aumentarono perché cominciarono ad arrivare i reduci dal Montenegro chi su una nave, chi su qualche
peschereccio, chi su piccole barche a vela, magari dopo aver combattuto per giorni contro i tedeschi; molti erano in condizioni pietose, con le
uniformi a pezzi e persino senza scarpe. Tutti avevano un buon motivo per protestare.
Non sapendo dove andare e che cosa fare si attendarono su una spiaggia del lungo mare in attesa degli eventi e quando qualcuno diede l’ordine di
raggiungere il porto per scaricare le navi alleate, dissero in coro di no: un caso eclatante di insubordinazione![17]
Il 28 settembre, mentre ancora a Bari si registravano degli arrivi, gli Alpini cominciarono ad essere trasferiti a Presicce, in provincia di Lecce,
quasi a Santa Maria di Leuca ed il nuovo reparto in costituzione fu battezzato battaglione "Taurinense".[18]
Il 1 dicembre, il neo battaglione fu trasferito a Nardò (Lecce), ma successe il finimondo. Si verificarono infatti numerosi incidenti con la
popolazione locale, che accusò gli Alpini di rubare nelle campagne e di atti di prepotenze varie, culminati in una colossale rissa per una partita
di pallone, seguita da ritorsioni multiple e vicendevoli.
Inoltre gli Alpini si sentivano abbandonati: vitto scarso e pessimo, uniformi a brandelli, calzature inesistenti. Sensibili ad una propaganda
diffusa che li invitava a disertare, dichiaravano apertamente di non voler più "far la guerra", ma di voler soltanto tornare a casa; si
verificarono gravi atti di indisciplina ed i più agitati vennero allontanati.
Il 1 gennaio 1944 arrivò un nuovo comandante, il maggiore Alberto Briatore, alpino dell’Appennino ligure, che si rese immediatamente conto della
grave situazione e dell’impossibilità di sopportare oltre la difficile convivenza con i civili, che stava prendendo una pericolosa piega ideologica
e politica.
Il maggiore Briatore non piacque e fu immediatamente battezzato "Najone" per la sua severità, scambiata per un assurdo attaccamento alla forma, però
fu lui a pretendere tre cose dai superiori comandi che cambiarono la vita agli Alpini: innanzi tutto che il battaglione fosse spostato in altra
provincia in una zona dove non ci fossero altre truppe, poi che fossero finalmente distribuiti nuovi capi di vestiario ed infine il miglioramento
del vitto.[19]
Fu così che il 10 gennaio 1944 il battaglione venne trasferito a Cisternino (Brindisi), dove si trovava già una batteria di artiglieria da montagna
su quattro pezzi.
Gli Alpini lasciarono Nardò senza rimpianti, ma all’arrivo nella nuova località trovarono il paese vuoto e le case sbarrate… La loro fama li aveva
preceduti e la popolazione alla notizia dell’arrivo di quegli ossessi si era chiusa in casa o era scappata nei paesi vicini! Passarono solo pochi
giorni e poi i rapporti divennero normali, anzi sempre più cordiali.[20]
Pochi giorni dopo, un’altra sorpresa, perché il 14 arrivò una colonna di 80 quadrupedi messi a disposizione del battaglione. Gli Alpini si fecero
sospettosi, "Gli sguardi dei soldati avevano assunto quell’espressione bovina che sotto un’apparenza quieta è piena di significato per chi sa
comprenderla. Quegli sguardi dicevano: voi credete di stringere le ganasce della naia, ma vi sbagliate; al momento opportuno ce ne andiamo."[21]
Ancora qualche giorno e arrivarono nuove serie di uniformi, scarpe ed equipaggiamento, mentre il vitto riprese un corso normale. Pur continuando a
recitare un rosario di moccoli il cui succo era quello che non avrebbero più "fatto la guerra", tra gli Alpini riprese un certo spirito di
corpo ed il morale rinacque.
Malgrado il pessimismo dimostrato da alcuni generali in visita, il 27 gennaio il battaglione, ormai strutturato su tre compagnie, partecipò ad una
esercitazione a Ostuni, dimostrando buona capacità operativa, ed il 3 febbraio, alla fine di una nuova esercitazione a fuoco, il comandante del
51° Corpo d’Armata, ancora incredulo per quello che aveva visto, non poté che complimentarsi con il maggiore Briatore.[22]
C’era un altro problema… Agli Alpini quel nome di "Taurinense" dato al battaglione non garbava, ricordava troppo il penoso soggiorno in
Jugoslavia e le giornate del settembre 1943. Idea felice quella del maggiore Briatore di ribattezzare il reparto in "Piemonte", nome che ricordava
casa e famiglia.[23]
Seguirono altre esercitazioni sul terreno anche con la batteria alpina e si arrivò al 10 marzo, quando giunsero tre ufficiali inglesi per ispezionare
il battaglione. Dapprima freddi e diffidenti, assisterono impassibili all’ennesima esercitazione a fuoco, finendo per esprimere i più ammirati
elogi per quello che avevano visto. Ciò però significava che il battaglione era considerato pronto all’impiego.[24]
Gli Alpini mangiarono la foglia e ricominciò la litania: "Alòra perché andòma nen a cà?" e a chi gli diceva che a casa c’erano i tedeschi
rispondevano "Già ai è i tedesc! E còn l’on? Nòi la fòma pi nen la guera, boja fauss!"
Se poi qualcuno insisteva gli veniva cantato un ritornello: "Se la naia ti reca dolore, va dal tuo comandante Briatore", come per dire provaci!
Il battaglione "Piemonte" sulla Linea Gustav
Si arrivò così al 17 marzo 1944, data fatidica, quando apparve una colonna di 52 automezzi vuoti che si fermarono all’ingresso del campo.
"Trasferire il battaglione non fu semplice – ricorda un testimone - non tutti erano propensi, tanto che all’apparire degli automezzi vi
furono delle manifestazioni ostili tra alpini ed ufficiali, la notte per timore di atti vandalici o teppistici, furono create squadre di sorveglianza
con alpini più fidati."[25]
Sta di fatto che all’alba seguente la colonna di 52 vetture mosse alla volta del fronte con l’intero battaglione a bordo, mentre gli abitanti di
Cisternino scesero nelle strade con gli occhi lucidi e corsero a salutare gli Alpini, considerati ormai di casa.[26]
Il viaggio durò 24 ore ed è probabile che le distruzioni che sfilarono sotto gli occhi degli Alpini riottosi li fecero riflettere sul fatto che per
arrivare a casa qualcosa bisognava pur fare per la causa. All’arrivo a Scapoli erano comunque tutti presenti! A dire il vero lo spettacolo che si
presentò loro non era dei più incoraggianti. I paesi erano vuoti e le case distrutte. Che differenza con la Puglia! Era vero, non avrebbero
combattuto, ma che pietà per quello che adesso vedevano. C’era di che pensare... .
In effetti, i paesi, ad eccezione di Castel San Vincenzo, si presentarono deserti, come racconta nelle sue memorie un reduce, il tenente Gianni Moro,
dell’11° Artiglieria: "Al nostro arrivo (a Scapoli n.d.r.) le uniche persone che vi troviamo sono il parroco e qualche sperduto, miracolosamente
sfuggito alla deportazione tedesca." [27] Circostanza confermata da un altro testimone, l’alpino Francesco Ferrero: "Quando
arrivammo a Castelnuovo al Volturno, il paese era vuoto; c’era soltanto il sagrestano, che tutti i giorni nel pomeriggio recitava il rosario davanti
al portone della chiesa distrutta. Gli Alpini sorridevano per l’accento con il quale pronunciava il latino, ma poi presero l’abitudine di partecipare
e qualche volta si univa il cappellano Don Pera, un bresciano."[28]
Moccoli e bestemmie, ma le compagnie si sistemarono in ordine, rispettati i turni di guardia, organizzazione dei rifornimenti, corvées di muli,
perlustrazioni, insomma un reparto perfettamente in ordine, anche se la disciplina formale qualche volta lasciava posto a quella sorta di
autodisciplina scanzonata propria dei reparti alpini… Gli ufficiali si dovevano adeguare: ad un ordine seguiva spesso un "signorno", con seguito di
mugugno, ma un ufficiale non sarebbe mai stato lasciato da solo al pericolo... . [29]
Pochi giorni dopo arrivò inaspettato un camion americano che scaricò sulla strada balle e scatoloni pieni di indumenti e scarponi da alta montagna,
subito distribuiti ai plotoni esploratori delle varie compagnie. Un segno bene augurante che seguiva il regolare ed abbondante invio di scatolame e
viveri di ogni genere. [30]
Il Monte Marrone
Quando gli Alpini arrivarono alle falde di Monte Marrone, tutti si stupirono del fatto che quella montagna minacciosa che li sovrastava fosse
ancora nelle mani dei tedeschi.
In effetti il 13 febbraio, il generale Guillaume aveva elencato in un documento le possibili azioni offensive da intraprendere: "La prima azione,
ad effettivi ristretti, si poteva svolgere in direzione nord avendo per obbiettivo la conquista di Monte Marrone-monte Mare per privare il nemico
di tali importanti osservatori." [31]
Il generale Utili aveva offerto i propri reparti per l’impresa che sembrava ormai prossima, ma il 10 marzo il generale Guillaume avvertì che il
C.E.F. avrebbe lasciato le sue posizioni e che il I Raggruppamento sarebbe passato agli ordini del 2° Corpo polacco.[32]
Il generale Guillaume avvertì anche che l’azione su Monte Marrone sarebbe stata rinviata ed il coordinamento passava al comando del 2° Corpo Polacco
ed in particolare a quello della 5a divisione di fanteria. Dai primi incontri con i Polacchi, questi si dimostrarono entusiasti del piano italiano e
garantirono ogni appoggio possibile specie da parte della loro artiglieria, tanto che il 24 marzo, nonostante una nevicata, le compagnie del
battaglione "Piemonte" iniziarono gli spostamenti necessari.[33]
Nella giornata del 30, vigilia dell’azione, la 1a compagnia raggiunge la base di partenza; un pezzo della batteria venne issato sul monte
Castelnuovo, conquistato il 23 febbraio dal IX battaglione d’assalto; il comando della batteria e gli altri tre pezzi vennero dislocati a quota
1193.[34]
L’azione iniziò alle 3,30 del 31 marzo.
Dal diario del battaglione:
"Alle 3,30 ha inizio l’azione. Fra le 5,30 e le 6,15 i nuclei esploranti delle compagnie raggiungono la cresta occupandola di sorpresa; ad un’ora di distanza raggiungono gli obbiettivi anche gli elementi successivi. L’azione si svolge con regolarità e precisione cronometrica. Durante tutta la giornata continua il lavoro dei portatori per far affluire sulle posizioni il materiale e le munizioni occorrenti. Un alpino si ferisce per un accidentale colpo di arma da fuoco, un altro si ferisce cadendo da un roccione."[35]
Tutto qui, sì tutto qui, ma per apprezzare il gesto occorre pensare che le tre colonne in cui fu diviso il battaglione dovettero superare un
dislivello di circa 700 metri, al buio completo. Ogni uomo, oltre all’armamento ed all’equipaggiamento individuale, portava uno zaino con un
carico di circa 40 chili, perché tutto doveva essere trasportato a dorso d’uomo: viveri, munizioni, attrezzi, mitragliatrici, fucili mitragliatori
e mortai. Altro che "non fare la guerra"... .
Gli Alpini erano preceduti dai plotoni esploratori, fra i quali alcuni valdostani, a cui competeva trovare il percorso migliore e, in alcuni punti
con difficoltà di 2° e 3° grado, assicurare le corde con le quali issarsi.
Alle 6,15 i primi esploratori erano sulla cresta ed entro le 7,15 i fucilieri erano già disposti a difesa, mentre il grosso si dava da fare a scavare
postazioni, stendere filo spinato, riempire sacchetti a terra.
All’alba tutto era pronto e la 1a e la 2a compagnia si distribuirono lungo la linea di difesa, mentre alla 3a fu affidato l’incarico di continuare
l’opera di rifornimento.
L’azione era riuscita perfettamente anche grazie all’attento esame della montagna eseguito nei giorni precedenti dagli addetti all’osservazione.
In un rapporto, il sottotenente Andrea Pingitore, della 3a compagnia aveva scritto:
"Spiccano nettissime tre punte (la più bassa a sinistra,
circa 1600 m.s.m. = la più alta a destra, 1770), con strapiombi calcarei rossicci di 200/300 metri, difficilissimi. La parete Est è solcata da 3
grandi canaloni in taluni punti boscosi e da svariati canalini ripidissimi, di neve e ghiaccio, che portano diretti in cresta.
Il canalone più grande, a sinistra, non presenta speciali difficoltà; trecce di sentiero alla base, attacco visibilissimo. Uno, due metri di neve
dura, salita in ramponi, discesa in scivolata. Esce in bosco, sulla sella fra la prima e la seconda quota (da sinistra a destra).
Il canalone al centro, più stretto, obliqua verso la 1770, la quota più alta, ed esce sulla selletta a destra, la più interessante. Si sale sul
bordo destro del canalone. Neve dura e ghiaccio = ramponi e piccozza = discesa con prudenza.
A metà percorso, dal bosco sinistro si biforca un arditissimo canalino di ghiaccio e neve, con rocce affioranti; che sale alla 1770. Cordata di tre
elementi = ramponi = piccozza ed attrezzatura da roccia. Passaggi di terzo e quarto grado, via da attrezzare come eventuale itinerario di ripiegamento.
Il canalone di destra si restringe sovente, supera subito un salto di roccia di circa 100 metri, ed esce in ripido bosco, sull’orlo della parete
Nord. Salita in ramponi e discesa in scivolata nel solco centrale. Due passaggi obbligati di 1° e 2° grado.
Cresta facile da percorrersi a Nord, difficile dalla selletta sotto 1770 a tutto il resto del percorso. La 1770 è attrezzata con circa 250 metri di
corda fissa, ininterrotta, e l’osservatorio del costone Nord con altri 48 metri. Chiodoni in ferro dolce, con occhiello fisso.[36]
I tedeschi reagiscono
E i tedeschi? Si fecero vivi il 2 aprile con una pattuglia che osservò da 800 metri, andandosene dopo i primi colpi di mortaio. [37]
Nella notte fra il 3 ed il 4 aprile invece, un’altra pattuglia si avvicinò a meno di 20 metri dalle postazioni della 1a compagnia, innescando una
vivace reazione. Un caporale ed un soldato tedeschi feriti rimasero sul terreno e vennero catturati; furono rinvenuti un fucile mitragliatore,
due mitra, un fucile, 5 bombe a mano, un binocolo e munizioni varie. [38]
Nei giorni seguenti le postazioni vennero migliorate, furono piantate tende, preparati ricoveri, aumentate le difese con filo spinato e mine, ma se
gli Alpini erano riusciti nell’impresa non furono da meno gli Artiglieri alpini. Un pezzo era già stato piazzato su monte Castelnuovo ed un altro
fu issato fin sulla vetta di Monte Marrone. Costò una fatica terribile, issato a mano con l’aiuto di corde ed un cavo d’acciaio. [39]
Soltanto il 10 aprile, i tedeschi tentarono con un colpo di mano di riprendere la cresta.
Dal diario del battaglione:
"Alle ore 3,25 del giorno 10 aprile 1944 le vedette avanzate della 1a compagnia schierata tra la q. 1770 di M. Marrone e la
selletta a Nord della quota stessa udivano rumori sospetti provenienti dal bosco antistante.
La visibilità era nulla a causa dell’oscurità e della fitta nebbia. Poco dopo lo scoppio di una mina confermava il sospetto che si trattava di un
attacco nemico. Dato l’allarme le truppe si schieravano prontamente nelle loro posizioni. Alle ore 3,30 cadevano sulle nostre linee colpi di
artiglieria, di mortai e di bombe lanciate con fucili lanciabombe; subito dopo avveniva l’assalto nemico accompagnato da fuoco di armi automatiche.
I tedeschi si slanciavano contro le nostre posizioni al grido di assalto e malgrado la pronta reazione di fuoco delle nostre armi un’aliquota di essi
riusciva a superare la cintura dei reticolati e ad infiltrarsi nella nostra organizzazione difensiva ove si accendeva una mischia violenta a colpi di
bombe a mano e con tiri di moschetti automatici. Il pronto intervento dei pochi elementi di manovra ed in special modo degli esploratori e di una
squadra fucilieri della terza compagnia riusciva a respingere gli attaccanti che, approfittando dell’oscurità del fitto bosco, ripiegavano
precipitosamente sulle posizioni di partenza. Il combattimento è durato circa due ore, le forze attaccanti sono da valutarsi, anche per dichiarazioni
di un prigioniero, superiori al centinaio. I tedeschi che hanno fatto l’azione appartengono a reparti di Gebirgsjaeger ed indossavano tute bianche.
Perdite nostre: Un sottufficiale morto (1), Cinque alpini feriti da schegge e bombe a mano.
Perdite nemiche accertate: 3 soldati morti, 1 soldato prigioniero.
Presumibilmente le perdite del nemico sono state molto gravi, essendo state notate sulla neve tracce di sangue e traccia di corpi trascinati. E’ stato
rastrellato il seguente materiale: n. 2 mitragliatrici, 3 pistole mitragliatrici, 4 fucili Mauser con lanciabombe, 4 canne di ricambio per
mitragliatrici, 5 cassette portamunizioni, 1 barella portaferiti, 30 caricatori per mitra, 20 bombe per Maser lanciabombe, 9 bombe a mano.
Il comportamento degli alpini è stato, anche in quest’occasione, degno di massima ammirazione.
(1) Il prode sergente maggiore Mario Falubba le cui condizioni di salute avevano reso non idoneo alle fatiche di guerra, ma che aveva voluto volontariamente rimanere a far parte della sua compagnia partecipando, fino all’olocausto della vita, al suo impiego." [40]
I tedeschi non tentarono altre azioni, ma mantennero le posizioni italiane sotto pressione con tiri di artiglieria e mortai che si abbatterono su tutta la zona, fin nelle retrovie. Durante uno di questi bombardamenti, il 22 aprile, furono feriti ben sette ufficiali e cinque Alpini del battaglione, mentre qualche giorno dopo un ufficiale e due alpini furono feriti dallo scoppio di una mina. [41]
La notizia della cattura di Monte Marrone si era sparsa velocemente tra i comandi italiani e quelli alleati, ed aveva suscitato viva curiosità
ed ammirazione.
Si susseguirono visite illustri, talune dovute, come quelle dei generali italiani ai vari livelli di comando, altre molto gradite come quella del
generale Sosnkowski, comandante generale delle forze polacche in Europa, del generale Anders, comandante del 2° Corpo polacco, e del generale Leese,
comandante dell’8a Armata inglese, che il 19 aprile fu ospite del generale Utili a Scapoli. [42]
Sensazione e sorpresa destò quella del generale Mac Creery comandante del X Corpo britannico, che volle salire fino al comando di battaglione, ma,
tra l’imbarazzo di tutti, volle essere accompagnato fino in cima a monte Marrone, affermando che a lui, scozzese, le montagne erano familiari. La
salita fu compiuta in quattro ore con qualche apprensione per via di alcune cannonate in arrivo, ma anche per un ruzzolone dell’illustre ospite. Il
generale scozzese rimase in ogni caso molto ammirato da ciò che vide ed il giorno successivo fece giungere un biglietto personale al maggiore
Briatore: "Major Alberto Briatore, with the compliments and the wishes of Lt General R. Mc Creery, Commander 10 Corps." [43]
Un’altra visita passò alla storia del battaglione e fu quella del principe Umberto che, giunto al comando, espresse anche lui il desiderio di salire
in cima. Al coro di no che seguì, il principe si avviò da solo lungo la mulattiera appena ultimata, ma, fatti pochi passi, fu fermato da un Alpino di
sentinella che gli spianò il fucile contro, apostrofandolo molto borghesemente: "“Ma chiel andova a cred d’andé? (Ma lei dove crede di andare)?".
Il Principe gli rispose in piemontese: "Ma mi i son ël Prinsi!" l’Alpino si riprese dalla sorpresa e cominciò un lungo dialogo nella lingua
comune, ma l’Alpino passò fra le leggende del battaglione come colui che non aveva riconosciuto il Principe... [44]
La morte del tenente Enrico Guerriera
Il 17 aprile al I Raggruppamento Italiano fu assegnata la nuova denominazione di Corpo Italiano di Liberazione, passando alle dipendenze del X Corpo d’Armata britannico ed estendendo la propria linea di difesa. [45]Ai primi di maggio, le compagnie del battaglione "Piemonte" furono sostituite da quelle del XXXIII e del XXIX battaglione Bersaglieri, con i
loro plotoni di arditi. Sulla vetta fu lasciato il pezzo da 75/13 della batteria alpina, al comando del tenente Enrico Guerriera.
Alla vigilia della nuova offensiva alleata si verificò un improvviso colpo di mano che costò la vita ad un ufficiale ed a due bersaglieri.
Dal diario del battaglione:
"Il tenente Guerriera Enrico caduto sul Monte Marrone a sud della q. 2021 il giorno 11 maggio 1944 alle ore 19 circa comandava
un pezzo isolato postato sulla quota 1170 di M. Marrone.
Una pattuglia di bersaglieri ha occupato di sorpresa la quota 2021 approfittando della nebbia. Verso le 16 si profila il contrattacco tedesco. Un
bersagliere ferito scende dalla quota verso il Marrone, ma fatte poche decine di metri cade a terra e non si muove. Il tenente Guerriera che l’ha
visto cede il comando del pezzo ad un altro ufficiale e presosi un volontario (sergente Accossato) va a portare aiuto al ferito. Il ferito intanto
si rialza e Guerriera constatato che può proseguire da solo sale sulla quota a dar man forte ai bersaglieri che sono fortemente impegnati.
Trascinato dall’entusiasmo per il combattimento si trova ben presto davanti e con l’esempio e con la voce incita tutti alla resistenza. Non desiste
benché ferito alla testa da un colpo di mortaio, non desiste benché ferito altre due volte alla spalla ed al braccio, non desiste dal suo
atteggiamento che suscita l’ammirazione dei presenti fino a quando una raffica di mitragliatrice lo coglie in pieno petto facendolo cadere esanime.
Ore 19 circa." [46]
Fu l’ultimo episodio di guerra avvenuto sulla cresta di monte Marrone.
MONTE MARE E IL TENENTE ENRICO GUERRIERA
Anche se con l’occupazione di Monte Marrone gli Alpini avevano sottratto ai Tedeschi un’importante punto di osservazione, in mano nemica rimaneva ancora Monte Mare, una vetta un poco più alta (m. 2147) subito dietro Monte Marrone, la quale consentiva ancora un’osservazione importante del fronte alleato e delle sue retrovie.
18/05/2014 | richieste: 2189 | MAURIZIO BALESTRINO
Le battaglie | #aprile 1944, alpini, italia, monte-marrone
Addio a Monte Marrone
Il battaglione "Piemonte", secondo gli ordini impartiti dal comando del C.I.L, partecipò all’operazione "Chianti" ed il 27 maggio 1944, mosse in
avanti verso il colle dell’Altare, dovendo sostenere diversi scontri contro le retroguardie tedesche. Nei giorni successivi la colonna Briatore si
spinse nella valle di Canneto, fino al santuario della Madonna di Canneto, dove incontrò di nuovo una vivace resistenza tedesca. Il 30 maggio,
ricevette l’ordine di tornare indietro.
Il C.I.L. sarebbe stato trasferito su un altro settore del fronte... .
Il ricordo lasciato fra le popolazioni del Molise si mantenne negli anni e nel 1968 il comune di Scapoli volle omaggiare i soldati italiani con
una lapide, alla quale seguì una seconda nel 1984.
In occasione delle cerimonie del trentennale, fu inaugurato con grande partecipazione di reduci il monumento a colle Rotondo, proprio alla base di
monte Marrone. Opera dello scultore Vittorio Piotti, un alpino, esso è stato eretto a cura della Regione Molise, "il monumento simboleggia con i
blocchi dedicati alle venti regioni italiane la liberazione delle quali è avvenuta anche grazie agli Alpini di Monte Marrone rappresentati dall’aquila
che spezza le catene della dittatura dinanzi alle tre croci simboli dei martiri della libertà." [47]
Venne eretta la croce con l’aquila appoggiata, che svetta ancora oggi sulla cima del monte. Essa fu voluta dai reduci del battaglione e finanziata
con i proventi del libro "Una guerra da signori: diario di guerra di un sergente degli alpini" scritto da un reduce, Sergio Pivetta, allora giovane
sergente maggiore, volontario nel battaglione "Piemonte" che, come lui stesso racconta, aveva preferito lasciare il corso di Allievi Ufficiali che
stava frequentando pur di raggiungere gli Alpini, rinunciando alla promozione ormai sicura; l’avanzamento al grado gli fu poi conferito per meriti di guerra.
Motivazione della medaglia d’Argento al Valor Militare conferita al Btg. Alpini "Piemonte"
Costituto con elementi della divisione alpina "Taurinense", che dai porti adriatici della Balcania riuscirono a raggiungere fortunosamente la
Puglia dopo l’armistizio, partecipava a tutta la guerra di Liberazione riconfermando ognora la tempra intrepida delle genti della montagna. Alla
gloria perenne delle nostre armi offriva due difficilmente pareggiabili esempi di fusione perfetta di perizia, valore e fortuna: prima a Monte
Marrone, scalato di sorpresa per la ripida parete ed eroicamente difeso sull’orlo dell’abisso alle spalle; poi a quota 363 di Valle Idice,
strappata al nemico con una stoccata saettante e fulminea, spezzando la cerniera delle due Armate tedesche in Italia, donde poi traboccò su Bologna.
Campagna di Liberazione, 18 marzo 1944-8 maggio 1945."
Bibliografia
Ringraziamenti
Note
Nel caso in cui il testo derivi sempicemente dall'esposizione, con o senza traduzione, di documenti/memorie al solo fine di una migliore e più completa fruizione, la definizione Autore si leggerà A cura di.
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18/05/2014 | richieste: 2189 | MAURIZIO BALESTRINO
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