Nota postuma dell'autore
L'intervista con l'ingegner Mieczyslaw Rasiej è stata raccolta durante un colloquio alla fine di luglio 2007. Il Presidente della comunità polacca residente in Italia era già malato, era stanco e un pò affaticato, ma contento di affidarci i suoi ricordi. Purtroppo è mancato il 16 ottobre 2007.
DUE PAROLE CON L'INGEGNER MIECZYSLAW RASIEJ, REDUCE DI MONTECASSINO
“Certo che Montecassino per me rappresenta molto – afferma subito l’ingegner Rasiej, oggi rispettato e stimato
Presidente della Comunità polacca di Torino - così, come penso, per tutti quei Polacchi che hanno partecipato alla battaglia.
Il mio ruolo fu un granello, ma anch’io ci sono stato e ogni volta che torno è come se rivedessi i volti dei miei commilitoni: quelli che vi hanno
perso la vita e quelli che ci hanno lasciati dopo.
Allora avevo quasi 20 anni ed ero in forza al 1° reggimento di artiglieria da campagna. Ero un artigliere, ma avevo seguito un corso nelle
trasmissioni. Mi avevano affidato un plotone ed il nostro compito era quello di mantenere i collegamenti telefonici e radio tra la postazione
delle batterie, piazzate nelle vicinanze delle caserme e del fiume Rapido, con il nostro avamposto situato nella “grande conca” circa 2 km dalle
batterie e poi con il nostro osservatorio che si trovava sulle pendici della quota 593, circa 50 metri a destra della “Casa del Dottore”.
All’osservatorio, nelle ore di luce non ci si poteva muovere a causa dell’artiglieria tedesca che sparava su qualsiasi cosa si mostrasse, ma di
notte dovevamo provvedere al mantenimento della linea telefonica, che spesso veniva tranciata dalle cannonate fin da quando siamo saliti in linea.
Abbiamo fatto decine di volte il percorso, sempre di notte, fra l’osservatorio e il nostro avamposto lungo un sentiero...”
La “Cavendish Road?“ – chiedo.
“No, la “strada dei genieri” come noi la chiamavamo, era molto più a destra, scendendo. Noi percorrevamo un sentiero che per
buona parte era in vista dei tedeschi e dove neanche quelli delle salmerie si avventuravano. Le colonne dei muli guidati da conducenti ciprioti,
arrivavano solo fino alla “grande conca” dove scaricavano tutti i rifornimenti destinati ai vari reparti, soprattutto alla fanteria.”
Senta ingegnere, ma com’è che è finito su quella montagna brulla a prendersi le cannonate tedesche?
“E’ una storia lunga...”
Ma siamo qui proprio per questo! E poi la sua storia è un po’ quella di decine di migliaia di suoi connazionali che hanno combattuto in Italia...
“Già, dunque... Devo cominciare con il dire che la mia famiglia nel 1939 era composta da mio padre, mia madre e tre fratelli. Vivevamo da pochi
giorni a Brody, una cittadina a nord est di Leopoli, abitata da molti ebrei, ucraini e polacchi. Mio padre era comandante del distretto di polizia
e usufruivamo di un grande alloggio presso il Comando.
Ricordo quel 1 settembre 1939, un venerdì, quando la radio trasmise la notizia dell’invasione nazista. Le scuole, che proprio quel giorno dovevano
riaprire, rimasero chiuse. Io, con mio fratello minore, avendo militato negli scout, ci siamo messi con molti altri ragazzi a disposizione del
Comando militare, come porta ordini. Mio fratello maggiore non era con noi, era rimasto a Sambor per terminare gli studi. Nei giorni seguenti la
città si riempì di profughi che erano fuggiti dai territori invasi dai tedeschi.”
Ma poi arrivarono i Russi...
“Si, qualche giorno dopo il 17 settembre, non ricordo esattamente. Mio padre, che disponeva di notevoli forze di polizia, ricevette da Leopoli,
già occupata dall’Armata rossa, una raccomandazione di prevenire qualsiasi disordine dovesse scoppiare in città. All’arrivo delle truppe
sovietiche il loro comandante ringraziò mio padre, lasciandolo tornare a casa di conoscenti dove ci eravamo sistemati alla meno peggio. Mio padre,
dopo qualche giorno, fu chiamato dalla NKVD per un interrogatorio. Poi seguì un secondo interrogatorio e dopo il terzo, non tornò più a casa: fu
arrestato.
Riuscimmo ancora ad avere sue notizie dal carcere della nostra città; anzi prima di Natale sono riuscito a vederlo portandogli un pacchetto di
biancheria, poi fu trasferito in un’altra prigione e di lui non abbiamo saputo più nulla.”
E foste arrestati a vostra volta?
“Erano le 2 di notte del 13 aprile 1940. Davanti a casa si fermò un camion con i miliziani del N.K.V.D., la polizia politica sovietica. Ci diedero
poco tempo per raccogliere la nostra roba e ci portarono alla stazione, dove ci attendeva un lungo treno di carri merci spinto da due locomotive,
una davanti ed una dietro. Lì trovammo altre migliaia di infelici, come noi. Sul treno realizzammo che erano soprattutto le famiglie delle persone
precedentemente arrestate, professori, magistrati, funzionari dello stato, militari, liberi professionisti e anche commercianti, ebrei e
polacchi. Insomma una pulizia di classe!”
E suo padre?
“Come le ho detto non ne sapemmo più nulla. Ma poi le dirò...
Scoprimmo che eravamo arrivati nel Kazakistan settentrionale, nel distretto di Petropavlosk dove ci hanno portati a Mironovka un kolkoz, dove noi
avremmo dovuto lavorare, altrimenti non avremmo avuto di che vivere. Mio fratello ed io siamo stati “assunti” come manovali, mia madre si
arrangiava con lavori saltuari presso i kolkoziani. C’era la proibizione di frequentare le scuole e comunque non ne avremmo avuto il tempo.”
E fino a quando andò avanti?
“Avvertimmo subito che qualcosa era cambiato dopo il 22 giugno 1941, quando la Germania invase l’Unione Sovietica. Non che il nostro tenore di
vita migliorasse di molto, ma la gente non ci trattò più come nemici. Eravamo alla fine del 1941, quando cominciò a girare la voce che in Unione
Sovietica si stava formando un esercito polacco. La voce si fece più frequente, fino a quando riuscimmo ad avere notizie più precise. Io decisi di
partire per arruolarmi ed aspettavo solo l’occasione. Finalmente nel febbraio 1942, arrivò la notizia che sarebbe passato un treno per
raccoglieva i volontari e così dopo una decina di giorni di viaggio mi trovai a Lugovaia nel sud del Kazakistan, dove c’era una base polacca.
Avevamo poco da mangiare, non c’erano neanche armi per addestrarci, i nostri stracci li sostituimmo con le divise inglesi. Il nostro morale,
nonostante le pessime condizioni, era alto; ci sentivamo veramente liberi. Io sono stato fortunato, ho fatto parte del primo scaglione che arrivò
in Persia.”
E sua madre e suo fratello?
“Riuscimmo a rimanere in contatto epistolare per un certo periodo, poi non sapemmo più niente gli uni degli altri. Nel frattempo io ero stato
assegnato al 1° reggimento d’artiglieria che si era formato in Palestina, dove passai in addestramento tutta l’estate del 1942. Quando a settembre
tornammo in Iraq, proprio non lontano dalle città di Mosul e Kirkuk, trovai un conoscente, un commilitone, che mi disse che mia madre era anche
lei in Iraq, in un reparto di ausiliarie.
E’ così ci siamo ritrovati e fu una grande gioia.
Ella mi raccontò che dopo la mia partenza dal kolkoz, aveva saputo che i russi avrebbero lasciato partire anche dei civili soprattutto quelli
imparentati con i militari, così aveva preso la decisione di raggiungere l’Uzbekistan, giusto in tempo per far parte dell’ultimo scaglione di
Polacchi ai quali fu consentito di lasciare l’Unione Sovietica. Quando ci ritrovammo lei era già in servizio nel nuovo esercito, in un reparto
presso il comando del generale Anders. Mio fratello, vista la sua età, era stato arruolato in una unità para-militare, dove poteva riprendere
anche gli studi scolastici, in quel momento era già in Palestina.“
Ma questo strano esercito, un po’ di soldati e un po’ di civili in uniforme...
“Lo so che sembra difficile da immaginare per chi non ha vissuto, come noi, quel periodo. E’ vero, noi eravamo dei soldati, certamente si era
organizzata una struttura militare, ma con noi avevano lasciato l’Unione Sovietica, e per questo saremo sempre grati al generale Anders, anche
decine di migliaia di civili soprattutto donne e bambini. Fu grazie alla sua iniziativa e con l’aiuto delle autorità inglesi che in seno al 2°
Corpo si crearono anche strutture in grado di sostenere le necessità di tutti quei civili.
Molte donne, come mia madre, furono arruolate nei comandi, nei reparti logistici, nei trasporti, nelle trasmissioni, nelle strutture ospedaliere.
Per i ragazzi furono allestite scuole. Molti civili furono poi sistemati nelle colonie inglesi in Africa.; i più giovani, come mio fratello,
furono assegnati a quei reparti para-militari, dove si studiava, oltre che imparare la disciplina militare.
Chi in Polonia aveva insegnato in qualche liceo o all’università, e ce n’erano tanti, si ritrovò in uniforme ad insegnare nelle scuole a tutti i
livelli...
Io stesso che avevo dovuto abbandonare il ginnasio, fui inviato, diciamo così per ordine militare, a seguire un corso, che si teneva a Barbara,
in Palestina, dove conseguii la licenza ginnasiale e dove ritrovai mio fratello.”
Lei quando arrivò in Italia?
“Fu nel febbraio 1944, in ritardo rispetto alla mia unità, che faceva parte della 3ª divisione dei Carpazi, a causa degli studi. Raggiunsi il mio
reggimento nell’alta Valle del Sangro, dove c’era ancora la neve, faceva freddo, sembrava di essere in Polonia. Quando poi siamo andati a
Cassino, i nostri reparti furono rimpiazzati da quelli del Corpo motorizzato italiano.
Ricordo molto bene quei momenti del cambio delle consegne, perché gli artiglieri italiani che subentravano, ci offrirono del vino al quale
non eravamo per nulla abituati, tanto da rimanere alquanto brilli...”
Quindi fra voi Polacchi c’era un vivo spirito di corpo, oltre che per il comune passato nei campi sovietici, anche per aver vissuto fin
dall’inizio la creazione delle unità di cui facevate parte.
“Certamente. Eravamo molto uniti, anche con i nostri ufficiali, perché tutti ci portavamo addosso l’esperienza appena vissuta. Qualche volta,
ma in tono bonario, poteva prevalere quello spirito di corpo che esiste in ogni esercito. Per esempio, quelli della divisione “Kresowa” avevano
come simbolo un bisonte, animale tipico della Polonia nord-orientale. Ebbene, quando vedevamo passare una loro colonna, ci chinavamo a raccogliere
una manciata d’erba e sporgevamo il braccio verso di loro. “Tè, tè mangia”, Si arrabbiavano da matti e noi ridevamo… ma tutto finiva lì.”
E intanto sua madre e suo fratello?
“Mia madre era arrivata in Italia nella primavera del 1944. Era assegnata, già col grado di caporale, al settore logistico dell’ospedale militare
polacco che era dislocato a Casamassima nelle Puglie. Mio fratello quando terminò gli studi ginnasiali nell’estate dello stesso anno, raggiunse
la Gran Bretagna, dove entrò nell’Aviazione polacca.”
Siamo tornati a Montecassino.
“Eh si, ma le ho già raccontato...”
Ma quando ci fu la battaglia?
“Spero di non deluderla. Ricordo benissimo il bombardamento della notte tra l’11 e il 12 maggio. La notte rischiarata a giorno; il tuono continuo
delle granate che esplodevano davanti a noi.
Poi la mia memoria si offusca.
Devo aver passato giorni e notti, dall’11 al 18 maggio, su e giù per quella montagna a riparare le linee telefoniche, continuamente interrotte, a
caricare gli accumulatori per gli apparecchi radio ricetrasmittenti e ogni tanto, a turno di 24 ore, assistendo l’ufficiale osservatore nella
nostra postazione vicino alla “Casa del Dottore”; tutto questo senza più badare ai colpi dell’artiglieria e dei mortai tedeschi. Non ricordo
nemmeno se abbiamo dormito, quando e dove; nemmeno se abbiamo mangiato. C’erano scatolette un po’ dappertutto, abbandonate da chi ci aveva
preceduti: americani, inglesi e indiani.
Ricordo però un’altra cosa, la sete, quella si: era un tormento.
Vicino alla “Casa del Dottore” c’era un pozzo, ma era sotto il tiro dei cecchini tedeschi. Quando di notte passavamo vicino, ci fermavamo presso
il pozzo, anche se era proibito, per tirare su un secchio di acqua fresca.
Certo c’erano i morti, i feriti, raccolti alla “Casa del Dottore”, a due passi da noi, ma la tensione era tale che nulla avrebbe potuto
distoglierci da quello che dovevamo fare; e lo dovevamo fare sempre in fretta e non c’era tempo per pensare.
Noi abbiamo avuto poche perdite e ci considerammo dei privilegiati.
Ricordo con una certa malinconia il 18 maggio quando l’abbazia è stata presa, perché ci rendevamo conto quanto questa conquista era costata in
morti e feriti.
Poi ci fu il lavoro di ricupero di tutto il nostro materiale e il ritorno alle nostre batterie il cui compito non era finito. Si dovevano
appoggiare i nostri reparti che erano alle prese con la fortezza di Piedimonte e solo il 25 maggio è calato il silenzio sulle montagne. Ma ancora
due giorni prima le nostre postazioni erano state prese di mira dall’artiglieria tedesca che ha scaricato alcune decine di granate, senza tuttavia
arrecarci molti danni; miracolosamente ci fu solo un ferito.”
Senta ingegnere, ma oggi Montecassino con tutti quei caduti, come viene ricordato in Polonia?
“Il regime che si instaurò dopo la guerra cercò in tutti i modi di cancellare il ricordo del 2° Corpo in Italia.
Pensi che quando lo scrittore Melchior Wankowicz, rientrato in Patria, volle pubblicare la sua celebre “Battaglia di Montecassino” gli fu imposto
di cancellare il nome del generale Anders!
Ma non ci fu nulla da fare.
Montecassino e il generale Anders erano entrati a far parte della storia polacca nel momento stesso in cui sull’Abbazia sventolò la bandiera
bianca e rossa.
Oggi i pellegrinaggi dalla Polonia non si contano più.”
E in Italia?
“Guardi, ci sono stati molti anni nei quali non si è più parlato di noi, specialmente in quelle regioni, dove per motivi politici di quei Polacchi
non si doveva proprio parlare.
Oggi è tutto diverso.
A parte Montecassino, dove i reduci iniziarono a rincontrarsi prima ogni cinque anni e poi ogni anno, forse è cominciato da Torino, nel 1995,
con quella mostra sul Corpo polacco e la liberazione dell’Italia.”
Un momento, per favore.
Devo spiegare ai lettori.
Nel 1995, la presidenza del Museo Nazionale del Risorgimento di Torino volle ricordare il cinquantesimo anniversario della Liberazione, cercando
però di rompere la monotonia delle celebrazioni che si sarebbero svolte nella Città. Grazie all’Associazione Amici, della quale allora ero il
presidente, fu proposto di dedicare una mostra ai Polacchi che avevano combattuto in Italia, tenuto conto delle relazioni fra i due Paesi nel
corso dell’Ottocento e durante la I guerra mondiale. Questa mostra, densa di pathos, ebbe un grande successo, contribuì a rinnovare il ricordo
del 2° Corpo e la Comunità polacca non si tirò certamente indietro.
Ecco, mi perdoni...
“Ma oggi – riprende l’ingegner Rasiej - io giro in continuazione per il Paese.
Ci invitano in molte città, cittadine e paesi dove siamo ricordati con simpatia.
Non posso dimenticare quanto ha fatto il dottor Giuseppe Campana, di Ancona, dove la data del 18 luglio, giorno in cui il 2° Corpo entrò nella
città, viene ormai ricordata ogni anno.
La croce di Acquafondata, rimessa all’onor del mondo per l’insistenza di un suo cittadino, Romano Neri, al quale siamo molto riconoscenti.
Imola, Senigallia e persino Bologna.
Loreto.
Il monumento a Piedimonte San Germano, Matera, città che si è ricordata della presenza della nostra scuola d’artiglieria, dove io stesso ho
ricevuto il brevetto di cadetto ufficiale nell’autunno del 1944.
I musei e i monumenti a Cassino.
Ora abbiamo notizia di un’altra iniziativa a Casamassima, dove un giovane del luogo, Gianluca Vernole, sta raccogliendo una vasta documentazione
sull’ospedale militare e sulle basi polacche che sorsero nelle Puglie, dove proprio mia madre era di servizio.
A Torino, nel prossimo autunno, la Città ci dedicherà una stele.”
Ingegnere, e suo padre?
“E’ una storia triste, finita male. Come le ho detto, dal momento in cui fummo arrestati dalla polizia sovietica non ne sapemmo più nulla. Nel
1950, incontrai casualmente a Loreto un polacco che mi disse di averlo incontrato nel 1940 in un carcere vicino a Kharkov. Ci illudemmo di poterlo
rivedere.
Solo dopo la caduta del muro di Berlino, quando il presidente Gorbacev ammise ufficialmente l’eccidio di Katyn, la procura militare polacca poté
avviare delle ricerche in Russia ed in Ucraina. Saltarono fuori molti documenti, che non solo testificavano l’assassinio degli ufficiali polacchi
a Katyn, ma fecero scoprire molti altri casi e molte fosse comuni. Tra i tanti documenti apparve una lista di nomi di ufficiali polacchi fucilati
dall’N.K.V.D. nella primavera del 1940, nei dintorni di Kharkov. In quella lista c’è il nome di mio padre.”
Un’ultima cosa. Perché Torino?
“Grazie. Dopo tanta tristezza, voglio chiudere con un bel ricordo della mia vita.
Nel 1946, il generale Anders volle che un nutrito numero di militari del suo 2° Corpo entrasse nelle università italiane. Io chiesi di essere
iscritto ad una facoltà di ingegneria e scelsi Trieste, perché mi sarebbe piaciuto occuparmi di navi. Mi ritrovai a Torino, “manu militari”,
con altri 300 commilitoni!
Non mi chieda come mai.
Fummo iscritti al Politecnico, che riconobbe i nostri titoli scolastico-militari, ma subito dopo avvenne il patatrac!
Lo Stato italiano non li prendeva per buoni.
Dovemmo ripetere l’esame di maturità al Liceo Gioberti e nella commissione c’era una giovane professoressa di filosofia, che dopo qualche mese
divenne mia moglie...
Ecco perché Torino, che ormai è la mia città.”
Nel caso in cui il testo derivi sempicemente dall'esposizione, con o senza traduzione, di documenti/memorie al solo fine di una migliore e più completa fruizione, la definizione Autore si leggerà A cura di.