SAN PIETRO INFINE, 1943. EPISODI DI GUERRA STRAZIANTI
Tommasina Minchella colpita da una scheggia muore allattando il figlioletto Roberto (testimonianza della figlia Antonietta Meo).
Antonietta Meo [1], in merito ai suoi ricordi di guerra, riferisce [2]:
La grotta dove eravamo rifugiati esiste tutt’ora ed è chiamata “Grotta del Castellone”. La cavità ricade in un ampio appezzamento di terreno terrazzato, una volta ricolmo di olivi, che era di proprietà della famiglia Comparelli. Inoltre sia la grotta che il terreno si trovano nei pressi dello strapiombo posto nella parte bassa di Colle Sant’Eustachio, una propaggine di Monte Sambùcaro. La caverna è abbastanza profonda e presenta nella zona centrale, nella volta di copertura, una crepa molto ampia, provocata da un antico franamento della stessa cavità. Nell’autunno del 1943, io e la mia famiglia, ci rifugiammo lì, insieme ad altri sampietresi.
Tra i rifugiati, Antonietta Borrelli [3], ricorda che vi erano anche la suocera Giovanna Rizzi, madre di Gaetano Pagano, i fratelli Tommaso ed Olindo Comparelli, e le rispettive mogli, Irene Biello e Teresa Cifelli, nonché le nipoti di quest’ultima Dora ed Emilia Martellini, Antonio Barone, con la moglie Anna Verducci, e i loro figli, tra questi Giuseppe e Mario, la signora Luisa Troianelli, con i figli Achille e Gino Nucci, la famiglia Mastantuono, ed altri ancora. Antonietta Meo continua il suo racconto:
Ricordo che i più adulti crearono all’ingresso della grotta un piccolo muro con pietre semplicemente sovrapposte. L’intento era quello di creare uno sbarramento di
protezione “paraschegge” per noi che eravamo rifugiati all’interno. Il muretto non era molto alto per cui noi lo chiamavamo “parapetto”. Della mia famiglia eravamo in
cinque, io, che avevo circa nove anni, il mio fratellino Roberto [4], di circa due anni e mezzo, mia madre Tommasina Minchella [5], mio padre
Giuseppe Meo [6] e il mio fratellastro Costantino [7], nato dal primo matrimonio di mio padre con Antonia Fuoco.
Poiché nella grotta vi erano anche gli uomini che si nascondevano dal rastrellamento tedesco, alcune donne avevano organizzato una sorta di turno di sorveglianza, in
punti strategici nei pressi della grotta, così da preavvisare i rifugiati in caso di qualche sortita tedesca. Questi ultimi facevano del tutto per prelevare uomini da
portare a lavorare sulla loro linea difensiva. Una sera, all’imbrunire, i tedeschi arrivarono quasi di sorpresa, per cui gli uomini che si trovarono all’interno della
grotta ebbero poco tempo per scappare. I tedeschi buttarono giù una porzione del muretto paraschegge ed entrarono nella grotta con alcune torce luminose. Alcuni degli
uomini rifugiati riuscirono a scappare attraverso la crepa del soffitto della grotta, tra questi vi era mio padre Giuseppe Meo, altri, invece furono presi dai tedeschi
e portati via, tra questi vi era anche il medico Giuseppe Comparelli.
Si seppe poi che i tedeschi quella volta cercavano uomini per farsi aiutare a spostare un loro cannone in località “Cavallone”, nei pressi della località “Le Torri”, quasi al confine con San Vittore del Lazio [8]. Tra gli uomini che non furono portati via, nonostante non avessero fatto in tempo a scappare dalla buca del soffitto, ci furono Giuseppe Barone e Olindo Comparelli. Le loro donne, infatti, ebbero la scaltrezza di farli stendere a terra e di sedersi sopra di loro, così da nasconderli con le loro vesti.
La stessa scaltrezza la ebbe Luisa Troianelli [9], che coprì i suoi due figli, abbastanza grandi, Achille e Gino Nucci, con una coperta [10]. Gli uomini intanto quella notte non fecero ritorno alla grotta perché temevano in una ulteriore ispezione dei tedeschi. Purtroppo quella sera, il movimento che si ebbe in quella zona e la luce prodotta dalle torce dei tedeschi, calamitarono l’attenzione delle vedette degli Alleati appostate sui monti limitrofi.
Verso le quattro di mattina, mentre tutti noi dormivamo, una tremenda esplosione invase la grotta. Tutto tremò nella cavità e noi tutti fummo colpiti dallo spostamento
d’aria e dalle schegge. Ricordo che nonostante avessi gli occhi chiusi e stessi dormendo, in pochi secondi, percepii un forte bagliore luminoso, come una fiammata, e poi
tutto fu di nuovo buio. Nella grotta sentivo strilla, urla di dolore, il mio respiro era affaticato a causa dei residui della polvere da sparo e della terra saltata
in aria. Fino a quel giorno le cannonate Alleate venivano esplose solo durante il giorno, quella volta, invece, la cannonata fu sparata di notte. Il proiettile scoppiò
su quella parte di parapetto in pietra che era rimasto in piedi dopo il sopralluogo tedesco. La nuvola di schegge entrò nella grotta ferendo tantissimi rifugiati.
Anche io riportai una ferita sulla fronte e tante piccole ferite alle gambe, ma rispetto a quello che capitò ad altri era cosa di poco conto, perché mia madre, nel
posizionarci a dormire, aveva fatto in modo che il suo corpo fungesse da scudo per me e per il piccolo Roberto. Nel rifugio tutti noi dormivamo a terra, soltanto i più
fortunati avevano posto a terra delle sporte di stramma o qualche coperta, o anche un po’ di paglia, così da essere isolati dall’umidità del terreno. E pensare che avevo
chiesto poco prima a mia madre se potevo dormire al posto dove si era distesa lei. Ma ella non volle, quasi prevedesse l’atroce destino.
Mia madre, purtroppo, fu colpita da una scheggia abbastanza grande che le maciullò una gamba e le recise anche l'arteria femorale, per cui cominciò a perdere molto
sangue. Nessuno sapeva cosa fare, anche perché vi fu panico nella grotta. Anche altri avevano riportato ferite dalle schegge. Dopo circa un quarto d’ora mia madre,
sentendosi venire meno dalle forze, prevedendo la sua fine, chiese alle altre donne del rifugio di badare ai suoi figli. Poi, per calmare il piccolo Roberto che
piangeva disperatamente, chiese ad una donna che le porgesse suo figlio accanto a lei. Quando lo prese lo baciò, lo accarezzò e lo attaccò al seno. E così, mentre il
figlio succhiava il suo latte lei esalò l’ultimo respiro.
Il bambino continuò a succhiare il latte della madre, e questa volle fino in fondo assolvere al suo compito. La sua vita era giunta alla fine per cui voleva
trasferire al figlio le sue ultime energie, come per non morire del tutto ma di continuare a vivere nel figlio stesso.
Tommasina non fu l’unica a morire quel giorno. Dopo poche ore morì dissanguata anche Anna Verducci, moglie di Antonio Barone, mentre qualche giorno dopo, a seguito delle
ferite agli occhi morì anche Antonia Mastantuono, nota anche con il nome di “Culumbrina”. I feriti furono tanti, tra questi Antonietta Borrelli riportò una ferita alla
mano, Mario Barone una ferita alla gamba, Olindo Comparelli una ferita allo stomaco [11].
Antonietta Meo continua:
Appena fece giorno tornò alla grotta anche mio padre Giuseppe, che era stato avvisato dal mio fratellastro Costantino. Mio padre non sapeva cosa fare, ora i suoi due
figli piccoli erano rimasti da soli. Si fece aiutare da Costantino e da altre persone a scavare una fossa nel terreno posto all’esterno della grotta, avvolse il corpo
esanime di mia madre in una coperta e lo depose nella fossa. Poi prese un sacchetto contenente fichi secchi, chiese alle donne di badare a noi due figli, ci baciò e
andò via insieme a Costantino. Temevano di essere presi dai tedeschi.
E così noi due bambini rimanemmo da soli. Io mi presi molta cura di Roberto, lo accarezzavo, lo baciavo, gli parlavo teneramente, cercavo insomma di rassicuralo. Dopo
poche ore passò davanti la grotta Luigi Fuoco, sposato con Caterina Carciero, padre di Maria Fuoco. Questi vedendo noi due bambini rimasti da soli ci prese con sé e ci
portò nella grotta dove erano rifugiati loro, sempre sulla montagna. In quella grotta Caterina Carciero mi medicò le ferite. Strappò delle bende da un lenzuolo e fece
continui impacchi con acqua e sale, poi fasciò il tutto, sempre con le stesse bende.
Qualcuno poi andò ad avvisare mia nonna Angelina De Cubellis [12], che si trovava rifugiata, con la figlia Ida, al palazzo Masia. Il palazzo conteneva
anche una grotta scavata nel terreno. Le dissero, però, solo che la figlia Tommasina era stata ferita, nessuno ebbe il coraggio di dirle che era morta. Ma Angelina
capì. Chiese allora la cortesia ad un uomo del paese se poteva venire a prenderci, ma questi le disse che non poteva perché temeva di essere preso dai tedeschi.
Poi lo chiese a Domenico Barone, figlio di Antonio Barone. Questi le disse che sarebbe andato con tutto il cuore ma non poteva perché era scalzo. Allora Angelina si
tolse le scarpe, che erano da uomo, recuperate chissà dove, e le dette a Domenico Barone. Questi le mise e quindi venne a prenderci.
Quando Domenico passò davanti il rifugio di Luigi Fuoco questi, che aveva capito il suo compito, lo chiamò e gli disse che io e il piccolo Roberto eravamo con loro.
Domenico ci prese con sé e ci portò da mia nonna e mia zia al palazzo Masia. Al palazzo non trovammo don Giustino, ma solo l’anziano e malato Don Aristide Masia. Dopo
tre o quattro giorni fummo prelevati dai tedeschi per essere sfollati verso il Nord Italia. Ricordo che mia zia Ida Minchella, che aveva con sé le sue due figliolette
Esterina di quattro anni e Teresa di soli due anni, si prese molta cura anche di me e di mio fratello Roberto.
Ci radunarono tutti nelle grotte di Via San Nicola, ricordo che prelevarono anche Don Aristide, ma questi non riusciva a camminare perché era debilitato e senza forze,
per cui i tedeschi lo misero su una sedia e lo portarono via. Non si è mai saputo dove l’avessero portato e che fine avesse fatto.
I tedeschi ci dissero “Cinque minuti Cassino-Roma”. Volevano farci capire che al più presto saremmo stati sfollati. Poi ci fecero capire che chi aveva i figli piccoli
poteva salire insieme a questi sui camion, gli altri dovevano avviarsi a piedi.
Sul camion salii io, il mio fratellino Roberto, mia nonna Angelina De Cubellis, mia zia Ida Minchella e le sue due figliolette, Esterina e Teresa.
Il camion ci portò fino a Roma, passando per Cassino, Piedimonte San Germano, Zagarolo e Fuggi. A Fiuggi ci fermammo una notte, poi il giorno seguente proseguimmo per
Roma, e da qui, ci fecero salire su un treno che trasportava anche bestiame e ci portarono nel Nord Italia. Sul treno dormivamo sul pavimento, eravamo ammassati come
animali in uno stretto recinto. Mangiavamo ogni tanto dei fichi secchi che mia nonna aveva recuperato prima di partire da San Pietro. L’igiene era pessima, si faceva
la pipì sul treno stesso, perché non ci permettevano di scendere.
Il treno si fermò a Treviso. Qui ricordo che il treno aveva qualche guasto meccanico per cui non poteva continuare oltre. E meno male, perché, sempre a Treviso, vidi
partire su un altro binario un treno che deportava civili in Germania.
Poi ci trasferirono in un altro treno e ci portarono a Vicenza, in un edificio scolastico molto grande. Con noi vi era anche Angelina Martellina e Giovanna Rizzi, che,
purtroppo, in quel periodo che stemmo sfollati al Nord morirono per problemi vari.
A Vicenza ci divisero, un gruppo andò a Valdagno, l’altro gruppo a La Piana, in provincia di Vicenza.
A Valdagno ci affidarono ad una famiglia, ma per mangiare ricordo che andavamo elemosinando. Io presi in braccio mio fratello Roberto. Scalza e vestita di stracci,
andavo bussando alle porte delle case dicendo: “Siamo profughi di Cassino, fateci la carità”, e devo dire che quella gente ci ha sempre accolto bene, sensibilizzata da
quello che avevamo passato e dalle condizioni in cui ci mostravamo.
Poi un giorno il sindaco Gaetano Marzotto seppe che mia madre era morta per una cannonata e che di mio padre non si sapeva niente, allora disse che noi dovevamo essere
dichiarati orfani di guerra. Allora sia me che Esterina, mia cugina, fummo affidate ad un Collegio di suore. Ricordo che in collegio si stava bene ma io cercavo sempre
di scappare perché volevo andare da mia nonna Angelina.
Nel collegio dormivamo in camerate che ospitavano una ventina di letti. Ci fornirono anche il grembiule e le scarpe.
Passata la guerra ritornammo a San Pietro e lo trovammo tutto distrutto. I civili rimasti avevano lasciato le grotte e avevano trovato sistemazione in
campagna o nei vani rimasti in piedi del paese vecchio. Altri avevano costruito delle baracche con le lamiere ricavate tagliando le cassette metalliche porta munizioni
degli Alleati.
Quando tornammo mio padre ci prese di nuovo con sé e andammo ad abitare da Brigida Meo al Cerro. Ricordo che chiedevo sempre a mio padre di andare a spostare il corpo di
mia madre da dove era seppellita al cimitero, ma lui ritardava sempre l’operazione. Poi, una notte, sognai mia madre che mi chiedeva che venisse spostata da lì.
Riferii il sogno a mio padre e allora questi si decise. Quando andarono a disseppellirla io non ebbi il coraggio di andare. Mi dissero che erano rimaste solo le
ossa. Le presero le misero in una cassetta metallica di guerra e portarono il tutto al cimitero. Poi quando fecero le case popolari al nuovo paese me ne andai ad
abitare all’ultima palazzina di Via Dante Alighieri. Nel 1950 conobbi Antonio Acciaioli [13] e ci innamorammo. Nel 1953 convolammo a nozze, dalla nostra
unione sono nati Roberto ed Italo.
Note
Nel caso in cui il testo derivi sempicemente dall'esposizione, con o senza traduzione, di documenti/memorie al solo fine di una migliore e più completa fruizione, la definizione Autore si leggerà A cura di.