ROBERT CAPA E L'INCONTRO DEL GENNAIO 1944 CON DOMENICO MATTEO ALLA RADICOSA
Nel corso degli anni sono molti coloro che ci hanno lasciato la loro testimonianza su quanto avvenne in quel ormai lontano 1944 in una vasta zona che
comprende quattro regioni e che oggi noi siamo abituati a condensare nel nome di “battaglia di Cassino”.
Sono memorie di illustri generali dei due campi, di uomini politici e diplomatici, di ufficiali e soldati che combatterono sugli opposti fronti,
ma anche di civili che vissero quel periodo tra privazioni di ogni genere, assistendo alla distruzione dei loro beni ed alla scomparsa di tanti
parenti, amici e conoscenti a causa della guerra.
Il caso di Domenico Matteo, rifugiato con la famiglia nella minuscola borgata di Radicosa, nelle vicinanze di San Vittore del Lazio, ai piedi di
Monte Sammucro, quasi al confine con il Molise, ma a pochi chilometri da Cassino, è però unico perchè può vantare una testimonianza eccezionale,
venne infatti immortalato in una serie di immagini scattate dal famosissimo fotografo americano Robert Capa,
che poi vennero pubblicate da una rivista americana dell’epoca, Illustrated Magazine del
25 marzo 1944, in uno speciale monografico dedicato alla
First Special Service Force.
Il nipote Luigi lo ricorda in questo breve ma appassionante racconto, tracciando la storia della sua vita, l’avventurosa permanenza nella Russia
attraversata dalla rivoluzione e dalla guerra civile, il ritorno in Italia e la professione di fotografo, fino all’incontro con Robert Capa... .
Tra la fine del 1943 e gli inizi del 1944 Robert Capa, universalmente riconosciuto il più grande reporter di guerra, venne alla Radicosa, una
piccola e sperduta contrada situata tra le montagne a Nord di S. Vittore del Lazio, a metà strada dalla cima del Monte Sammucro, a pochi km da Cassino.
Non venne per caso in questo luogo; doveva documentare la zona dove la guerra fu più terrificante, cruenta, fatta di cannoneggiamenti incessanti, di
monti invalicabili per la resistenza opposta dai tedeschi, del freddo inaspettato e impensato nel paese del sole, di civili allo stremo. La stessa
zona (tre km. più a sud di S. Pietro Infine) descritta da John Huston in Combat Film.
Qui la sorte fece incontrare Robert Capa con Domenico Matteo (1878-1944) e con la sua consorte Carolina Cascarino (1882-1966) nonni dello scrivente.
Forse fu Domenico, che era fotografo, ad andargli incontro incuriosito per chiedergli di mostrargli la sua Leica e ad invitarlo ad entrare nella sua
casa alla Radicosa.
JOHN HUSTON - SAN PIETRO, IL DOCUMENTARIO
Il documentario, del 1943, è relativo alla battaglia di S.Pietro Infine avvenuta nel più ampio scenario della battaglia di Montelungo. Il filmato, girato dal grande regista americano John Huston, viene analizzato in queste pagine tratte da un lavoro di Marco Pellegrinelli.
08/08/2001 | richieste: 6774 | MARCO PELLEGRINELLI
I luoghi | #dicembre 1943, filmografia, huston-john, protagonisti, san-pietro-infine
Mi sono chiesto perché Robert Capa abbia insistito nel fotografare i nonni Domenico e Carolina che appaiono quasi sempre tra i civili in quel
reportage dalla Radicosa effettuato il 4 gennaio 1944. Ritengo per i seguenti buoni motivi.
Innanzitutto perché erano queste le uniche persone, in una contrada isolata tra le montagne come la Radicosa, in grado di poter interloquire con
degli stranieri. I nonni erano stati emigranti in Russia per oltre 20 anni, sapevano pertanto rapportarsi e cavarsela nelle più svariate situazioni.
Poi perché parlavano correntemente la lingua russa e abbastanza la lingua tedesca. Robert Capa (il suo vero nome era Endre Friedman) era nato a
Budapest (1913) e, oltre all’ungherese sapeva bene il tedesco e l’inglese ed era già stato in Spagna per la guerra civile; in grado pertanto di farsi
capire benissimo da loro. Ma la ragione principale deve essere stata la curiosità e l’ambizione di nonno Domenico che vi vide l’opportunità inaspettata
di poter parlare con un fotografo “americano” lui che di fotografia si intendeva benissimo. Nonno fu uno dei primi fotografi di professione. Per
la sua macchinetta di legno possedeva un obiettivo Munchener Optische Anstalt di Monaco
che conservo ancora in casa mia. Unica reliquia di un archivio fotografico irrimediabilmente distrutto dagli eventi bellici. I due devono essere
entrati in immediata confidenza e simpatia. Avranno sicuramente consumato insieme qualche frugale pasto a base di ricottine e di cacio della
Radicosa che non hanno uguali al mondo.
Diciamo che, per le foto poi, nonno ha finito per “posare” per Robert Capa. Nella foto in cui è alla testa dei soldati della Canadian First Special Service Force e anche nelle altre, nonno calza ai piedi le "chiochiere" o "ciocie" (tipica calzatura dei montanari della Ciociaria); ma nonno non era avvezzo a quel tipo di calzature. Dopo oltre vent’anni trascorsi nella capitale zarista egli si considerava un cittadino emancipato e non un pastore o un montanaro. E’ evidente la cortesia che ha voluto usare per Capa: le ha indossate per lui, vestendosi come gli abitanti del luogo per la miglior “ambientazione” e riuscita della foto. Ed è altrettanto evidente il contraccambio di Capa che ha privilegiato i due coniugi riprendendoli in ben tre scatti del servizio fotografico che sarebbe apparso due mesi dopo sulla rivista Illustrated Magazine, immortalandoli per sempre.
Esistono altri scatti e stiamo cercando di recuperarli tutti, anche tramite la Magnum Photos, per poter allestire una mostra permanente ed un museo della vecchia sede comunale di San Vittore del Lazio e alla Radicosa stessa.
Capa non ha mai voluto evidenziare con le sue foto i drammi più cruenti, le scene più tragiche della guerra. Gli sarebbe risultato facilissimo - come del resto fece John Huston con la cinepresa (Combat film) tre chilometri più a sud a S. Pietro Infine - in quella zona di guerra guerreggiata, carica di devastazione e di morte in cui anche le piante di ulivo sono accomunate allo schianto e alla mutilazione come i poveri corpi di soldati e di civili orrendamente dilaniati e abbandonati. Era inevitabile, trattandosi di un reporter di guerra, che scattasse anche queste foto. Ma Robert Capa voleva piuttosto immedesimarsi nei volti dei civili (vere medaglie d’oro al valore), nel terrore stampato sui loro visi per le incessanti e devastanti esplosioni, nelle vite dei pastori e dei contadini stravolte da una realtà per loro assurda e inconcepibile. Immedesimarsi per trasmettere anche quel concetto semplice che lo guidava: ama la gente e faglielo capire.
La foto del ferito cui nonno Domenico (al centro) regge il piede è carica di pietas, di compassione e non è lontana dalle sublimi “deposizioni” di
Bellini, di Michelangelo (la Pietà vaticana, la Pietà Rondanini), di Raffaello, Caravaggio, e di una miriade di artisti che hanno visto nella
violenza la stupida dissennatezza dell’umanità. E’ una “pietà laica”, senza retorica, rappresentata in un’immediatezza disarmante degna di un
neorealismo ancora da inventare. L’uomo in piedi a sinistra che assiste alla scena sembra pago, in quel momento, di aver salva la vita e della
sigaretta americana che gli è stata offerta. Le due donne velate di nero, si intravedono appena, la prima a sinistra e l’ultima a destra (nonna Carolina),
sembrano altrettante Marie della passione di Cristo uscite dal pennello di Giotto.
Nell’eterna lotta tra bene e male, nell’inferno della guerra, Capa, nei suoi servizi di guerra, ha voluto ancora sottolineare la parte migliore dell’uomo:
ai soldati che portano la morte ha anteposto soldati che aiutano a vivere, a curare un ferito, a liberare dall’oppressione.
Nonno Domenico morì 14 giorni dopo gli scatti di queste foto per lo scoppio di una mina. Robert Capa trovò la morte in Indocina dieci anni dopo
questi eventi (1954) passando con la jeep accidentalmente su una mina. Il destino di una bomba ha tristemente accomunato i due.
La fotografia del ferito fu scattata con tutta probabilità nella casa di Domenico Matteo alla Radicosa. Nonno è al centro e regge la gamba del ferito,
Michele Bucci. Ad una attenta analisi, ingrandendo la foto, si scorge, semicoperto dall’elmetto del soldato, il volto di nonna Carolina, moglie di
Domenico, ultima a destra.
Brevi note su Domenico Matteo (1878-1944)
Nonno Domenico Matteo era nato a Conca Casale il 14 agosto del 1878 da Gregorio e Maria Mascio.
Finito il servizio militare nel regio esercito si
spostò come emigrante in Russia e si stabilì a S. Pietroburgo. In quel tempo il fenomeno migratorio non faceva grandi distinzioni tra America o
Russia. C’erano le stesse possibilità di fortuna. Qui fece i più disparati mestieri: dai fiori di carta che rivendeva al mercato fino alle prime
fotografie. Dopo pochi anni fece una discreta fortuna insieme con Carolina Cascarino (1882-1966) di Viticuso che conobbe in un viaggio di ritorno in
Russia e divenne sua moglie. Insieme misero su un laboratorio per filati e finirono per specializzarsi nella confezione di indumenti di lana e pull-over.
Nel 1915 a S. Pietroburgo possedevano nove macchine che lavoravano a pieno ritmo.
Nel 1903 intanto era nato il primo ed unico figlio Gregorio (1903-1984)
che poté studiare con profitto fino al rimpatrio forzato, che avvenne dopo la rivoluzione d’ottobre del 1917, insieme con i genitori.
Carolina compì il viaggio di rimpatrio imbottita di rubli sotto le vesti. Ma ormai il rublo era diventato moneta chiusa e fuori dell’Unione Sovietica
valeva carta straccia. Cominciarono da capo la nuova vita in Italia tra Viticuso, Conca Casale, Cervaro e la Radicosa. Qui si stabilirono definitivamente
negli anni trenta. Nonno Domenico riprese la sua vecchia passione della fotografia e cominciò a guadagnar bene come fotografo con matrimoni,
prime comunioni, battesimi, nelle festività di piazza, alle fiere o alle sagre. Suo figlio Gregorio aveva studiato disegno e pittura ed aveva
raggiunto grandi qualità tecniche fin da giovanissimo. Sapeva preparare fondali scenografici per ogni occasione; le scene dipinte venivano
adoperate da nonno Domenico come sfondi per le sue fotografie. Questa attività procurò alla famigliola un piccolo benessere e ad ogni gruzzoletto
raggranellato corrispondeva l’acquisto di un pezzetto di terra, di un vano, di una casetta. Alla Radicosa possedevano, ancora in vita,
la "Terra roscia", la "Vall’chiana" e la "Cannavina", appezzamenti di terreno di pregio. I primi due furono venduti tra gli anni ‘60 e ‘90.
La "Cannavina", dove avevano casa e stalla per l’asino al n. 75, è tuttora di proprietà degli eredi. Della casa, un grosso vano con stalla a fianco e
capannone al di sopra, oggi non restano che le rovine a causa del terremoto. Davanti alla casa è tuttora integro un grosso pozzo “a bótte” con acqua
potabile. Nonno Domenico era famoso non tanto per le sue fotografie (l’archivio è andato completamente distrutto con la guerra) quanto per il suo
virtuosismo all’organetto abruzzese. Gli anziani mi riferivano che spesso si esibiva in un numero speciale riuscendo a suonare e a ballare
contemporaneamente. Infilava un piede al manico dello strumento che teneva con la destra e saltellava ritmicamente con l’altro piede prendendo
parte alla "ballarella" collettiva.
La seconda guerra mondiale fu fatale per i nonni. Infatti nonno Domenico morì alle 23,05 del 18 gennaio del 1944 (14 giorni dopo gli scatti delle
foto di Capa [1]). Una bomba lo dilaniò. I pochi resti del suo corpo furono
simbolicamente sepolti a metà della seconda "macera" (muretto di terrapieno a secco) della "Cannavina", contrassegnati da una pietra sporgente. Dopo la
guerra furono trasportati e posti nella tomba di famiglia nel cimitero di S. Vittore del Lazio. Ma per molti anni ancora nonna Carolina si soffermò
a pregare alla macera. La ricordo ancora - io ero piccolino – posare mestamente la mano su quella pietra sporgente.
Luigi Matteo [2]: figlio terzogenito (agosto 1944) di Gregorio (1903-1984) e Vincenzina (1915-1992), insieme con Maria (1939) e Domenico (1941)
Note
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