IL NOSTRO *CINQUANTUNESIMO*
Sono Giovanni Recchi, detto Gianni da Verona, e
questa è la storia del LI° battaglione Bersaglieri allievi ufficiali di
complemento, e di altri reparti, attraverso i fatti vissuti da chi scrive e dai
suoi commilitoni.
Innanzi
tutto desidero inserirmi nel periodo di Marostica, Febbraio/Giugno 1943, con il seguente
aneddoto.
Istruttore
d’armi e tiro, presso la terza compagnia moto, era il tenente Podestà: un
milanese dal carattere del tutto particolare, di poca confidenza, intelligente
e arguto, con il potere innato di annientarti con una semplice occhiata, ben
più efficace di qualsiasi biglietto di punizione
*Il
grande sconosciuto*
: questo era il titolo del tema assegnato dal detto tenente, a noi malcapitati
ed esterrefatti allievi, vogliosi di pennichella in quel caldo pomeriggio del
giugno 1943.
Dopo
attimi di comprensibile sbigottimento, incominciarono a incrociarsi tra di noi
occhiate interrogative e sommessi bisbigli, circa il misterioso personaggio
proposto dal tema. Sempre più concitatamente, seppur sottovoce, vennero passati
in rassegna i nomi di Cavour, Italo Balbo, Carneade, Giuseppe Verdi, e altri ancora. non esclusi quelli di Starace
e dello stesso colonnello Trapani, comandante del battaglione.
Lo
sgomento in noi si acuiva sempre più alla constatazione che qualche allievo,
toccato dalla luce divina, si accingeva
a scrivere chissà mai che cosa, sordo a ogni sollecitazione d’aiuto da parte di
chi più non sapeva a qual santo votarsi. Io ero indeciso tra Alessandro
Lamarmora e il colonnello Carpitella, l’inventore del regolo omonimo. Fu lo
sguardo tagliente del Podestà a farmi optare per il Carpitella.
Volevo
infatti riabilitarmi dall’occhiata demolitrice sparatami il giorno prima dal
detto tenente quando, calcolando col succitato regolo l’altezza del campanile
di Nove, essa mi era risultata di poco inferiore ai 4 chilometri.
Immaginate
come rimanemmo tutti noi quando, consegnato il tema, venimmo a sapere che *il grande sconosciuto* era nientemeno che . il fucile modello
’91.
Udimmo
per parecchi giorni le sonore risate di *papà Enea* (il capitano Castelli) sovrastare,
in fureria, i grugniti del tenente Podestà.
E
veniamo al settembre del 1943, quando inizia la tremenda avventura di noi
ragazzi, privi di notizie delle nostre famiglie rimaste al Nord, e primi ad
accorrere, male armati e peggio equipaggiati, là dove ci attendeva la prova del
riscatto dall’immane sfacelo, morale e materiale, nel quale era stata
colpevolmente sprofondata l’Italia.
Dal
posto di blocco di Palese e da Bari
- difesa in armi sin dai
giorni 9, 10, 11 settembre -
partivano le ardite pattuglie della terza compagnia moto, per tutto il mese di settembre, verso Molfetta, Barletta, Casamassima, San
Michele, Acquaviva delle Fonti, Cassano Murge, Trani e altre località, sostenendo scontri a fuoco con reparti
tedeschi e mitragliamenti aerei lungo la litoranea.
Come
dimenticare, tenente Nay e sergente Riccardi,
l’esempio del vostro sereno coraggio?
Come
dimenticare il desolante quadro delle torme di *sbandati* che, con le divise a
brandelli, e qualcuno persino
scalzo, cercavano di raggiungere le
proprie famiglie?
E come
dimenticare, di contro, Leone (Orioli) e Sergio (Agus) feriti il 13
settembre nello scontro improvviso e violento, in quel di Trani, con una pattuglia tedesca penetrata poco
prima nella caserma del Genio,
impadronendosi di un automezzo, da noi poi recuperato.
Mi viene ora la
pelle d’oca pensando a quale brutta fine avremmo fatto se ci avessero
catturato i tedeschi: in quel periodo, infatti, l’Italia era ancora alleata
della Germania.
Beata
incoscienza del nostro giovanile ed eroico entusiasmo, ma colpevole incoscienza
degli alti comandi!
Fine
settembre 1943 -
il LI°
battaglione, inquadrato nel 1° Raggruppamento Motorizzato, si
trasferisce a Cellino San Marco - il 18 ottobre, in seguito a incidente stradale, muore il nostro
carissimo tenente Nay, reduce dalla campagna di Russia, ove era stato decorato
con due medaglie d’argento al valor militare.
Ricordo
ancora gli incubi della veglia notturna,
assieme a Rosolo, nel cimitero di
Cellino.
Novembre
del 1943 - trasferimento, sotto la pioggia battente, ad Avellino e, successivamente, a Sant’Agata dei
Goti (Benevento). Nella zona di Montesarchio il Raggruppamento svolge una
brillante esercitazione, apprezzata dagli ufficiali americani con riserva, però, circa l’armamento e l’equipaggiamento
giudicati scadenti e antiquati.
E
pensare che Mussolini aveva dichiarato guerra a Francia, a Gran Bretagna e perfino agli Stati Uniti d’America !!
6
dicembre 1943 -
giunge improvviso l’ordine del II Corpo d’Armata Americano, alle cui
dipendenze era stato posto il Raggruppamento, di portarsi nella *zona
d’impiego* che, per le notizie di radio scarpa, sembra essere
Montelungo.
Partenza
alle ore 12,30 sotto una pioggia torrenziale: per dove? Ma, santissima
Ad
ogni modo, dubbioso circa l’efficacia dei superiori comandi, avanti in colonna
seguendo chi ci precede!
Il
trasferimento al fronte è stato, per noi
della terza moto, un vero
calvario.
La
colonna si è ben presto sfilacciata su lunghi chilometri, per cui ci siamo
potuti riunire nel punto di avvicinamento,
oltre il bivio per Venafro, solo nella tarda serata. La strada era ricoperta da uno strato di
fango così alto e tenace da bloccare all’improvviso le ruote delle motociclette,
catapultandoci tra l’infernale traffico di mezzi di ogni tipo, brulicante nei
due sensi. Per ripartire dovevamo
staccare con le mani sanguinanti e con qualche mezzo di fortuna la mota
cementatasi sotto i parafanghi: un calvario!
Non
scorderò mai l’attimo di terrore provato quando, in una di tali numerose cadute,
mi sono visto i cingoli di un carro armato sferragliare a breve distanza dalla
mia faccia prona nel fango.
Ma il
mio eroismo - da tutti misconosciuto pur se a me intimamente ben noto – penso
sia emerso, fulgido nella sua luce di
gloria, quando nel tardo pomeriggio sono rimasto assordato e accecato da una
tremenda cannonata esplosa a pochi metri da me. Ho immediatamente intuito
d’essere stato avvistato dal nemico per cui,
con balzo felino, mi sono
lanciato dalla motocicletta in corsa atterrando contro un arginello al margine
di una stradicciola che, senza bussola e senza stelle, avevo Dio sa come imboccato. Mentre mi
accingevo a vender cara la pelle, una seconda e più tremenda cannonata domava
il mio inconsulto slancio, convincendomi a stare bene acquattato, in attesa del
giusto momento per passare fulmineamente all’attacco.
Così
mi vide quell’incosciente caporale americano che, fermata la jeep, cercava di indurmi a rialzarmi, mentre io gli facevo disperati cenni di
ripararsi, chè gravissimo era il pericolo.
Prevalse l’americano quando riuscì a farmi capire che le cannonate erano in partenza, sparate da una batteria che si intravedeva
vicinissima, nella bruma serale.
Mai
miracolo mi parve più grande dell’incontro avvenuto, poco tempo dopo, con i miei ufficiali, con i miei amici, con
la mia gente!
Certo
però che in me non si dissipava l’arrovellante incognita di come avrei potuto
affrontare le cannonate in arrivo, se tanto mi avevano sconvolto quelle in
partenza. Mi acquietai nella speranza di avere comunque tanto coraggio da
superare la fifa:
fu così
. che non venni decorato!
Verso
le due del mattino, con la pioggia fredda e insistente, la terza compagnia,
finalmente radunata, inizia la marcia per Montelungo, sotto l’infuriare del
cannoneggiamento proveniente da Montelungo e da Montemaggiore.
Attraversiamo
Mignano, grigia, cupa, rinchiusa nelle case e alle sei del mattino, stroncati
dalla fatica e fradici di pioggia, ci sistemiamo tra i cespugli sulle pendici
di un colle, che ci dicono essere Monte Rotondo. Siamo sotto il fuoco terribile
dei mortai tedeschi e in aria ruggisce il duello delle opposte artiglierie: sorprendentemente,
riesco ora a distinguere i colpi in partenza da quelli in arrivo.
Mi
viene da pensare, chissà perchè, ai garibaldini di Calatafimi, ai volontari di
Curtatone e Montanara e ai combattenti del Carso, ove mio padre, umile fante,
rimase mutilato di una gamba a Castagnevizza:
ho il presentimento di non avere l’animo dell’eroe.
Trapela
qualche notizia: la prima e la terza compagnia
rimangono, di riserva, su Monterotondo, a est di Montelungo, che verrà attaccato, domattina, dal sessantasettesimo
reggimento fanteria, fiancheggiato
sulla sinistra dalla nostra seconda compagnia, contro le
posizioni nemiche di Colle San Giacomo.
Addio
Alfredo (Aguzzi) carissimo, primo caduto del nostro
*cinquantunesimo*: la scheggia maledetta
ti ha spaccato il cuore mentre mi stavi sottovoce parlando, tra i cespugli di
Monterotondo. . Chi mai ti
ricorda ?.
8
dicembre 1943, giorno dell’Immacolata.
Una
fitta nebbia avvolge Montelungo rendendo impossibile l’osservazione e
l’aggiustamento del fuoco delle artiglierie di ogni calibro che, per tutta la
notte, hanno rabbiosamente battuto il fronte e che, alle cinque e trentacinque, iniziano il
tiro di preparazione.
Ore
sei e trenta - la seconda compagnia inizia l’attacco e alle
sette raggiunge il primo
obiettivo, la *Casetta Rossa* ove, con
l’improvviso diradarsi della nebbia, viene investita dal fuoco preciso di
numerose armi automatiche che immediatamente causano elevate perdite, rendendo
insostenibile la situazione.
Una
pattuglia tedesca con una mitragliatrice pesante, infiltratasi tra Colle San
Giacomo e Montelungo, viene prontamente eliminata dal tiro dei 47/32 del quinto
battaglione controcarro.
La
prima e la terza compagnia si portano immediatamente a rinforzo dell’azione sul
torrente Peccia e sulle pendici di quota 253 di Montelungo, sulla quale nello
slancio di un attacco frontale a colpi di raffiche e di bombe a mano, si erano
immolati i fanti del sessantasettesimo reggimento, alla cui bandiera verrà
assegnata la medaglia d’oro al valor militare.
Vedo
nella piana le figure stravolte di Vittorio (Rebeschini), di Carlo (Albani) e
di pochi altri superstiti: Federico
(Marzocchi) si regge il braccio sinistro semitroncato dalle raffiche e Raffaele
(Vivaldi), anche lui veronese, mi grida che Gino (Tambalo), altro amico di
Verona, è caduto alla Casetta Rossa.
Salgo
nel buio di roccia in roccia, tra i colpi di mortaio, trascinato e sospinto
dallo spirito indomito di Leone (Orioli), caposquadra dal generoso sangue
romagnolo.
Mattino
del 9 dicembre: vengo inviato, con Leone (Orioli) e con Mario (Capella), a
raggiungere la cima di quota 253 per
prendere contatto con il II° battaglione del sessantasettesimo: non troviamo
nessuno, tranne i cadaveri di due tedeschi e un fante ferito che cerca
faticosamente di rientrare tra le nostre linee.
Durante
la notte ci rannicchiamo tra le rocce, tormentati dai mortai, dal freddo
pungente e dalla pioggerella ghiacciata, mentre tra le linee gemono i feriti
che chiedono aiuto. Il capitano Castelli, con una piccola pattuglia, si spinge
verso le linee tedesche: e viene così recuperato e salvato uno dei feriti.
Un’altra
pattuglia, al comando del tenente Moiso, si scontra con una pattuglia tedesca,
nei pressi della Casetta Rossa: cade uno dei tedeschi e gli altri quattro
vengono catturati e portati entro le nostre posizioni.
16
dicembre: nuovo attacco in combinazione con un reparto
americano e, finalmente, Montelungo è
conquistato.
Oltre
60 perdite e 32 decorazioni al valore testimoniano l’olocausto del nostro LI°
battaglione, Elevatissime anche le perdite dell’eroico 67° fanteria,
pesantemente falcidiato.
Tra
l’otto e il sedici dicembre la forza d’attacco è stata di circa mille uomini,
tra fanti e bersaglieri: più del quaranta percento le perdite
subite, costituite da 89 morti sul campo, 195 feriti e 160 dispersi.
Addio Attilio
(Faggi) Mario (Cardone). addio.
Giambattista (Bornaghi). Ludovico (Luraschi). Umberto (Morelli). Lino
(Santi). Dario (Sibilia). eroici
ragazzi diciassettenni, allievi ufficiali della Accademia Navale, volontari nel
LI° battaglione: sognavate gli infiniti orizzonti e le azzurre distese degli
oceani e vi siete invece immolati, inesperti, tra le aride rocce di
Montelungo . chi
Ma
perchè mai, mi chiedo, sono stati aggregati proprio alla compagnia destinata
all’attacco, loro che venivano da una brevissima istruzione militare, di
carattere navale, minorenni e digiuni di
ogni conoscenza delle armi e della tattica delle fanterie? Non mi si risponda, prego, con la retorica.
Chi ti
ricorda Gino (Tambalo), amico
carissimo, anche tu
veronese, caduto alla
Casetta Rossa ? La sera antecedente la
partenza da Sant’Agata mi parlavi,
triste, della tua famiglia
lontana, nella tua Legnago, e del
periodo, ancor recente, della tua
frequenza alla Accademia della Farnesina .
Addio,
amici cari che riposate nel cimitero di guerra di Montelungo, a fianco della
Casilina, sotto
Sulla
cima del Monte, il nostro Monte, veglia la Madonnina dal candido manto .
21
dicembre 1943 – Lasciamo
Montelungo e iniziamo una marcia di oltre venti chilometri per il riordinamento del reparto nella
zona di Venafro. In condizioni
fisico-morali pietose, ci sistemiamo nelle stalle di Sesto Campano.
Notte
sul Natale del 1943 – Pio (Meletti) mi sveglia per farmi gli auguri e mi chiede
di chiacchierare un po’, adagio, sottovoce,
per non svegliare Zeno (Zanotti),
Gigi (Chiericati) e gli altri che
dormono rannicchiati su poca paglia.
Dalla
finestrina entra l’alba a spezzare la luce vivida sopra un’Ostia di pagnotta e
penso che sull’inferriata arrugginita ci siano gli angeli di Betlemme.
E qui
mi piace ricordare, col cuore gonfio d’amarezza, le parole di papà Enea nel suo Profilo storico del LI° Battaglione Bersaglieri A.U.C.
.
In tali condizioni si avvicina il Natale e subentra in tutti noi un’accorata
tristezza al pensiero delle nostre famiglie lontane.
In
passato, vi erano stati altri Natali di
guerra, ma nessuno poteva uguagliare il presente; sul suolo nazionale, divisi e
senza notizie delle famiglie, invisi all’opinione pubblica specie delle città
già liberate da tempo, di fronte ad una annunciata guerra fratricida, con davanti la visione di tanti compagni
caduti, noi italiani, umili tra gli umili, ci rifugiammo sulla paglia fradicia
e sul letame, sotto lo stillicidio delle travi marcite.
Mattino
di Natale: passato il Volturno in piena su una
traballante passerella, avevo riunito la Compagnia dentro una stalla,
affondati nel letame sino alle caviglie:
volevo rincuorare i ragazzi avviliti e disperati.
Mi
sforzai di dire qualche parola, rammentare le famiglie lontane che presto
avremmo raggiunto perchè, sostenevano gli Americani, spezzate le difese della Reinhart che
facevano perno su Montelungo ormai conquistato,
saremmo ben presto arrivati a Roma
Senonchè
il nodo che mi serrava la gola mi impedì di spiccicare parola
Natale
del 1943 – Nel
pomeriggio arriva l’ordine di trasferirci immediatamente nella zona di Bonea
Bucciano (Benevento), per la
ricostituzione del reparto.
Ma
come ? Proprio nel giorno di Natale
? Sono talmente triste e sfiduciato che
non riesco nemmeno ad arrabbiarmi. Ho
l’impressione che negli altri comandi vi sia grande confusione . che manchi
ogni sensibilità nei nostri confronti e che si badi più che tutto ai quadri
degli avanzamenti di carriera e delle promozioni.
Termina
il 1943.
Nel
gennaio 1944 i resti del Battaglione vengono decimati da una epidemia di
pericolosa influenza. Moltissimi sono
gli allievi ricoverati all’ospedale militare: tra questi, anche Rosolo e ho il
presentimento che non ci rivedremo più dato che la terza compagnia viene
sciolta e noi veniamo presi in forza dal XXIX battaglione, reduce dalla Grecia.
Il
distacco da Rosolo mi rende triste: egli è per me un amico carissimo, un
ragazzo serio, sereno, concreto e la sua sincerità mi ha sempre dato sicurezza
e fiducia.
Dopo
pochi giorni i resti del LI°
battaglione, col capitano Castelli, si trasferiscono in Puglia quale
reparto di addestramento reclute e rifornimento di complementi per le Forze
Armate.
Addio
mio amato LI°, smembrato per superiori esigenze: addio cari amici, uniti dal
comune entusiasmo goliardico e dai ricordi di giorni irripetibili e
indimenticabili che, in breve tempo, hanno maturato la nostra giovinezza .
addio.
Nel
XXIX veniamo accolti freddamente; mi sento spaesato, smarrito e demoralizzato e
la tristezza mi gonfia l’anima di solitudine e di cupi pensieri.
Febbraio
1944 – Il XXIX è
sul piede di partenza per il ritorno al fronte in una situazione per noi
confusa e quasi irreale. Decidiamo, quasi tutti, di opporre resistenza e di
ritornare alla sede del nostro vecchio LI° . vogliamo essere trattati da
persone e non quali aridi numeri del ruolino di fureria: siamo inoltre presi
dal timore di poterci scontrare al fronte con le truppe italiane arruolate nel
Nord.
Apriti
cielo . Scatta subito l’efficienza repressiva
dei superiori comandi: fucilazione, ergastolo, degradazione .
e la nostra esasperazione !
Per
carità di Patria, salto a pie’ pari il
mese di febbraio 1944.
In
marzo raggiungiamo il deposito di Airola
(Benevento), invitati a presentare istanza per il fronte, come
volontari
.il
tutto alla faccia di un intero esercito dissoltosi nella tragedia dell’8
settembre.
Conosco
ove sono nascosti molti .sbandati. ufficiali compresi, verso i quali non viene
intrapresa azione alcuna !
Giunge
dalla Corsica il XXXIII battaglione che, con il XXIX, costituisce il 4°
reggimento bersaglieri e, nell’aprile 1944,
il I° Raggruppamento assume la denominazione di Corpo Italiano di
Liberazione, forte di circa 10.000 uomini, schierato, agli ordini del generale
Umberto Utili, sulle Mainarde nel Parco Nazionale d’Abruzzo.
Noi .ribelli. veniamo trasferiti al deposito di
Chieti Scalo da dove, in giugno, veniamo inviati, in autocarro, proprio al XXXIII battaglione, che sta
operando sul fronte delle Marche
Non
sappiamo però dove precisamente esso si trovi, per cui lo cerchiamo per una
intera giornata peregrinando da un paesetto all’altro seguendo, tra le colline
marchigiane, le vaghe indicazioni degli abitanti locali, stupiti che non si
sappia dove andare.
Finalmente,
nella sera raggiungiamo il battaglione, dove giungiamo inaspettati!
Veniamo
smistati nelle varie compagnie: io, con
Egidio (Sartorio), Franco (Incerti) e Guido ( ? ), vengo preso in forza dalla 11ma compagnia di
certo capitano Dapas e assegnato al plotone di certo sottotenente
Toccagni, nella squadra di certo sergente
Tita, che si dimostrerà ben presto persona capace, concreta e di buon senso.
All’
undicesima compagnia ritrovo Leone (Orioli), reduce dal
fronte delle Mainarde.
E mi
trovo nuovamente in guerra: logoranti azioni di pattuglia, combattimenti brevi
e nervosi con elementi ritardatari dei reparti tedeschi in lenta e ordinata
ritirata: e notti insonni per i mortai e per le zanzare che penetrano e
punzecchiano, a nugoli, persino nelle orecchie, sdraiati sulla nuda terra,
sotto il cielo stellato, oppure nel caldo soffocante di qualche stalla, lercia di letame, tra il muggire
lamentoso e assordante dei buoi
affamati, assetati e feriti dalle schegge; molto spesso i bersaglieri, con
grande rischio, li conducono tra l’erba dei prati e li dissetano con l’acqua
dei pozzi, ove non siano stati inquinati dai tedeschi prima di ritirarsi.
Lenta
ma continua è comunque l’avanzata tra le colline marchigiane fiancheggiando
il II° Corpo Polacco, che opera sulla
fascia litoranea per la conquista di Ancona.
Oltre
Macerata occupiamo Tolentino, mentre i paracadutisti della Nembo avanzano verso
Filottrano, che conquistano il 9 luglio
dopo un asperrimo combattimento, casa
per casa.
Ci
schierano a est di Storaco per l’attacco alle posizioni tedesche poste sul
Musone, che attraversiamo dopo aspra lotta in corrispondenza di Castel Rosino,
costituendo una solida testa di ponte sulla sinistra del fiume, sotto un
violento tiro di repressione.
Santa
Maria Nuova, importantissimo nodo stradale e sbocco sull’Esino, viene attaccata
il 18 luglio e nella sera, bersaglieri,
alpini e fanti entrano nella cittadina
conquistata.
Il 4°
reggimento bersaglieri scende quindi verso
l’Esino e punta su Jesi,
incontrando accanita resistenza sul Monte Granale da parte di nuclei di
ritardatari e dei semoventi che sparano
a zero. Dopo nove ore di dura battaglia
Monte Granale è conquistato e i tedeschi si ritirano oltre Jesi, che viene occupata dagli alpini del
battaglione Piemonte
.
alla cui testa . scrive il capitano Moiso .
hanno marciato gli spiriti eletti dei bersaglieri caduti in questi giorni sul
Musone, sui costoni di Santa Maria Nuova
e sul Monte Granale. Avanti a
tutti, l’indimenticabile sergente
Giuseppe Riccardi, rientrato dalla Francia e volontario di guerra. Sempre tra i primi in Puglia, dove nasce
l’epopea del LI° bersaglieri; si
affollano alla mente i ricordi di episodi innumerevoli di prodigi di valore, di
slancio e di generosità di Riccardi
quando, sul Montelungo, si doveva
intervenire per frenare i suoi ardimenti e costringerlo a mettersi al
riparo, lui, che non permetteva ai suoi ragazzi di
esporsi; quando in quelle fredde notti
di dicembre, sotto il nevischio, passava a rincuorare le vedette con un sorso
del suo cognac e una parola di comprensione e di affetto; quando usciva da solo dalle nostre linee per
vedere . che cosa facevano quelli
. Quando, allo scioglimento del
LI° chiese e ottenne di ritornare a
combattere a Monte Marrone, sulle
Mainarde, a Chieti.
A
Monte Granale di Jesi, dopo una giornata di combattimenti, mentre in piedi, come sempre, a pochi metri dai tedeschi, quasi in atto di sfida, indicava ai mitraglieri avanzati l’obiettivo
da battere, veniva falciato da una
raffica immolando così la sua vita, interamente consacrata alla Patria
Alla
sua memoria è stata conferita la medaglia d’oro al valor militare.
Nella
sua giubba insanguinata viene rinvenuto il suo testamento
.
carissima mamma, quando queste ultime righe ti giungeranno, io sarò andato a
raggiungere papà. Non piangere mamma: possa il nostro sacrificio servire per la
salvezza della nostra Italia che tanto ho amato e che un giorno, ne sono certo,
ritroverà il suo posto al sole .
Addio,
indimenticabile sergente Riccardi, addio, caro Paperino: che così
tra noi allievi eri chiamato, per il soprannome che proprio io ti avevo
affibbiato, con goliardico affetto, in quel di Marostica.
Circa
il combattimento di Monte Granale, così scrive il capitano Moiso:
sul primo costone che da Santa Maria Nuova scende verso il Monte Granale, la
settima compagnia viene duramente impegnata, con
gravi perdite, tanto che sul fianco destro viene inserita la quinta compagnia
che raggiunge di slancio la cima del monte . ogni covone di grano, ogni
albero, nasconde una tana e da ogni parte i bersaglieri sono presi sotto il
fuoco incrociato di armi automatiche e di quello tambureggiante e preciso delle
artiglierie nemiche la quinta compagnia continua l’attacco frontale, mentre il resto del battaglione aggira le pendici
orientali di Monte Granale per arrivare alle spalle del nemico in
corrispondenza del ponte di Jesi, a meno
di un chilometro. Ma la resistenza
nemica si rivela improvvisa e furiosa,
coi semoventi che sparano a zero dalla periferia di Jesi. Non potendo resistere sul fondovalle, le
compagnie ripiegano sulle pendici nord-orientali del Granale, prolungando sulla destra l’occupazione della
cima, conquistata dalla quinta compagnia
dopo nove ore di combattimento .
Critico
nel giudicare la predetta azione è però il capitano Trifone d’Alò, comandante
della decima compagnia del XXXIII battaglione,
che, in un suo volumetto così
scrive
.
il combattimento da parte del XXIX
battaglione andò male, specie nella zona
di Montegranale, per cui lo stesso
comando di reggimento venne coinvolto direttamente, provocando reazioni non perfettamente consone
all’etica militare .
Fine
luglio: la compagnia punta
all’attraversamento del Misa.
Vengo
inviato in pattuglia, con alcuni bersaglieri, lungo il letto di un torrente in
secca per accertare la situazione nelle vicinanze di una casa a circa trecento
metri. Vi arrivo che ormai è quasi
buio e trovo Nicola (Ruicci), ex
del cinquantunesimo, mandato
da altra compagnia, appostato nell’orto con una mitragliatrice: mi sussurra di
tenere gli occhi bene aperti,
perchè i tedeschi
si rivelano vicinissimi.
Rientro
e riferisco il fatto.
Dopo
circa mezz’ora vengo nuovamente inviato alla detta casa: il capitano mi
raccomanda la massima cautela. Vi giungo
col buio fitto e non trovo più Nicola.
Entro
con la massima prudenza in casa e trovo la famiglia raccolta attorno a una
lucerna . se ne sono andati, ma ne è rimasto uno nella stalla . mi dice sottovoce il vecchio e noto una strana
luce nei suoi occhi, che spesso rivolge
verso la scala e il soffitto.
Nella
stalla, coperto col fieno e in canottiera, trovo, rannicchiato nella
greppia, un ubriaco fradicio che
biascica incomprensibili parole: non
riesce nemmeno a dirmi il suo nome e dove sia Nicola (Ruicci). Lo lascio a sbollire la sbornia e ritorno al
reparto per il dovuto rapporto.
Nella
notte però mi assale improvvisamente un dubbio:
ma quell’ubriaco, senza divisa e coperto di fieno nonostante il caldo
soffocante, chi era? Era un bersagliere
della squadra di Nicola, o era invece un
tedesco che si fingeva ubriaco? E perchè
il vecchio cercava di indicarmi con gli occhi la scala e il soffitto? C’era forse qualche altro al piano superiore?
Decido
di riferire il fatto a chi di dovere,
anche a costo di fare la figura del fesso, quand’ecco che un’altra pattuglia rientra
dopo essersi spinta ben oltre la casa.
Ritengo
pertanto inutile riferire il mio dubbio: confesso che ancor oggi, a distanza di
sessant’anni, quel dubbio ancora mi tormenta e sempre più mi convinco che
quello fosse veramente un tedesco, e che al piano superiore altri ce ne
fossero, pronti se del caso a intervenire,
come già in altre occasioni avvenuto.
Ai
primi di agosto avanziamo oltre il Misa, incalzando il nemico a Casa San
Vincenzo e a Croce del Termine e ci attestiamo in zona Casalta.
Voglio
qui ricordare l’amico Leone (Orioli) che, improvvisamente attaccato da un forte
pattuglione tedesco, che causa perdite tra i bersaglieri, reagisce con coraggiosa decisione sventando,
con la sola sua squadra, la minaccia incombente sul resto della compagnia. Ho
visto assegnare decorazioni al valore per azioni ben meno eroiche di quella
sostenuta da Leone e dai suoi pochi bersaglieri, che non hanno invece avuto
menzione alcuna.
Forse
chi avrebbe dovuto avanzare la proposta non lo ha fatto per non dover
giustificare l’assoluta inerzia della compagnia che, al riparo in una vicina
stalla, non è stata condotta in appoggio alla squadra duramente impegnata.
Solo
un sergente A.U.C. si è portato, di sua iniziativa, sul ciglione della valletta
in cui era in corso lo scontro a fuoco, cercando, tra le nutrite raffiche delle
traccianti, di portare aiuto all’amico Leone (Orioli).
Altro
attacco tedesco a Croce del Termine viene respinto con perdite: tra i nostri,
il sottotenente Luigi Salvini, stimato e amato ufficiale del XXIX.
Avanziamo
oltre il Cesano e a metà agosto cambiamo settore, spostandoci sulla sinistra, tra
Sassoferrato e Gubbio, mentre la prima
compagnia bersaglieri motociclisti occupa Urbino e, successivamente, Urbania e Peglio, giungendo in vista degli avancorpi della
linea Gotica.
Il 30
agosto arriva finalmente l’ordine di sospendere ogni attività operativa e di concentrarsi nella zona di Sassoferrato,
per trasferirci poi in quella che verrà indicata quale zona di riordino.
Scrive
ancora il capitano Moiso:
.
si chiudeva in tal modo il ciclo operativo del C.I.L. nel quale le posizioni
raggiunte rappresentavano l’ultima tappa di reparti che, miseramente dotati di
armi e mezzi, si erano faticosamente e valorosamente portati, in gara con le
forze alleate, dalle balze dell’Abruzzo
ai declivi delle Marche,
assolvendo con determinazione e coraggio i compiti loro affidati.
L’avanzata
del Corpo Italiano di Liberazione, attraverso gli Abruzzi e le Marche, fu uno
dei miracoli che soltanto l’italiano, quando ne sente la responsabilità storica
e morale, sa compiere.
Abbiamo
visto le condizioni di miseria in cui i nostri soldati si sono costantemente
trovati, di vestiario, di artiglieria, di munizioni,
di quadrupedi, di totale assenza
di carri armati, combattendo tra unità
dotate di ogni ben di dio, ricchissime di trasporti e non disposte a cederli.
Per
quanto riguarda armamento ed equipaggiamento, la campagna del 1944 fu
caratterizzata, soprattutto, da una estrema carenza di indumenti invernali e di
calzature degne di questo nome: eravamo
una gloriosa banda di cenciosi,
sporchi e variopinti,
che mai rimasero indietro rispetto alle altre ricche divisioni, e che sempre si tennero alla loro
altezza, trasportando, spessissimo in
spalla, i pezzi di artiglieria e i
mortai sulle dure giogaie appenniniche ! .
Il 24
settembre 1944 il Corpo Italiano di Liberazione venne sciolto, ma rimarrà
sempre nei cuori di coloro che ne hanno vissuto le indimenticabili vicende.
Vengono
costituiti i Gruppi di Combattimento:
. il
Legnano . il Friuli . il Cremona . il Folgore . e (in riserva)
. il Mantova .
Sono
in effetti delle vere divisioni, di circa diecimila uomini ciascuna, con
dotazione di armi automatiche, mitragliatori e mortai, artiglieria e pezzi
controcarro e contraerei.
Nella
stessa data anche il 4° reggimento bersaglieri viene sciolto e, con gli
elementi più giovani, e fisicamente più
dotati, quasi tutti del Nord – Italia, si
costituisce il battaglione bersaglieri Goito, affidato al comando
del maggiore Romolo Guercio, che si dimostrerà ben presto
ufficiale colto, energico, preparato e valoroso combattente, reduce
pluridecorato della campagna di Russia.
Con i vecchi
del cinquantunesimo, Nicola (Ruicci), Dario (Boschian), Gabriele (Luzi), Marco (Monteduro), Leone (Orioli), Sesto (Ciampiconi), Aldo (Capogna), Egidio (Sartorio), Rinaldo (Flaim) e
Alvaro (Mori), vengo assegnato
alla settima compagnia del Goito
(capitano Moiso, già del nostro LI°)
che, unitamente ai battaglioni alpini Piemonte e L’Aquila, una compagnia mortai e una
compagnia cannoni da 57/50, forma il
Reggimento speciale Legnano, al comando del colonnello degli alpini Galliano
Scarpa, inquadrato nell’omonimo Gruppo di Combattimento, affidato al generale Umberto Utili, reduce di Russia e già comandante del I°
Raggruppamento e del C.I.L.
Veniamo
dotati di uniformi inglesi che accettiamo molto mal volentieri, stante la
nostra volontà, dimostrata in modo energico, di mantenere il grigio–verde:
riusciamo comunque a conservare le nostre fiamme cremisi e il piumetto.
Anche
l’armamento è inglese e inglese diviene
la tattica, per cui necessita un
particolare addestramento.
Il
battaglione viene trasferito a Piedimonte d’Alife (Benevento), attendato in un
campo fangoso. I mesi di ottobre e novembre sono particolarmente piovosi, ma
l’addestramento, duro e spregiudicato, non conosce sosta: manovre a fuoco,
assalti all’arma bianca e lancio di bombe a mano a *squadre contrapposte*.
Alla
sera, sotto il grande tendone dello spaccio, intrattengo la compagnia
raccontando barzellette e facezie varie, con grande gradimento dei bersaglieri,
ufficiali compresi, il che mi incoraggia a mettere insieme un’orchestrina con
Piero (Vigone) al clarinetto, Guerrino (Plazzotta) alla tromba, io ai tamburi,
ed altri a strumenti vari, tra i quali un alpino al sassofono, ottenuti in modo rocambolesco.
Dicembre
1944 - il battaglione viene trasferito a Bracciano dove
continua, sempre più duro, l’addestramento.
Grande
successo e sincera commozione, col pensiero alle famiglie lontane.
Gennaio
1945 – Veniamo trasferiti
nella zona di Siena: la settima compagnia si sistema in una bellissima casa
padronale in quel di Quercegrossa, ove trovo ottimo il Chianti che giornalmente
mi offre una famiglia trevigiana, addetta alla coltivazione del vigneto.
Continuano
le manovre a fuoco e l’addestramento d’armi.
Alla
fine di febbraio il capitano Moiso mi invia con alcuni bersaglieri a
Piancaldoli, al confine tra Firenze e Bologna, quale furiere d’alloggiamento
per il battaglione: mi raggiunge il tenente Palazzo e assieme scegliamo un
ampio declivio sull’Idice, ove il 10 marzo il battaglione si accampa in tenda.
20
marzo 1945 – il
Legnano entra in linea nell’alta Val d’Idice, a cinque chilometri a nord del
Passo della Raticosa. Il fronte è tenuto dagli alpini del Piemonte e
dell’Aquila; il Goito è in secondo scaglione, vicino allo schieramento
dell’artiglieria americana. Azioni di pattuglia nostre e degli alpini: in una
di queste cade il maggiore De Cobelli, comandante dell’Aquila.
Giunge
l’ordine di raccogliere schegge, spolette e quant’altro possa essere idoneo a individuare il tipo e il calibro delle
artiglierie nemiche: e che cosa mai ti combina quel mattacchione del capitano
Moiso? Un grosso proiettile, di circa un metro di lunghezza, era caduto
inesploso in un prato. Moiso lo cattura con una fune a cappio, se lo fa
sistemare sulle ginocchia e, con una motocicletta guidata dal riluttante e preoccupatissimo
tenente Bocedi, tra lo spavento di quanti incontra per strada, compresi due
americani finiti con la jeep in un fosso, va a depositare il pillolone alla
sede del comando di reggimento di fianco alla scrivania dell’aiutante maggiore.
Vi
lascio immaginare gli urli e le imprecazioni, irripetibili, che ne sono
seguite.
Io
comunque, conoscendo l’uomo, non me ne meraviglio affatto.
19
aprile 1945 – il
Goito si sistema per l’attacco ormai prossimo, sulle posizioni di Casa Collina e
del Poggio e, scavalcando gli alpini su quota 363, assalta Poggio Scanno: la
quinta compagnia viene decimata e il plotone arditi arriva sulla quota con soli
cinque uomini. Cadono, tra gli altri, il sergente maggiore Fausti, già decorato
di medaglia d’argento al valor militare,
e l’eroico sergente Luigi Sbaiz,
reduce dal fronte russo: gravemente ferito, ordina a un suo bersagliere di
recidergli l’arto semitroncato e, agitando il piumetto, col quale chiede di
essere sepolto, ci rincuora e incita con
le sue ultime serene e nobili parole.
Meritatissima
la medaglia d’oro al valor militare. E scrive ancora il capitano Moiso:
.
Poggio Scanno è conquistato con un violento attacco, tra il grandinare dei proiettili e le salve
di artiglieria, con l’impeto e il
coraggio della tradizione. A questo
punto viene ordinato alla settima compagnia di scavalcare la quinta e i resti
del plotone arditi e di proseguire verso Casola Canina e la via Emilia .
Ma il
capitano D’Alò, con cruda franchezza, ricorda anche, e lamenta, che
per il non perfetto coordinamento dell’azione con l’artiglieria, a
Poggio Scanno, anche diverse salve del fuoco
amico si abbatterono sui bersaglieri.
Chi è
stato in guerra sa che, in guerra, questi dolorosi eventi possono accadere, e
accadono purtroppo.
Altra
cosa è disquisirne tra specialisti, competentissimi naturalmente,
comodamente seduti sulle poltrone di un salotto.
Proseguiamo.
20
aprile 1945 - puntiamo su Monte
Calvo.
Dopo
breve sosta, nuovo deciso attacco su Casa Canina, che occupiamo in serata,
sistemandoci in un prato per la notte. Sono stanchissimo, ma non riesco a
prendere sonno: sono troppo belle le
stelle e dolce mi è la speranza di poter tra poco rivedere i miei cari.
21
aprile 1945 -
ore 6,30: ultimo attacco alla Gotica.
Al termine di uno strettissimo calanco,
sul Monte Calvo, sono con Leone
(Orioli), Mario (Capella), Egidio (Sartorio) ed altri, tra i quali il nostro cappellano Padre
Pomes; all’improvviso si alzano due
soldati tedeschi che Leone subito fa prigionieri.
Il
capitanp Moiso, chissà perchè, me li affida in custodia.
La
Gotica è ormai frantumata e ora
è una gioiosa
corsa verso Bologna,
ove entriamo da Porta Maggiore poco prima delle nove.
La
città sembra impazzita, la gente non crede ai propri occhi: sono italiani, sono i bersaglieri, e tutti a
soffocarci di abbracci festosi.
Il
maggiore Guercio ordina alla fanfara di dar fiato alle trombe e in piazza Re
Enzo squillano le note delle più trascinanti canzone bersaglieresche, in un
repertorio terminato, tra le ovazioni, con il
flic-floc a passo
di corsa.
Ma chi
mai ritroviamo in Bologna? Nientemeno
che il nostro indimenticato . papà Enea. che si fa largo tra la calca e viene ad
abbracciarci, nella sua Bologna, e piange
e ride e riesce
a dirci solo . bravi .
bravi .
Sono
profondamente commosso e mi sento improvvisamente ripagato di tutti i
sacrifici, le attese, le delusioni e, perchè no,
le paure sopportate in silenziosa speranza.
Sostiamo
sotto i volti: io ho sempre con me i due
prigionieri che, in verità, mi sono di
fastidioso ingombro. Uno di loro è
giovanissimo, molto alto, con due occhi freddi e il volto cupo: non mi piace.
L’altro è molto anziano, biondiccio, mingherlino e fa di tutto per entrare
nelle mie simpatie. Parla in modo comprensibile l’italiano e mi racconta della
moglie e dei figli, lontani in Germania – è stanco della sua lunghissima vita
militare e mi precisa che, come lui,
molti sono i soldati tedeschi stufi e contrari alla guerra. Mi spiega di
trovarsi al fronte da poco tempo,
proveniente da un reparto di ausiliari aggregati a una batteria
antiaerea a Verona.
Mi
balza il cuore in gola e chiedo ansiosamente maggiori notizie com’è la città in che quartiere era . ha
conosciuto qualcuno ?
Ed
ecco l’incredibile !
Mi
precisa che Verona è semidistrutta dai bombardamenti e che il suo reparto si
trovava in periferia, nella zona della
piscina.
Credo
di sognare, mi sento girare la testa è proprio lì che abita la mia famiglia
cinque case in tutto
tra le quali la mia e una piccola osteria
Mi
conferma il tutto, precisandomi che, nelle ore libere, si recava in quell’osteria per assistere a
lunghe partite di carte ma allora avrai visto mio padre incalzo
io è un uomo mutilato di una gamba
Il
tedesco si sbianca in viso, mi stringe forte le mani e mi fa cenno di sì, fornendomi
inconfondibili particolari e precisandomi che da qualche mese la mia famiglia
si è trasferita altrove, perchè la casa
è stata bombardata.
Sono
frastornato, sbalordito, preoccupato, commosso.
Leone
(Orioli), Mario (Capella) e altri,
presenti alla scena,
mi abbracciano con
fraterno affetto e la notizia si propaga
in un baleno tra il reparto.
Il
tedesco mi chiede di poter rimanere con noi, ma è purtroppo impossibile. Il
giorno dopo infatti viene avviato al vicino
campo di raccolta, dove, nel pomeriggio, secondo promessa, lo vado a trovare.
E’
appoggiato al cancello e mi fa ampi cenni di avvicinarmi: è triste e mi fa pena. Mi prega di accettare un piccolo involucro: è
un bellissimo seghetto a serramanico, che ancora oggi conservo tra i miei ricordi più cari. Gli offro
un po’ dei miei pochi soldi e, col
groppo in gola, ci salutiamo per sempre !
.
e quello sarebbe stato un mio nemico .
Racconto
questo fatto incredibile - che mai ho
raccontato ad alcuno - perchè so che
sono ancora vivi cari amici che ne possono fare testimonianza.
Il 24
aprile raggiungo Verona con un automezzo,
che prosegue con altri bersaglieri della provincia: appuntamento per domattina.
Trovo
la casa distrutta e vengo a sapere che i miei sono sfollati a Illasi, a una
ventina di chilometri da Verona. Mi
prestano una bicicletta e, pedalando come un matto, arrivo a Illasi verso
sera, incontro per prima mia mamma, che sviene per l’emozione: indimenticabile è
poi l’incontro con mio padre, che trovo sciupato e invecchiato, e con mia sorella,
che si è
fatta una signorinetta. Non c’è più la mia cara nonna.
La
mattina dopo, 25 aprile, ripassa l’autocarro e ci avviamo verso Bologna: strada facendo veniamo a sapere che la *guerra è finita*: ci guardiamo in faccia muti, senza una parola
e mi sembra che un grosso peso mi si sollevi dall’anima.
Entriamo
poi a Brescia e successivamente in Bergamo.
Raggiungiamo
Bellagio, sul lago di Como, da dove, con un grosso barcone, veniamo trasbordati
sulla sponda opposta, a Bellano, sede del nostro meritatissimo e sospirato
periodo di riposo, mentre alcuni reparti
vengono inviati al confine con
Riprende
piano piano la normalità della vita: il
lago è bellissimo, le nuotate mi ristorano, delizioso è il dolce far niente, le
ragazze sono stupende e le notti . intense.
Vengo
assegnato all’Autodrappello, in aiuto al capitano Luigi Ghersini, da Pola:
irruente, vulcanico e simpaticissimo, che subito mi prende in cordiale
benvolere.
Ottobre
1945: ci
trasferiamo alla caserma di Corso Italia, in Milano, dove riprendono le esercitazioni, in funzione
dell’ordine pubblico piuttosto compromesso e il *Goito* diventa il XVIII
battaglione, per il ricostituendo terzo reggimento bersaglieri.
Viene
a trovarmi Rosolo, che si è scarpinata la guerra con un altro Gruppo di Combattimento,
da ufficiale: lo rivedo con gioia.
Aprile
1946: il battaglione accorre per sedare la rivolta
scoppiata nel carcere di San Vittore, guidata dal bandito Barbieri. Sono state
prese in ostaggio le guardie carcerarie, alcune ferite, e i rivoltosi si sono impadroniti dell’armeria.
La
situazione è critica: verso sera,
assieme ai carabinieri, il nostro plotone arditi riesce a sedare la rivolta dopo aver sfondato, con
un controcarro, il portone che immette
nel braccio in cui i rivoltosi si sono rifugiati in armi.
E
il congedo ?
Non se
ne parla! In maggio ci sarà il
referendum monarchia o repubblica e il clima politico-sociale è
arroventato. Si intensifica il servizio
di pattuglia e di ronda notturna.
2
maggio: tira una brutta aria di sommossa e
il battaglione si dispone a difesa della caserma: con il mio reparto mi sistemo
con una mitragliatrice sul tetto dell’autorimessa. Mi sembra di vivere in un
mondo di pazzi.
Agosto
1946: la guerra è
terminata da circa un anno e mezzo e finalmente arriva il congedo.
Ritorno
in famiglia in una situazione di miseria,
nella quale inizia la mia vita di disoccupato in questua di un impiego. I
miei amici, esentati dal servizio militare, o
*sbandati dell’8 settembre*,
hanno tutti un lavoro, qualcuno addirittura esercita attività poco lecite,
ma sicuramente lucrose.
Mi
sento amareggiato e deluso e penso che la guerra è la più tremenda e inutile
tragedia dell’umanità. Perchè viene
fatta? Perchè qualche dittatore o
qualche governo impazzito la dichiara in nome della Patria e della democrazia e, non appena è
terminata, in uno strascico di lutti e di rovine, ecco i politici a stringere alleanze, in nome del Paese e della democrazia, con gli ex nemici, contro gli ex alleati.
E
allora, la guerra, se la facciano i politici, i militari di carriera e i
volontari .io no.
Ma non
è finita.
Nel
febbraio del 1955 vengo sorprendentemente richiamato per un corso di
aggiornamento. Mi presento a Milano al terzo reggimento bersaglieri comandato
dal colonnello Guercio, già comandante
del *Goito*: ritrovo il capitano Moiso, Bocedi, anche lui capitano e altri del
vecchio LI°.
Vengo
inviato al campo invernale a Onore,
nelle Alpi Orobiche, sotto la
tenda, Sopravvivo al gelo e ai disagi e vengo ritenuto idoneo per la *Forza di pronto impiego*.
Ma che
cos’è uno scherzo? Nemmeno per sogno,
perchè nel febbraio del 1961 vengo nuovamente richiamato.
E’
troppo! Ho 39 anni, un lavoro, una moglie e una figlia e riesco a farmi
esentare.
e tuttora vivo la mia esenzione !
Giovanni Recchi
Nel caso in cui il testo derivi sempicemente dall'esposizione, con o senza traduzione, di documenti/memorie al solo fine di una migliore e più completa fruizione, la definizione Autore si leggerà A cura di.