Pubblichiamo il testo della conferenza di Costantino Jadecola, tenuta a Cassino l’11 giugno 2008 nell’ambito delle iniziative dell’Associazione ‘Studi Cassinati’.
Nel ringraziare l’autore per la cortese concessione, avvertiamo i lettori che il contenuto della relazione precede uno studio più approfondito degli avvenimenti.
QUELLA SETTIMANA D’INFERNO SULLA LINEA HITLER
È stato chiamato sbarramento “Senger” o anche “Senger-Riegel” o, ancora, “catenaccio di Senger”; l’hanno chiamata linea “Dora” o “Fuhrer-Senger”
o “Hitler-Stellung”. In buona sostanza, però, si tratta sempre della stessa cosa: della linea difensiva tedesca che, secondo Alberto Turinetti di
Priero,
“per i Tedeschi fu sempre la ‘Linea Senger’ e per gli Alleati la ‘Linea Hitler’.” 1
A volere questa fortificazione fu il feldmaresciallo Albert Kesselring, comandante delle forze armate tedesche nel sud Italia, in previsione di
un crollo della linea Gustav, quella contro la quale l’esercito alleato da gennaio del ’44, dopo aver distrutto, tra l’altro, Montecassino e
Cassino, non sapeva più cos’altro escogitare per crearsi un varco attraverso di essa. Cosa che poi, finalmente, si verificò all’indomani dell’11
maggio 1944 quando, dopo una notte memorabile per chi ebbe occasione di viverla, gli alleati si decisero a sferrare un massiccio attacco e
sbloccare così una situazione ormai da mesi statica ma soprattutto con nocive conseguenze per il territorio e per la sua gente.
Era ormai giunto il momento in cui la linea Hitler doveva entrare in funzione e “contrastare”, com’era nei piani, l’infiltrazione nemica oltre la
Gustav. Infatti, nelle intenzioni, scrive Fred Majdalany,
“le due linee funzionavano come una porta oscillante, il cui perno era il monte di
Cassino. Se forzata, poteva oscillare, attraverso la valle invasa, fino alla linea Hitler, fermo restando il Monte di Cassino come cardine e punto
fermo. Poi poteva essere staccata dai gangheri e collocata, due o tre chilometri indietro, su un nuovo cardine, Piedimonte; e Piedimonte, antica
città-fortezza su una collina rocciosa, sarebbe diventata un nuovo Montecassino.” 2
Come nei fatti avvenne, dopo che, il mattino del 18 maggio, ciò che restava del monastero venne conquistato dalle truppe polacche.
Se
“i tedeschi ritenevano che queste due linee potessero fronteggiare qualsiasi tentativo alleato lungo la valle del Liri e la Statale n. 6” 3
Casilina, gli alleati, dal canto loro, pensavano che, una volta sfondata la linea Gustav, non avrebbero avuti altri problemi da affrontare e
finalmente si sarebbe schiusa per loro la strada per Roma. Invece così non fu e, oltre che con il territorio, essi dovettero vedersela appunto
con la linea Hitler, anche se furono vicini a sfondarla già tra il 19 e il 20 maggio. Ma se ciò non accadde lo si deve al fatto che gli
attacchi vennero condotti con forze insufficienti:
“l’8a armata”, avrebbe commentato Churchill,
“dovette constatare come gli attacchi
esploranti contro la linea Adolfo Hitler nella valle del Liri non dessero alcun risultato, per il fatto che le truppe che la presidiavano,
sebbene fossero state immesse precipitosamente nella battaglia, erano composte di uomini risoluti e disponevano di difese formidabili. Era perciò
necessario un assalto in grande stile”.
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In particolare, precisa Majdalany,
“i reparti mobili si imbatterono subito in vasti campi minati, in catene di casematte, in poderose
fortificazioni estese per una profondità di 900 metri [cosicché] fu chiaro che la linea Adolf Hitler doveva essere affrontata con mezzi massicci.
Nel frattempo il grosso dell’armata era ritardato momentaneamente dalla riorganizzazione necessaria dopo i duri combattimenti della settimana
prima, nonché dalla congestione del traffico.” 5 E, forse, fu proprio allora, secondo Eric Morris, che si ebbe la certezza che
“la valle del Liri non era affatto la facile via d’accesso a Roma che tutti si aspettavano.” 6
Insomma, la presenza della linea Hitler aggravava notevolmente la naturale e particolare struttura della valle: poche strade, molti corsi
d’acqua, le incombenti alture laterali; cosicché non sembrava del tutto campata in aria l’intenzione dei tedeschi di riproporre in questo nuovo
scenario, sia pure in limiti più modesti, quanto era accaduto per diversi mesi sulla Gustav.
Grazie a Dio, però, nella realtà le cose andarono diversamente ed il fronte sulla Hitler non resse più di una settimana: giorni davvero d’inferno
funestati come furono, solo su questo segmento del fronte, da oltre tremila di morti, soprattutto militari tedeschi, polacchi e canadesi, e
dagli ulteriori gravissimi danni provocati al già esausto territorio.
La costruzione della Hitler era iniziata nel mese di dicembre del 1943, una volta ultimata la Gustav e, com’era accaduto per questa, la sua
realizzazione era stata affidata all’organizzazione
Todt 7, che, come ricorda il generale tedesco Frido von Senger, comandante del XIV
Corpo d’Armata Panzer, oltre alla consueta mano d’opera, poteva contare, tra gli altri, anche su
“contingenti slovacchi” ed una
“grande abbondanza di mezzi”.
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E tra gli altri c’erano anche giovani militari italiani arruolati a seguito del
“bando Graziani”, che imponeva ai nati negli anni 1923,
1924 e 1925 di presentarsi presso i propri distretti di appartenenza per essere quindi aggregati
“alla Todt (Battaglione Pionieri)”,
obbligati, come riferisce Otello Giannini, uno dei protagonisti di questa vicenda, a servire
“la patria facendo fortificazioni insieme
all’alleato tedesco contro il comune nemico.” 9
Si tratta di appartenenti ad un battaglione dell’84° reggimento fanteria di stanza a Firenze che, appunto, nell’autunno inoltrato del ’43 viene
dislocato tra Aquino e Piedimonte San Germano ed
“ospitato”, riferisce lo stesso Giannini,
“in una grande villa.”
Ma viene difficile individuare nel territorio tra i due comuni una struttura in grado di ospitare tante persone - si tratta di 24 ufficiali, 12
sottufficiali e 836 uomini di truppa, tutti per lo più toscani - ed avente, oltretutto, l’aspetto di villa. Né, peraltro, ci sono testimoni in
grado di ricordare la presenza ad Aquino ed a Piedimonte di questi giovani militari italiani.
Di essi, però, parla il “capo” della provincia di Frosinone, Arturo Rocchi, che, in una relazione del 21 dicembre al ministro dell’Interno della
RSI, evidenzia il relativo aiuto dato da questi reparti:
“senza alcun inquadramento e senza addestramento per i lavori in cui vengono
impiegati, sono privi di ogni forma di assistenza morale e materiale (...)”. Peraltro, scrive Rocchi,
“trattandosi di studenti, non sono
in grado di sostenere le fatiche di un lavoro pesante e puramente manuale.”
Ma quello che è sconcertante è il fatto che, a quella data, a quel 21 dicembre, si registrano già ben 324 “disertori”. Dei quali in tredici
vivranno la medesima avventura tentando di fuggire con un camion che all’alba di un giorno imprecisato parte dalla piazza di Aquino diretto a
Roma.
Accadde, però, che percorsi dieci, forse venti chilometri, lo stridio dei freni lasciò intendere ai passeggeri che qualcosa o qualcuno aveva
indotto il mezzo a fermarsi: c’era, infatti, un posto di blocco tedesco.
Alcuni dei passeggeri vengono uccisi; altri, tra cui i tredici commilitoni, vengono portati al carcere di Frosinone dove vivranno alcuni giorni
in condizioni estremamente disagiate. La loro non certo invidiabile esperienza dura fino all’ultimo giorno del 1943 quando, di buon mattino,
i giovani vengono trasferiti a Ceprano per il processo a loro carico. Più che i tedeschi, è il loro superiore, il maggiore Giulio Pellegrini,
a segnare la loro sorte chiedendo per essi la fucilazione alla schiena per alto tradimento. Fu decisamente più “generoso” il tribunale che, in
considerazione di vari fattori, non ultimo che quello era l’ultimo giorno dell’anno, decise “di accomunare una sentenza esemplare a un atto di
clemenza”: pena di morte per tre nominativi estratti a sorte e dieci anni di lavori forzati da scontare in Germania per gli altri dieci. E così è.
Il successivo 6 gennaio i tre “segnalati” dalla sorte saranno fucilati a Frosinone al “curvone” di viale Mazzini
“rei di non aver voluto
tradire la Patria servendo il nemico”, come si legge sulla lapide che nello stesso luogo ne ricorda i nomi: Pierluigi Banchi, nato a Fiesole
il 26 ottobre; Giorgio Grassi, nato a Figline Valdarno il 18 dicembre; Luciano Lavacchini, nato a Borgo S. Lorenzo il 12 novembre. Anno di
nascita, per tutti e tre, il 1924: nemmeno vent’anni.
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Ma torniamo alla Hitler. Profonda, come si è detto, all’incirca un chilometro, si estendeva tra il monte Cairo e la costa tirrenica per una
lunghezza fra i sessanta ed i settanta chilometri.
Il suo punto di partenza era stato fissato sulle pendici del monte Cairo e, precisamente, sulla cima del Pizzo Corno, a 945 metri sul livello
del mare, al di sopra dell’abitato di Villa Santa Lucia ed a poco più di tre chilometri in linea d’aria da Montecassino, ovvero dalla linea
Gustav.
Scendendo a valle, essa lambiva Piedimonte San Germano, che a quel tempo fasciava la sommità della collina, e poi, spostandosi verso ovest,
toccava la pianura in contrada Torre, quella, per l’esattezza, che si estende fra la Casilina, da dove inizia il lungo rettilineo che si
conclude dopo il bivio di Roccasecca, e le più basse pendici del Cairo, terreni a quel tempo di proprietà del cav. Sossio Liguori, come riferisce
Raffaele Nardoianni che scrive:
“lungo quella zona tutta minata, eravi il gran fosso anticarro, munito di fitto reticolato che, attraversando
la Casilina e tortuosamente il territorio di Aquino, giungeva fino a Pontecorvo” 11 ricalcando grosso il tracciato della strada
che la collega direttamente ad Aquino. Dopo aver attraversato il fiume Liri, la linea fortificata tedesca puntava verso sud-ovest e proseguiva
poi attraverso Pico, Lenola e Fondi per concludersi, infine, sul mare di Terracina.
Se questo era il progetto di massima, in realtà, però,
“i lavori di rafforzamento della linea Hitler”, scrive G. A. Shepperd,
“si
concentrarono sul settore che si opponeva a un’avanzata attraverso la valle del Liri.” 12 In pratica, tra Piedimonte, Aquino e
Pontecorvo dove gli accessi alla fortificazione
“seguivano un terreno aperto e piuttosto piatto, e” dove,
“con la primavera, le
coltivazioni abbandonate nei campi attorno ad Aquino nascondevano efficacemente molte delle difese all’osservazione da terra.” 13
Non bisogna poi dimenticare che, ad integrazione della Hitler, quasi a mezza strada tra Pontecorvo e San Giorgio, sempre dai tedeschi era stata
creata un’ulteriore linea chiamata “Dora”, dallo spelling D come Dora, che, però, secondo Bruno D’Epiro, sarebbe stato piuttosto l’
“ultimo
catenaccio della Gustav.” 14 La sua storia, comunque, non andò oltre il 17 maggio, travolta come fu dalle truppe di colore del
Corpo di spedizione francese.
La linea Hitler è caratterizzata in particolare dalla presenza di un consistente numero dei cosiddetti “fortini” come, passata la guerra, si
prese a chiamare quelle strutture di cemento affogate nel terreno la cui parte metallica venne subito “utilizzata” come merce di scambio
nell’allora fiorente mercato del “ferro vecchio” necessario specialmente per sopperire ad improcrastinabili esigenze di mera sopravvivenza,
attività che, per forza di cose, provocò moltissime vittime e favorì l’arricchimento di pochissimi.
Si trattava, in buona sostanza, di casematte, o bunker che dir si voglia, disseminati in numero consistente lungo tutta la fascia della Hitler,
ben mimetizzati tra la vegetazione, protetti da campi minati e da reticolati. Per la parte offensiva, generalmente utilizzavano torrette di carri
armati, fra cui, in particolare, quelle con cannoni da 75 mm. già montate sui
Panther che si “segnalarono” per la loro pericolosità:
“provenivano dal fronte russo”, precisa Roberto Molle,
“ed appartenevano alla prima serie di Panther V che era caratterizzato da una
elevata fragilità meccanica; molti di questi carri infatti rimasero vittima di rotture ancora prima di incontrare il nemico. Le torrette resesi
così disponibili furono inviate sul fronte italiano” 15, dove, per la prima volta in Italia, tra il mese di marzo e gli inizi di
maggio del 1944, ne sarebbero state posizionate una quindicina proprio sulla linea Hitler.
Altrimenti note come
Panzerturm o
Panthertum, proprio per via della provenienza della torretta, distanziate ad un chilometro circa
l’una dall’altra, le loro colorazioni mimetiche erano le più diverse ma generalmente orientate su un fondo giallo scuro o rosso antiruggine ed
il personale addetto poteva fruire di cuccette, stufa, telefono, elettricità, il tutto naturalmente posto sotto terra, al di sotto della torretta
stessa. Per la cronaca, una di esse, quella piazzata ad est di Piedimonte, distrusse ben diciassette carri nemici prima che l’equipaggio fosse
costretto ad abbandonarla. Ma non fu l’unico caso.
Al di là di queste e delle altre postazioni fisse dello stesso genere equipaggiate con armamenti di più modesto calibro, tra gli altri mezzi
offensivi presenti sulla linea non mancavano carri armati, da utilizzare laddove se ne fosse presentata la necessità, e diverse unità di
Nebelwerfer, un lanciarazzi a canne multiple in grado di sparare a grande velocità, almeno uno ogni 10 secondi circa, micidiali proiettili
che provocavano consistenti perdite al nemico. Il tutto, naturalmente, in un contesto dove non mancavano profondi rifugi sotterranei rinforzati
con cemento armato, barriere di filo spinato, campi di mine abilmente disseminate e profonde buche anticarro: insomma, non si sbaglia col dire
che le difese della Hitler erano anche più elaborate di quelle della Gustav.
Ovviamente, esse non erano sfuggite all’attenzione dei comandi alleati che ne ebbero conoscenza attraverso le fotografie aeree le quali sin dal
dicembre del ’43 mostrarono per la prima volta un gruppo di postazioni nemiche mimetizzate:
“in febbraio il loro numero era cresciuto a 180,
ed in maggio gli osservatori contarono più di 270 posti fortificati.” 16
Si trattava dunque di
“una linea particolarmente adatta a resistere” agli attacchi che poi puntualmente si sarebbero verificati,
scrive von Senger, essendo stata
“costruita proprio in vista di una simile offensiva.” 17
Ma qualcosa non andò come doveva. E ci fu un neo, un
“unico neo: mancavano le forze per presidiare la linea. Le divisioni non ripiegarono su di
essa”, come avrebbe dovuto essere,
“ma dovettero battersi sul terreno antistante.” 18
Ciò nonostante, però, il poderoso esercito alleato dovette faticare non poco per superarla, almeno nei punti più “caldi”: è noto, infatti, che
la battaglia combattuta fra Pizzo Corno, Villa Santa Lucia e Piedimonte San Germano dal 20 al 25 maggio dagli uomini al comando del generale
Wladyslaw Anders fu cruenta.
Meno noto è invece, ciò che accadde fra Aquino e Pontecorvo in un solo giorno, il 23 maggio, nel corso di un violento scontro fra canadesi e
tedeschi.
Il campo di battaglia, perché si trattò di un vero e proprio campo di battaglia, si apre a sinistra della strada provinciale che collega Aquino a
Pontecorvo e si estende per circa un chilometro e mezzo ai lati della strada per contrada Valli interessando il territorio delimitato da un lato
dalla depressione di terreno caratterizzata dal corso delle Forme di Aquino, i cosiddetti Pantani, e, dall’altro, dall’area leggermente ondulata
che si estende tra Zammarelli e Selva Toccheto, ancora territorio di Aquino, e Campo Vincenzo e Vallario, località quest’ultime, invece, in
territorio di Pontecorvo: un fronte, insomma, di circa tre chilometri integrato nella linea Hitler che, per buona parte dei quali, nella zona
tra Fontana del Persico, in corrispondenza, cioè, del bivio per Valli, e Vallario, se non coincide con la strada Aquino-Pontecorvo corre,
comunque, parallela ad essa a distanza ravvicinata.
L’obiettivo dei canadesi, che arrivano da contrada Valli e che erano partiti da un’area compresa tra Pignataro e San Giorgio a Liri, è proprio
quella strada, strada che, in codice, è stata ribattezzata
“Abukir”: conquistarla significa molto di più che creare un semplice varco
nella linea Hitler.
Quando scese la sera di quel 23 maggio, il costo in termini di vite umane pagato dalle truppe canadesi per questo attacco fu molto alto:
47 ufficiali e 832 soldati morti (oltre a 7 ufficiali e 70 uomini non facenti parte delle forze impegnate in battaglia) e 41 dei 58 carri armati
utilizzati distrutti.
Di gran lunga maggiori le perdite sofferte dai tedeschi: oltre 700 i prigionieri e molte centinaia i morti. Le stesse fonti tedesche, dal canto
loro, confermano la gravità delle perdite: il diario del 51° Corpo annotava alle ore 23,30 che il maggiore generale Wentzell, della 10ª Armata,
segnalava che il nemico aveva attaccato nelle ultime 14 ore supportato dall’artiglieria e che un battaglione del 576° reggimento Granatieri, due
battaglioni del 361° reggimento Granatieri e il gruppo da battaglia
Strafner erano da considerasi completamente distrutti. Si legge poi
che il nemico era avanzato profondamente nell’ala sinistra dello schieramento della 90ª divisione panzergrenadieren e che un battaglione della
1ª divisione paracadutisti e due compagnie della divisione da montagna erano stati spazzati via.
Se si considera che Pico è stata conquistata il 19 maggio, Fondi il 20 e Terracina il 23, anche sulla linea Hitler era ormai una disfatta totale
per i tedeschi. Per essi, poi, c’erano anche altri motivi di preoccupazione: sempre il mattino del 23, mezz’ora dopo l’inizio dell’assalto
canadese alla linea Hitler, il 6° Corpo degli Stati Uniti. aveva rotto l’assedio ad Anzio e marciava verso Valmontone.
Per i tedeschi, insomma, era arrivato il momento di salvare al più presto il salvabile ed evitare un quanto mai pericoloso accerchiamento.
Note
- Alberto TURINETTI DI PRIERO, I carri armati polacchi a Piedimonte San Germano (20-25 maggio 1944). 21 luglio 2007. In www.dalvolturnoacassino.it.
- Fred MAJDALANY, La battaglia di Cassino. Garzanti. Milano, 1958, p.259.
- Idem.
- Wiston CHURCHILL, La Seconda guerra mondiale. Da Teheran a Roma. Volume Decimo. Oscar Mondadori. Milano, 1970, pp. 324-325.
- Fred MAJDALANY, op. cit., p.288.
- Eric MORRIS, La Guerra inutile. La Campagna d’Italia 1943-1945. Longanesi & C. Milano, 1993, p. 371.
- Creata nel 1933 dall’ingegnere Fritz Todt, dopo aver costruito in Germania migliaia di chilometri di autostrade, divenne ausiliaria della Wehrmacht e dal 1939 la sua attività fu esclusivamente militare ed ad essa fu affidata la costruzione delle fortificazioni sull’Atlantico e sul Mediterraneo. In Italia, oltre la Gustav e la Hitler realizzò anche la linea Gotica e curò inoltre la realizzazione di strade ed aeroporti. Nel corso della sua attività parabellica poté disporre di oltre 2 milioni di operai in gran parte reclutati nei paesi occupati o tra i prigionieri di guerra.
- Frido von SENGER und ETTERLIN, La guerra in Europa. Longanesi & C., Milano 2002, p. 349.
- Otello GIANNINI, Tredici in un cappello. Milano, 1987, p. 29.
- Gli altri dieci, condannati a dieci anni di reclusione secondo Arturo Rocchi (cfr. Latium, p. 341) ma di fatto trasferiti nei campi di concentramento in Germania, sono Angelo Terinaci, Severino Becchi, Aldo e Rocco Pierucci, Adriano Brigandi, Vladimiro Coloma-ni, Otello Giannini, Fernando Bocci, Luciano Paoli, Leone Lizzi.
- Raffaele NARDOIANNI, Piedimonte San Germano nella voragine di Cassino. Seconda Edizione. Tipografia Carlo Malatesta. Cassino, 1974, p. 62.
- G. A. SHEPPERD, La Campagna d’Italia 1943-1945. Garzanti. Milano 1970, pp.306-307.
- Idem.
- Bruno D’EPIRO, Linea Dora: la battaglia di Esperia. Esperia, 1994, p.18.
- Roberto MOLLE, Aquino, “le Valli”, 23 maggio 1944: il giorno più lungo della Linea Senger. 6 ottobre 2001. In www.dalvolturnoacassino.it
- Gaeta occupata. La Quinta Armata oltrepassa Itri. In Risorgimento, a. II, n. 122. Domenica 21 maggio 1944.
- Frido von SENGER und ETTERLIN, op. cit., p. 349.
- Idem.
Nel caso in cui il testo derivi sempicemente dall'esposizione, con o senza traduzione, di documenti/memorie al solo fine di una migliore e più completa fruizione, la definizione Autore si leggerà A cura di.
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