RAVIN DE L'INFERNO O INFERNO TRACK.
LA VIA DEI RIFORNIMENTI ALLEATI PER MONTECASSINO, DA ACQUAFONDATA A PORTELLA.
Le battaglie per la conquista di Cassino si sono protratte per più mesi, occupando un posto rilevante nella storia della II guerra mondiale, ma
una delle caratteristiche più curiose e meno note della lunga permanenza delle truppe alleate sulla Linea Gustav è stata senz’altro quella dell’uso
corrente di un gran numero di toponimi, con i quali furono denominate strade o punti di interesse militare e logistico.
Alcuni di questi toponimi sono durati nel tempo, ancora utilizzati nella bibliografia più recente, come Cavendish Road o
Harrogate, di origine britannica, Snake’s Head, di origine americana, o Widmo, la mitica ed insanguinata
"Cresta del fantasma" a nord di Montecassino, per i Polacchi.
Alcuni altri sono stati pressoché dimenticati e se ne trova traccia soltanto su alcuni documenti, come ad esempio The Pimple, il
foruncolo, una quota senza nome al di là del Rapido, vicino a Caira, conquistata dagli Americani dopo un accanito combattimento nel gennaio 1944,
oppure la Parallel Road, che altro non era se non l’attuale via Sferracavalli di Cassino, l’antica strada per Sant’Elia Fiumerapido.
Ma tra i tanti toponimi, ce n’è uno ripreso più che dalle carte topografiche italiane dalla tradizione locale, che evoca secolari e reverenziali
timori danteschi: l’Inferno, Ravin de l’Inferno per i Francesi, Inferno Track per Inglesi, Indiani e Neozelandesi, Droga Inferno per i
Polacchi.
Questa profonda spaccatura della montagna che caratterizza la parte finale di una discesa lunga circa sei chilometri, che inizia nelle vicinanze
di Acquafondata, sulla strada per Viticuso, fino a lambire la località di Portella, nella Valle del Rapido, fu per mesi un luogo di rifugio e di
transito, ma anche di tragedia, per migliaia di soldati alleati delle più diverse nazionalità.
Il 9 gennaio 1944, alle 9 del mattino, la 3e Division d’Infanterie Algérienne, agli ordini del generale de Monsabert, aveva assunto
ufficialmente il controllo del settore detto di Venafro, sostituendo la 45th Infantry Division americana.
Il giorno successivo, il 10 gennaio, il generale Clark fissò le missioni per la prossima fase offensiva affidate al Corps Expéditionnaire
Français, al II Army Corps americano ed al X British Army Corps, da Nord a Sud.
Il generale Juin, comandante del C.E.F., emanò gli ordini conseguenti alle due divisioni di fanteria alle sue dipendenze: la 2e Division
d’Infanterie Marocaine doveva catturare la cima della Costa San Pietro, puntando verso San Biagio Saracinisco, mentre la 3e D.I.A. doveva
occupare la Monna Casale e Monte Passero, con il 7e Régiment d’Infanterie Algérienne, e la Monna Acquafondata, con il 3e R.T.A. per poi
spingersi decisamente verso Vallerotonda e Sant’Elia Fiumerapido, con l’obbiettivo di stabilire una testa di ponte sul Rapido a Nord-Ovest del
paese di Sant’Elia.
Alla sinistra del 3e R.T.A., doveva operare un raggruppamento agli ordini del colonnello Bonjour, composto dal Régiment de Spahis Algériens
de Reconnaissance e da un battaglione del 4e Régiment de Tirailleurs Tunisiens, comandato dal colonnello Roux, che stava raggiungendo il
fronte. Compito di questo raggruppamento era quello di garantire il contatto con il II Army Corps americano e di avanzare verso il Monte Pile e
il Monte Pagano, che vennero occupati il 13. [1]
Era il 14 gennaio 1944, quando il maggiore Bacqué, comandante del I battaglione del 4e R.T.T. ricevette l’ordine di spingersi decisamente verso
Ovest, per raggiungere la Valle del Rapido.
Stanchi per la lunga e difficile marcia sostenuta, i Tirailleurs giunsero verso la fine del pomeriggio in località Campo Magliaro, verso la
piccola borgata di Cerreto, senza trovare resistenza nemica.
Una sezione della 1a compagnia, agli ordini del tenente Ali Semichi si spinse in avanti, verso la Valle dell’Inferno, ma fu ben presto investita
dal fuoco di mitragliatrici proveniente dalla cresta della montagna. I tedeschi si svelarono improvvisamente prendendo d’infilata i Tirailleurs
tunisini, che si trovarono immediatamente in difficoltà e cercarono di retrocedere; nonostante un invito ad arrendersi, riuscirono comunque a
disimpegnarsi, catturando anche un prigioniero. [2]
Durante la notte il capitano Monge, comandante della 3a compagnia, accompagnato dal solo sergente maggiore Peloux, riuscì ad infiltrarsi,
simulando un attacco ed i Tedeschi reagirono con il fuoco delle mitragliatrici, ma rivelarono le loro posizioni.
Il colonnello Roux, comandante del reggimento, decise allora di conquistare a viva forza la quota 554, identificata come perno della locale difesa
tedesca. La 1a compagnia del capitano Lartigau avrebbe attaccato da Nord e la 3a compagnia da Sud.
Durante la giornata del 15 gennaio ne scaturì un furioso combattimento, che si concluse solo dopo una lotta a corpo a corpo, nella quale i Tedeschi
ebbero la peggio, lasciando sul terreno diversi morti ed una ventina di prigionieri.
Nonostante la perdita di quella posizione, i Tedeschi continuarono a bersagliare i Tirailleurs a colpi di mortaio, ma nella notte fra il 15 ed
il 16 abbandonarono il campo, ritirandosi al di là del Rapido e consentendo ai Francesi di scendere fino a Portella. [3]
I primi a calarsi fino alla pianura per quello che sarà conosciuto come il Ravin de l’Inferno furono gli Spahis del 2° squadrone, i quali
“a piedi, come tutti, scesero dai ripidi pendii, carichi come muli e con la pancia vuota”.
Il tenente Jean Lassale raccontò quel primo impatto:
"Siamo in una vera e propria trappola ed è impossibile uscirne. Un silenzio totale, ostile, ci circonda. Bisogna lasciare le armi pesanti, saltare quattro metri, aiutarsi vicendevolmente a calare le mitragliatrici e i mortai. E poi, ricominciare, cinquanta metri più in basso… Ad ogni passo, si affonda più profondamente nella faglia del torrente, in un paesaggio dantesco di rocce frantumate e minacciose, di frane rossastre e tormentate, simili a piaghe sanguinolente nel cuore di questi aridi pendii..." [4]
In ogni caso questi Spahis furono i primi a scoprire il passaggio ed a stabilirne una traccia.
Una volta raggiunti gli obbiettivi nella Valle del Rapido, per i comandi francesi sorse il grande problema di come far giungere i rifornimenti ai
reparti di prima linea.
Tutto il sistema logistico del C.E.F. si basava infatti sulle due strade che da Venafro raggiungono Casalcassinese ed Acquafondata da una parte, e
Cerasuolo e Cardito, in direzione di Atina, dall’altra.
In quel mese di gennaio la conca di Acquafondata si trasformò in una posizione ideale per molte batterie della 3e D.I.A. e del Corpo d’Armata,
ma anche in un’eccellente base logistica per i rifornimenti all’intera divisione, essendo nascosta alla vista degli osservatori tedeschi. [5]
L’ostacolo verso il Rapido era però costituito dalla presenza di un’unica strada carrozzabile che da Acquafondata scende fino a Sant’Elia
Fiumerapido. Questa strada, di per se difficile, dovendo superare un dislivello di circa 900 metri in pochi chilometri e quindi ricca di tornanti
molto stretti, era non solo esposta ai rigori dell’inverno, spesso gelata o innevata, ma soprattutto per molti tratti era in piena vista degli
osservatori d’artiglieria nemici di Monte Cassino, di Monte Cairo e di Monte Cifalco.
Fin dai primi giorni, il traffico fu costantemente ostacolato dal tiro dell’artiglieria nemica che sparava su ogni obbiettivo in movimento,
causando perdite in uomini e materiali, e una moltitudine di incidenti.
La strada fu quasi immediatamente battezzata dai Francesi con il nome di Route de la mort, la Strada della morte.
Era impossibile transitarvi di giorno, se non per staffette in motocicletta e per pochi coraggiosi sulle piccole jeeps o alla guida di
ambulanze; gli automezzi di maggiori dimensioni e le colonne potevano muoversi soltanto di notte, a senso unico alternato. Nel caso in cui un
veicolo fosse stato colpito o si fosse fermato per un guasto meccanico, esso veniva immediatamente scaraventato nei burroni sottostanti, pur di
non formare pericolosi intasamenti con il rischio di essere colpiti dall’artiglieria tedesca, sempre in agguato anche nell’oscurità. [6]
Per questi motivi fu deciso di utilizzare il passaggio attraverso quello che i Francesi battezzarono subito il Ravin de l’Inferno, il burrone
dell’Inferno, che aveva l’enorme vantaggio di scorrere al riparo degli osservatori nemici.
E’ probabile che l’idea di utilizzare un percorso alternativo alla Route de la mort, sia stata proprio del generale de Monsabert, come scrive
nel suo libro Jacques Robichon.
Il comandante della 3e D.I.A. infatti si presentò ai primi di febbraio al comando della 2a compagnia dell’83° battaglione del Genio, già
installatosi proprio nell’Inferno e, dimostrando un grande spirito sportivo, risalì a piedi il letto del torrente, accompagnato dal solo
maresciallo Louis Jean, sbucando dopo due ore di salita a Pratolungo. Dato per disperso dal proprio comando, presso il quale l’allarme era
diventato sempre più grande, il generale, ricomparso all’improvviso e di ottimo umore, fu invece entusiasta della scoperta e ordinò senz’altro
l’inizio dei lavori. [7]
Questi, intrapresi dapprima dai Genieri dell’83° battaglione, iniziarono già il 20 gennaio. [8] Essendo impossibile utilizzare le grosse macchine
dell’esercito americano di cui i Francesi pur disponevano, fu necessario eseguire il lavoro ricorrendo alla manodopera dei Genieri, che
tracciarono prima una mulattiera per consentire il passaggio alle colonne di fanteria ed alle preziosissime salmerie. [9]
Il 20 febbraio fu lo stesso comando del C.E.F. che ordinò di ampliare la mulattiera fino ad ottenere una pista anche per il passaggio degli
automezzi. [10]
La prima parte del tracciato fu aperta il 1° marzo fino alla località L’Aquilone, dove si era installato il comando del generale de Monsabert, e
la nuova pista fu ultimata quindici giorni dopo. [11]
La costruzione di questa pista fu un piccolo capolavoro, perché si dovettero superare pendenze apparentemente impossibili. Soprattutto nel tratto
dove l’Inferno passa attraverso calanchi naturali, soggetti a frane continue, si dovette ricorrere al suo sostegno con apposite strutture in
tronchi d’albero, capaci di sopportare il peso di uomini, animali e mezzi; inoltre il tracciato si inerpicava nel vallone dovendo superare in
alcuni punti salti quasi verticali e quindi si dovette provvedere a costruirlo ricorrendo a numerose curve a gomito, tenendo conto della larghezza
degli automezzi. In alcuni casi fu fatto ricorso a cariche esplosive.
La pista doveva essere continuamente mantenuta a causa delle condizioni del tempo; prima la neve e poi le piogge torrenziali costituirono un
ostacolo continuo al transito ed i Genieri si presero carico del suo ripristino, dovendo talvolta addirittura cambiare il tracciato del percorso.
Dopo la fine dei combattimenti del Belvedere, il 12 febbraio, il comando del C.E.F. emanò l’ordine di assumere un atteggiamento difensivo
nell’attesa di nuove operazioni, ma la 3e D.I.A. dovette estendere il proprio schieramento fino al Monte Castellone, a copertura delle truppe
neozelandesi che stavano subentrando agli Americani. [12]
Al fine di concedere dei turni di riposo ai reparti che erano in linea, i comandi francesi cercarono di avvicendarli il più possibile. [13]
Il continuo spostamento di reparti interessò anche la Valle dell’Inferno, dove, vista la sua posizione defilata, con il passare dei giorni si
ammassarono ingenti quantità di materiali di ogni genere, in particolare viveri, munizioni, carburante e materiali del Genio, che da Portella,
sempre di notte, erano avviati alle prime linee con le colonne di mezzi leggeri e di muli. Inoltre la Valle diventò la sede, più o meno
provvisoria, di comandi ed interi reparti, arrivando ad ospitare qualche migliaio di uomini e muli.
L’inserimento nella zona di Cassino della 2a divisione neozelandese e della 4a divisione di fanteria indiana aumentò ancora il numero degli ospiti
e la quantità di materiale di ogni genere.
Scrive Notin nel suo libro:
"La gola sembra un’esposizione universale delle armate in Italia.
Le truppe indiane sono attendate più vicino all’entrata. Poi ci sono le tende spaziose dell’ospedale inglese, alle quali succedono gli accampamenti dei
Goumiers, dei neozelandesi e degli americani. Il genio francese divide lo spazio con i Tirailleurs a qualche metro dall’uscita, dove si accumulano nel
fetore le carcasse dei muli morti. Collegamenti, ricognizioni, riviste, cambi di truppe si operano al riparo. Gli uomini alternano riposo e allenamento.
Ricevono la loro posta ..." [14]
Francesi e Nordafricani assistettero agli attacchi dei Neozelandesi e degli Indiani a Cassino e verso Montecassino. Installati al riparo del Ravin de l’Inferno, osservarono gli assalti in un miscuglio d’eccitazione e di compassione.
Descrive il maggiore Jannot, comandante del I battaglione del 8e R.T.M.:
"Alla veglia vediamo arrivare delle unità impeccabili, dei giovani uomini dal volto roseo, lo sguardo chiaro, ben rasati, vestiti di nuovo, impeccabilmente ripassati come se uscissero da una sfilata... . Lasciano il "ravin" nella seconda parte della notte. Il suolo trema sotto i colpi dell’artiglieria prima della levata del giorno, poi ci sono i colpi delle mitragliatrici… E l’indomani mattina si vedono arrivare all’Inferno, alla ricerca della loro area, dei gruppi di uomini stazzonati, invecchiati, la faccia grigia con degli occhi dell’altro mondo." [15]
Non sempre però le cose andarono così bene per gli "abitanti" del Ravin de l’Inferno.
Alla fine di febbraio due battaglioni del 6e R.T.M. rilevarono i reparti schierati sotto il Cifalco, tra Valleluce e Valvori. Nella notte fra il
14 e il 15 marzo, il II battaglione del 6e R.T.M., comandato dal maggiore Berteil, ottenne il cambio.
Scrive lo stesso maggiore:
"Rilevati in ritardo, alla fine della notte il battaglione
dovette accelerare la marcia per non essere sorpreso dal giorno nella pianura sotto la vista degli osservatori tedeschi. Finalmente, dopo gli
ultimi chilometri percorsi a passo di corsa, la 2a compagnia ed il comando che chiudevano la marcia, penetrarono nella profonda Valle dell’Inferno
al riparo da sguardi indiscreti, ma non da un vento glaciale che soffia direttamente dall’Abruzzo centrale. Dovevamo sostare per due giorni in
questo luogo idilliaco prima di salire verso Acquafondata dove ci attendevano i camions.
Un ufficiale di collegamento ci indicò i nostri posti per accamparci, che erano stati liberati dal III battaglione del nostro reggimento, rimasto
là in riserva mentre noi eravamo in linea. Avevano preparato delle piattaforme per le tende sotto le pendici ripide e qualche trincea per riparo.
Eravamo serrati in uno spazio stretto tra un deposito di materiale del genio e un ospedale indiano appartenente alla divisione che attaccava
Cassino dal giorno prima.
I posti sono cari, ci aveva detto l’ufficiale, perché qui si ammassano i depositi e le truppe di tutto il settore. Di fatto, c’era una successione
ininterrotta di stoccaggi, depositi, bivacchi, francesi e britannici... .
Mentre cominciavamo a montare le tende, un aereo tedesco passò molto alto, invano salutato dalla contraerea alleata. Il comandante osservò
inquieto che doveva averci scoperto e si domandò se non sarebbe stato meglio spostare l’accampamento, ma non c’era assolutamente spazio... .
Tutti si riposavano ormai da tre ore, quando un tiro massiccio d’artiglieria di grosso calibro si abbattè su di noi, sulla compagnia mortai,
l’ospedale indiano e le unità vicine... .
Per fortuna il tiro non durò più di venti minuti e fin dalle prime granate tutti si diedero da fare per portare al riparo i feriti, ma
soprattutto per liberare i suppelliti nelle trincee, ricoperte dalle enormi esplosioni.
Quando fu fatto il bilancio, risultò pesante: 14 morti e 41 feriti... .
L’ospedale indiano ebbe le sue vittime, fra le quali due ufficiali medici.
In tutto ci furono 50 morti e più di cento feriti.” [16]
Il 25 marzo 1944, il generale Alexander decise di sospendere definitivamente qualsiasi azione a Cassino ed iniziò lo studio del piano per
un’offensiva generale al fine di superare la Linea Gustav, che portò all’attuazione dell’operazione Diadem.
Una delle prime conseguenze fu quella di riordinare l’intero schieramento dividendolo in due grandi settori affidati alla 5a Armata americana, dal
Tirreno al Liri, ed all’8a Armata britannica, dal Liri all’Adriatico. Pertanto il C.E.F. avrebbe ceduto le proprie posizioni ad altre unità
dell’8a Armata, schierandosi lungo il Garigliano.
La prima grande unità a lasciare il fronte fu la 4e D.M.M., i cui reparti stavano ancora affluendo in Italia, seguita dalla 2e D.I.M. che
entro il 28 marzo fu completamente rilevata dai Polacchi della 5a divisione di fanteria Kresowa. La 3a D.I.A., che aveva rioccupato il tratto
di fronte fra Valleluce-Valvori ed il Monte Castellone fu rilevata da elementi delle divisioni di fanteria britanniche 4a e 78a, concludendo le
operazioni il 2 aprile. [17]
Nel frattempo il II Corpo neozelandese, dopo il fallimento degli attacchi a Cassino, era stato sciolto e, nel settore dell’8a Armata, il XIII
Corpo britannico era stato schierato nel tratto di fronte dal fiume Liri a Cassino con quattro divisioni e due di riserva; [18] alla sua destra il
X Corpo che comprendeva la 2nd New Zealand Division, rinforzata di volta in volta da formazioni inglesi, canadesi e sudafricane ed infine il
II Corpo polacco sugli Appennini. [19]
Il 15 aprile, la 2nd New Zealand Division assunse il comando del settore meridionale del X Corpo, cioè di quel settore già tenuto dai Francesi,
che si estendeva dal Monte Castellone alle Mainarde. [20]
Quando i Neozelandesi subentrarono alle truppe francesi, la strada dell’Inferno non solo fu mantenuta, ma persino ampliata.
Tutti i rifornimenti alle prime linee continuarono a seguire l’asse Venafro-Acquafondata, da dove venivano smistati nella Valle del Rapido
attraverso la Route de la mort, che i Neozelandesi chiamarono North Road e il Ravin de l’Inferno, ora battezzato Inferno Track, la pista
dell’Inferno; [21] al suo sbocco nella valle, i Neozelandesi allestirono un campo base di materiali al quale diedero il nome di Hove Dump, che
con il passare dei giorni divenne un immenso punto di stoccaggio di munizioni, carburante e viveri, fino alla biada per i muli.
Ai Neozelandesi si unirono ben presto i Polacchi del II Corpo, ai quali sarebbe spettato il compito di attaccare le posizioni tedesche a Nord di
Montecassino. Tra l’8 ed il 17 aprile i reparti del II Corpo polacco furono sostituiti da unità del X Corpo britannico nel loro settore difensivo
ed il 22 aprile presero in consegna il nuovo settore, sostituendovi i reparti britannici.
L’asse dei rifornimenti per la 5a divisione di fanteria Kresowa andò a gravare sull’unica strada da Venafro ad Acquafondata e poi sulle due vie
già intasate fino alla Valle del Rapido. [22]
Tutti i movimenti su ciascuna delle due strade e nella Valle del Rapido dovevano essere attentamente pianificati, al fine di evitare che convogli
e colonne di truppe potessero trovarsi allo scoperto nelle ore diurne ed essere individuati dagli osservatori tedeschi. Una catena di posti di
controllo, presidiati dalla polizia militare neozelandese e collegati fra di loro tramite telefoni, provvedeva al controllo del traffico da
Acquafondata a Hove Dump.
In un primo tempo si tentò un accordo: ai Neozelandesi la North Road, ai Polacchi l’Inferno Track, ma fu impossibile rispettarlo per la
differenza di capacità fra le due strade. [23]
L’organizzazione del traffico era sempre delicata.
Scrive W. Bates:
"Poco prima del tramonto i veicoli leggeri si raccoglievano nella conca
di Acquafondata. In testa le “jeeps” che erano salite dall’Inferno durante il giorno e che, dopo aver completato il carico, tornavano indietro
per raggiungere la strada per Terelle.
Subito dopo i camions con i rimpiazzi, poi quelli con i rifornimenti da scaricare a “Hove Dump” e quindi i Polacchi. Un convoglio normale
consisteva in nove autocarri (tre di rifornimenti, tre di carburante, tre di munizioni). In coda seguiva il carro officina Flamagan II. Venivano
utilizzati solo gli autocarri in ordine al 100 per cento, ma in caso di guasto l’ordine era di buttarli fuori strada.
Quando scendeva l’oscurità partivano le “jeeps” e le colonne si mettevano in moto, talvolta nel frastuono assordante dei colpi in partenza delle
batterie di grosso calibro piazzate nella conca. Una volta raggiunta la “North Road” non si poteva più tornare indietro. Ogni conducente,
sporgendo la testa dal finestrino, cercava di scorgere il veicolo che lo precedeva o di avvertirne lo stridio dei freni. In teoria i veicoli
dovevano viaggiare distanziati, ma era inevitabile che si compattassero a causa delle curve dove bisognava manovrare.
Qualche volta la luna illuminava il percorso, ma nel buio fitto o nelle notti di cattivo tempo, un nastro bianco sui bordi della strada era il
solo aiuto." [24]
Non mancavano certo gli incidenti o le incomprensioni fra alleati, come ricorda Bates con una punta di ironia.
"Una notte quando le truppe di un’“Allied nation” usarono la strada per la prima volta, il viaggio sembrò più lento
dell’usuale. La causa fu che, non sentendosi di affrontare una guida così azzardata, avevano messo un uomo davanti con un asciugamano bianco in
testa e il convoglio procedeva a passo d’uomo.
Un’altra volta una colonna della nostra compagnia, che aveva già coperto i tre quarti del viaggio di ritorno, rimase bloccata dagli automezzi di
un convoglio polacco fermi sulla strada. Gli autisti, avendo deciso che era troppo buio per proseguire, erano profondamente addormentati e
rifiutarono di muoversi fino a quando non furono impugnate le armi per convincerli a ripartire." [25]
Un po’ di "humour" non guasta, ma quel viaggio nella notte fu sempre un incubo per gli autisti: francesi, nordafricani, americani, inglesi,
neozelandesi o polacchi che fossero.
Quell’asciugamano bianco è ricordato anche da un corrispondente di guerra polacco, Julian Krycki, ma in modo molto più drammatico.
"Tutte le luci sono spente. Si procede ad una velocità di 6-8 miglia, un automezzo dietro l’altro a distanza di cinque metri. L’unico segno nella notte oscura sono le strisce bianche sul paraurti del mezzo che precede. L’autista di riserva, seduto di fianco, mostra la strada: “avanti... a destra... un po’ più a sinistra...”. Spesso scende e facendo il segnale con un asciugamano bianco indica il percorso..." [26]
La tensione, la stanchezza e la fatica giocano brutti scherzi, come all’autista Marciniek che si addormentò al volante e precipitò con il suo autocarro nel precipizio. [27]
Scrive ancora Krycki:
"Quante volte bisognava tirar fuori l’autista intirizzito al ritorno della missione; quante volte fu trovato svenuto al posto di guida...” [28]
I primi automezzi di grosso tonnellaggio risalirono l’Inferno nella notte fra il 26 ed il 27 aprile, quando un convoglio agli ordini del sottotenente neozelandese Wilson fu ritardato nella discesa sulla North Road dalla pioggia e da una colonna polacca. Aveva raggiunto Hove Dump troppo tardi per fare il viaggio di ritorno nel buio ed il comando della polizia militare autorizzò il ritorno attraverso l’Inferno Track.
"Gli automezzi, i primi da 3 tonnellate, furono fatti partire ad intervalli di cinque minuti." [29]
Hove Dump, malgrado fosse circondato da postazioni di artiglieria, era generalmente considerato un posto sicuro, scavato nel letto del torrente
in una gola protetta da due alti argini di creta.
Ai primi di maggio però l’artiglieria tedesca cominciò a prendere di mira la zona ed alcune granate caddero nelle vicinanze dell’imbocco della
Valle dell’Inferno, senza causare danni irreparabili.
Ed invece.....; racconta ancora Bates:
"Il 7 maggio era un giorno chiaro. Il fumo perpetuo su Cassino era
meno intenso del solito e i cannonieri sulle alture potevano vedere lontano fino a Monte Cairo. Durante il mattino alcune granate caddero sulle
postazioni di artiglieria… ma non fecero gravi danni ed il lavoro continuò come sempre.
La colonna delle “jeeps”, che si stava preparando per il consueto viaggio notturno, era parcheggiata nella gola e soltanto piccole schegge caddero
sugli uomini che caricavano i veicoli.
Nel pomeriggio le granate cominciarono a piovere sul deposito: non sembrava possibile, ma era così.
Successe che una granata incendiaria colpì in pieno una delle “jeeps” che prese fuoco ed una spessa colonna di fumo nero si alzò nel cielo terso,
dando un chiaro segnale all’artiglieria tedesca." [30]
Gli autisti corsero ai loro mezzi, portandoli via malgrado alcuni fossero già in fiamme, ma non si riuscì a contenere l’incendio, alimentato
dall’arrivo di altre granate.
Il primo lotto di munizioni d’artiglieria a saltare per aria fu un ulteriore segnale per i Tedeschi. Le granate accatastate scoppiarono una dopo
l’altra e poi fu la volta delle munizioni per armi portatili, in un susseguirsi di esplosioni il cui rombo era ampliato dall’eco della gola.
Iniziarono a bruciare delle tende e quindi fu la volta di un deposito di razzi da segnalazione, che riempì il cielo di fuochi pirotecnici.
Il tiro dell’artiglieria tedesca aumentò d’intensità e quando cominciarono ad esplodere le migliaia di canestri contenenti carburante, si alzò
"una torre di fiamme arancione e di fumo nero". [31]
Quando scese la notte tutta la zona era illuminata ed il bombardamento continuava. Ancora il giorno dopo il calore era talmente intenso che
"continuavano ad esplodere le cartucce da 303 e le scatolette di viveri si aprivano con lo schiocco di un tappo di bottiglia".
Il compito di Hove Dump era finito, anche perché fu ancora colpito l’8 e il 9 maggio. Le perdite umane, per quanto fu possibile appurare, furono di circa 50 uomini, fra i quali un morto e 26 feriti neozelandesi. [32]
Nonostante il disastro, il rifornimento alle linee continuò. Fu necessario ricostituire un più potente deposito ad Acquafondata, ma il traffico sulla North Road e all’Inferno fu ripreso dopo poche ore.
Tutto questo complesso sistema logistico divenne obsoleto dopo il 25 maggio 1944, quando il fronte si mosse anche a Montecassino, sull’Alto Rapido
e negli Abruzzi.
La pista dell’Inferno fu abbandonata quasi improvvisamente e quel posto dove erano vissuti per mesi migliaia di uomini ritornò alla sua natura
selvaggia, che nel corso degli anni ha cancellato le ferite della guerra e che ora non ha nessun bisogno di essere riempito di buchi alla ricerca di
qualche granata inesplosa.
I simboli di alcune unità e reparti citati in questo articolo:
Note
Bibliografia
Nel caso in cui il testo derivi sempicemente dall'esposizione, con o senza traduzione, di documenti/memorie al solo fine di una migliore e più completa fruizione, la definizione Autore si leggerà A cura di.
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