GLI ECCIDI TEDESCHI DI SAN PIETRO INFINE
Nell’autunno del 1943, mentre la pressione dell’esercito degli Alleati si faceva sempre piú consistente lungo la Winter Line, nel territorio di San Pietro Infine si scatenò l’ira vendicativa dei tedeschi. In località Cerrete[1], in tre giorni consecutivi e precisamente dal 9 all’11 novembre del 1943, i nazisti massacrarono ben 17 civili. Qualche giorno più tardi, nei pressi della chiesetta della Madonna dell’Acqua mitragliarono altre due donne che cercavano qualcosa da mangiare per sé e per i propri figli[2].
Diverse e contraddittorie risultano oggi le motivazioni. Si racconta che una pattuglia delle SS avesse trovato
alcuni civili con scarponi e abbigliamento militare di fattura tedesca, presi forse a soldati morti per
proteggersi dal freddo, ma si narra anche che alcuni civili fossero stati sorpresi in una zona proibita mentre
altri si fossero rifiutati di abbandonare i rifugi dove avevano riparato a causa dei bombardamenti. Un’altra
versione vuole che un gruppo di civili si fosse impossessato, da muli abbandonati, delle someggiate di
rifornimenti per il fronte. Una variante significativa ritiene infine che la someggiata fosse stata lasciata
di proposito incustodita per tendere un agguato. Ad ogni modo, qualunque sia stata la motivazione,
la sproporzionata reazione tedesca fu delle più feroci e spietate.
Dalle testimonianze dei sampietresi sopravvissuti si è cercato di ricostruire ciò che avvenne in quei funesti
giorni di assurda barbarie.
Il 9 novembre Giuseppe Matera[3], 26 anni, e Antonio Colella[4], 40 anni, furono fatti prigionieri perché sorpresi dai nazisti con scarponi militari tedeschi. Giuseppe fu immediatamente fucilato sotto un grosso olivo in prossimità di una grotta denominata "Dei Gazzerro"[5], al cui interno erano i figli ed altri parenti che assistettero alla fucilazione. Antonio Colella riuscí invece a scappare e dopo un’affannosa corsa, vistasi sbarrata la fuga da un’altra pattuglia tedesca che proveniva dalla direzione opposta, si rifugiò in una grotta delle Cerrete. All’interno vi erano altri civili[6]. I tedeschi riuscirono a trovare il rifugio, si fermarono all’ingresso e ordinarono: «Donne e bambini fuori»; alcuni, tra cui Mariantonia Angelone, uscirono; altre donne non lo fecero, sperando che la loro presenza potesse salvare i propri uomini. I tedeschi non si lasciarono dissuadere e spararono all’interno, uccidendo oltre ad Antonio Colella, da loro ricercato, anche quattro inermi civili e ferendone altri. Oltre al Colella, morirono anche Augusto Fuoco[7], di 56 anni, e la moglie Giuseppa Angelone[8], di 58, che non aveva voluto abbandonare il proprio marito. I loro corpi furono ritrovati più di un mese dopo ancora abbracciati.
Rimasero uccisi inoltre anche due uomini che appartenevano al disciolto Esercito Italiano e che si trovavano bloccati a San Pietro Infine, dove passava la
linea Reinhard. Uno dei due, di circa 26 anni, si chiamava Vito Mistretta e stava facendo ritorno in Sicilia;
dell’altro non si conoscono i dati. Rimasero invece feriti Giuseppe Gatti[9] di 39 anni e la sorella Rosa. Giuseppe
fu colpito di striscio da un proiettile che gli provocò un taglio sull’addome e la fuoriuscita degli organi
interni, mentre Rosa fu ferita ad una gamba sempre da un proiettile. Rosa si era buttata sul corpo del fratello
facendogli da scudo. I tedeschi andarono poi via e i civili scampati rimasero in silenzio per un bel pò.
Aspettarono fino a quando si resero conto che avevano campo libero e quindi si diedero alla fuga rifugiandosi
nella masseria adiacente. Fiorentino Gatti[10], di 42 anni, constatò che la ferita del fratello Giuseppe era grave e
che quindi doveva essere medicato, per cui lo convinse a cercare aiuto in paese. Partirono la mattina successiva.
Giuseppe si mise a dorso di un asino insieme alla sua ultima figlioletta Benedetta, di appena otto anni, mentre
Fiorentino li precedeva a piedi. Arrivati alle case della Petriera, situate lungo la Strada Annunziata Lunga,
a poche centinaia di metri ad est del paese, furono bloccati da alcuni tedeschi che, con i mitra spianati contro,
ordinarono loro di seguirli in una grotta situata lì vicino. Gli stessi tedeschi, nel notare la ferita da arma da
fuoco, dovettero pensare che i due fossero scampati al mitragliamento del giorno prima e ritenendo che uno di essi
poteva essere l’uomo sfuggito, decisero di eliminarli entrambi. Misero dunque la bambina sull’asino, le fecero
segno di continuare il cammino e poco dopo si sentirono echeggiare nell’aria dei colpi di mitraglia e poi
un’esplosione. Avevano giustiziato i due nella grotta e ne avevano poi causato il crollo facendola saltare con
l’esplosivo[11].
Lo stesso giorno – è il 10 novembre – i tedeschi uccisero anche Filomena Cistrone, di Cervaro, 57 anni, che era
andata a prendere l’acqua a Gliu Sperine, sempre in località Cerrete. Il marito Pasquale Meo[12], 69 anni, non
vedendola ritornare andò a cercarla e la intravide tra la vegetazione riversa a terra dall’altra parte di un
fossato. Pasquale non ebbe neppure il tempo di raggiungerla che il tedesco che le aveva sparato uccise anche lui.
I due coniugi morirono cosí lungo quel fosso che li separò oltre la morte: un corpo giaceva su una sponda, l’altro
dalla parte opposta.
Ma la barbarie tedesca non finí qui. Il giorno successivo altri sette civili furono trucidati dalle spietate
squadriglie naziste. Giusta Mignanelli, di 65 anni, il cognato Giuseppe Nardelli[13], di circa 70 anni, e un uomo
ultracinquantenne che si trovava ramingo da quelle parti e che da qualche giorno si era fermato con loro, si
incamminarono per cercare un rifugio più sicuro nella propria tenuta che si trovava in località La Forcella, alle
pendici di Monte Rotondo. I tre erano seguiti a poca distanza da Vittore Nardelli[14], di 42 anni,
Angela Colella[15], anch’essa di 42 anni, e i loro figli Vincenzo[16], di 17 e
Domenica[17], di 13. Tutti e sette camminavano in fila indiana, quando furono fermati da una pattuglia
tedesca che ordinò loro di invertire il cammino e di tornare indietro. Il comando non fu compreso perché
probabilmente, oltre a non comprendere il tedesco, i sette erano intimoriti dalle uccisioni dei giorni precedenti.
Pertanto annuirono, come se avessero capito, e continuarono lentamente a camminare per allontanarsi, ma non fecero
che pochi passi che i tedeschi scaricarono i loro mitra su tutta la fila. I civili caddero falcidiati in
prossimità di un fosso di scolo dell’acqua piovana della montagna[18].
L’unica che non rimase uccisa fu Angela Colella, la quale rinvenne dopo qualche minuto di svenimento. Quando si riprese, i tedeschi erano già andati via,
tutt’intorno imperava il silenzio, chiamò aiuto ma nessuno le rispose.
Si alzò e vide il marito e il figlio abbracciati nella morte, mentre la figlia Domenica era riversa carponi
proprio in mezzo al fosso. Angela era stata ferita al mento e al petto, proprio all’altezza dell’esofago, ma il
proiettile era uscito dalla parte opposta, non aveva lacrime perché impietrita dal dolore. Pensò di chiedere
soccorso in paese, ma prima spostò il corpo di Domenica, temendo che l’acqua piovana la potesse portare chissà
dove, e poi a fatica, indebolita dalla ferita, si recò in paese. Andò dritta a casa di alcuni amici dove sapeva
che vi erano nascosti altri sampietresi. Appena giunta, raccontò dell’accaduto ai rifugiati che erano già a
conoscenza della strage dei due giorni precedenti. A riferirlo erano stati due soldati italiani allo sbando che
indossavano ancora la divisa. I militari stavano tornando al loro paese dopo l’armistizio e si trovarono bloccati
proprio dalla linea difensiva tedesca. I due avevano trovato rifugio alle Cerrete e il giorno dell’eccidio si
trovavano nascosti proprio nella grotta. Si salvarono dalla morte grazie alla loro scaltrezza ed esperienza:
infatti quando videro le sagome dei tedeschi comparire sull’uscio della grotta compresero immediatamente le loro
intenzioni e d’istinto si buttarono a terra, sfuggendo così alle mitragliatrici.
I sampietresi cercarono di portare soccorso ad Angelina, ma la mancanza di medicinali e la scarsa igiene in cui
erano costretti a vivere fecero infettare la ferita[19]. A ciò si aggiunge il fatto che la donna non poteva mangiare
né ingoiare liquidi, per cui pochi giorni dopo morí.
Quando i soldati americani conquistarono definitivamente il paese, riducendolo ad un cumulo di macerie, molti
civili decisero di spostarsi dalla Valle della Morte[20], situata ad ovest del paese, o dagli altri ricoveri sparsi
su Monte Sambùcaro, per andare in località Cerrete, che faceva ormai parte delle retrovie alleate. Anche Francesco
Nardelli e la moglie Michelangela Di Raddo[21], seguiti da altri familiari ed amici, vi si recarono. Durante il
tragitto trovarono ai bordi di un fosso ancora i tre corpi insepolti, in stato di avanzata decomposizione, di
Vittore Nardelli e dei suoi figli Vincenzo e Domenica. Arrivati alle Cerrete, cercarono di riattare per prima
cosa la casa, il terreno ed anche la grotta ma qui trovarono ancora i cadaveri dell’eccidio e non ebbero il
coraggio di portarli via. Quando però una cannonata arrivò nei pressi, realizzarono che non la casa ma la grotta
era il posto piú sicuro. Si fecero coraggio e portarono all’esterno i corpi. Li adagiarono in un fosso per il
letame che si trovava pochi metri più in là, rinviando la loro sepoltura perché le cannonate si facevano sempre
piú fitte. Cercarono allora di pulire alla meglio la cavità, grattarono le incrostazioni e la imbiancarono di
calce. Francesco e Michelangela ricordano ancora che nell’avvicinarsi ai corpi ne trovarono uno con la testa
poggiata su un tronco di legno e che a stento vi riconobbero il cadavere di Antonio Colella, come pure
riconobbero, nei due corpi trovati abbracciati, le salme di Augusto Fuoco e della moglie Giuseppa Angelone.
In quella straziante giornata il ritrovamento nella grotta di due bottiglioni di vino ancora intatti – e loro
non ne assaggiavano da diversi mesi – restituì qualche momento di conforto.
La grotta così ripulita tornò ad essere un rifugio, ma poi arrivarono gli americani e la requisirono per
insediarvi un comando, imponendo ai sampietresi di sloggiare. Così quei poveri derelitti dovettero ancora una
volta spostarsi, rifugiandosi altrove.
La sorella di Vittore Nardelli, Emilia, nei primi mesi del 1944 andò, insieme ad altri sampietresi tra cui Antonio
Carciero[22], a recuperare i resti dei propri congiunti per dare loro sepoltura. Tra copiose lacrime Emilia raccolse
quello che era rimasto del fratello e dei suoi figli e mentre li sollevava sul carretto si ferí alla mano con un
ferro arrugginito. Quella ferita mal curata le si infettò e solo dopo molto tempo guarí lasciandole però
un’invalidità permanente all’arto[23].
Nell’immediato dopoguerra i Carabinieri di Mignano Montelungo ebbero il compito di investigare sugli eccidi.
Furono allora sentite alcune persone tra cui Regina Acciaioli[24], la quale riferí che i tedeschi avevano
dei teschi umani disegnati sugli elmetti[25], pertanto facevano parte dei corpi speciali delle SS denominati "Unità dei teschi
di morto", il cui compito era di utilizzare la massima spietatezza rispetto a quanto o quanti avessero provocato
disturbo o intralcio all’esercito tedesco. Qualcuno ha ipotizzato che fosse la stessa squadra punitiva che compí
l’eccidio di Monte Carmignano a Caiazzo, il 13 ottobre 1943.
Note
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