RICORDI DI GUERRA
Ero di vedetta, la mattina dell’8/12/43, dalle 2 o 3 del mattino, all’inizio del boschetto. La mattina all’alba, dopo un fuoco d’artiglieria che mi consentiva di leggere l’ultima lettera dei miei, sentii la Compagnia che attraversava il bosco e qualcuno venne ad avvertirmi che era l’ora dell’attacco. Lasciai la buca della postazione e andai avanti insieme agli altri, e ritrovai la mia squadra. I sibili dei proiettili si avvertivano frequenti ma tutto andò bene, e non vidi feriti. Vidi Fimiani che andava ficcando la testa sotto le piante e sembrava impazzito.
Ritrovai Ferrando Sandro col mitragliatore e vidi anche Massa e Bornaghi per l’ultima volta. Raggiungemmo il fossetto, al limite del bosco, ed eravamo tutti fermi indecisi. Arrivò poi il Cap. Visco che ci ordinò di andare avanti, incitandoci più volte all’attacco. Io allora saltai il fosso ed aiutai Sandro a fare altrettanto, che era in difficoltà per il peso del mitragliatore, ma gliela fece e mi seguì.
Superai i reticolati attraverso il varco, proseguii di corsa in avanti e mi diressi verso i piedi del rilevato della ferrovia, che lo vidi con qualche arbusto ed erba più alta che poteva essere utile per ripararsi e non esser visti. Sandro mi seguiva, ma non vidi venire gli altri. Forse erano rimasti prima del fosso o dentro. Anche il Ten. Andrei rimase lì. Evidentemente eravamo io e Sandro quelli che Massa definisce una mandria di bufali, perché io non vidi altri.
Dopo un balzo di 30-40 metri mi misi in ginocchio, Sandro mise vicino a me il mitragliatore e si sdraiò dietro l’arma, pronto a sparare. Intanto la mitraglia sparava in continuazione e i sibili dei proiettili mi fischiavano attorno, senza però colpirmi. Provai a caricare il mitragliatore ed avevo già messo il caricatore nell’arma, quando un proiettile lo colpì e lo schiacciò a metà senza ferirmi la mano. Non fu più possibile mandarlo né avanti né indietro, così l’arma era fuori uso. Il fuoco aumentava d’intensità ed erano molte le armi che sparavano. Ero sempre in ginocchio, su una gamba, e quindi riuscii a vedere a una trentina di metri avanti, un po' sulla destra, una buca fatta da un proiettile di grosso calibro, che poteva essere un buon riparo, e dissi a Sandro di andarci, visto che il mitragliatore era fuori uso, ma lui non volle muoversi.
Allora decisi di andarci io. Lasciai la cassetta delle munizioni di fronte a Sandro, a mo di riparo, lo salutai, per l’ultima volta, e feci un rapido balzo in avanti fino alla buca. I sibili erano continui, ma io ero ancora illeso.
Arrivai nella buca con rapidità, ma mi accorsi subito che il fuoco aumentò, e la cosa era seria perché notai sul bordo del rilevato della buca stessa, sulla parte esterna, pennacchi di terra mossa dai proiettili in arrivo che producevano polvere e spostamento di terra. Capii e fui costretto a ripararmi meglio entro la buca. Rimaneva fuori solo la punta del moschetto, ma non appena la muovevo aumentavano i colpi e i sibili, accompagnati dal lancio di bombe a mano, che per fortuna mi cadevano alle spalle a una certa distanza. Mi accorsi che tra me e i Tedeschi c’era solo un siepone, che avevo a circa 7 o 8 metri, e a volte mi sembrava di vederli tra i rami. Tentai di alzare la testa per poter sparare, ma il fuoco riprese violento e anche il lancio di bombe a mano.
Il fuoco di mitraglia e mitraglietta era molto intenso, ma io non vidi alcuno dei nostri, anche se i movimenti consentitemi erano piuttosto limitati. Potevo però guardare dietro e a sinistra, ove avevo lasciato Sandro, ma non vidi alcuno. Penso che procedessero gattonando, per questo non li vidi. Riuscii però a vedere, attraverso il siepone, la sagoma di un Tedesco che in piedi, all’altezza del piede della scarpata della ferrovia, sparava in direzione delle nostre linee e del ponte rotto.
I colpi che partivano dalle nostre linee mi sembravano provenire dal fosso dal quale eravamo partiti. Ciò mi preoccupò e cominciai a guardarmi meglio attorno, ritenendo di essermi spinto troppo in avanti. Mi accorsi anche di avere la gamba destra sporca di sangue, ma non riuscii a capire il perché. In seguito, in ospedale, vidi che una scheggia di bomba a mano mi aveva attraversato la coscia da parte a parte senza che me ne accorgessi.
Passò molto tempo, ma non sono mai stato in grado di valutare quanto. Intanto il fuoco diminuiva fin quasi a cessare. Cominciai sul serio a preoccuparmi. Il timore di esser preso prigioniero mi assillava. Cominciai a pensare come fare per tornare indietro. Decisi di profittare della quiete sopraggiunta, i colpi erano radi ed il mitra Tedesco taceva, mi alzai di scatto, presi il fucile e cominciai a correre in direzione del punto ove avevo lasciato Sandro. Arrivai al piede della scarpata della ferrovia, mi voltai verso il fronte Tedesco e mi gettai a terra.
Nello
stesso istante in cui toccai terra mi arrivò una scarica dalle nostre linee che
mi costrinse a mordermi le mani, le braccia e tutto ciò che avevo a portata di
bocca, per vari minuti. Alla fine non sentii più nulla, neanche le gambe. Non
avevo più il controllo dal bacino in giù. Mi resi anche conto che ero
circondato dai Tedeschi e tentai di rientrare nelle nostre linee. Dovevo trascinarmi
con le braccia, prendendo erba e arbusti con le mani, trascinando così tutto il
corpo.
Feci un semicerchio e mi diressi verso il fossetto da cui ero partito il mattino. Arrivai ai reticolati e tentai di passargli sotto, ma un dente mi prese la giacca e non riuscii a liberarmi. Feci un grande sforzo per sfilarmi la giacca, lasciarla tra i ferri e proseguire, ma non avevo più forze. Arrivai al fosso e vi entrai dentro. Un po' più a valle di me, entro il fosso, c’era un morto che non riconobbi. Più a monte, vicino a me, c’era un sergente dei bersaglieri del 4° ferito, che si lamentava e si trascinava. Intorno altri 3 o 4 morti. Tentai di risalire la scarpata per andare verso la buca ove ero stato di vedetta al mattino e ritrovare le nostre linee, ma non gliela feci. Tentai e ritentai, niente. Provai e riprovai ma mi resi conto di non potergliela fare più. Mi fermai e sciolsi il gambale per vedere la ferita: lo trovai tutto pieno di sangue e pezzi di carne e osso che non toccai. Richiusi il gambale e tentai ancora di risalire la scarpata. Non gliela feci e mi resi conto che per me era finita.
Mi avvicinai ai morti e dagli zainetti presi zollette di zucchero e ne mangiai tante, e da una borraccia bevvi tanta acqua. Mangiato e bevuto mi preparai il letto di morte e poiché entro il fossetto scorreva acqua, presi una tenda impermeabile e la misi sotto per non bagnarmi, sopra posi una mantellina e mi ci adagiai, coprendomi con un’altra. Lì, ormai privo di forze e dissanguato, guardai alla vita passata e pregai, se c’era un Dio, di assistere mamma che, già malata, non avrebbe retto al dolore. Il vecchio maresciallo, mio padre, avrebbe retto. Poi non capii più nulla. Dovevano essere passate 2 o 3 ore da quando eravamo andati all’attacco e dovevano essere quindi circa le 10 quando svenni. Non so quando ma ricordo di aver sentito scoppi di granate attorno a me e fischi di schegge. Pensai ai tiri di sbarramento. Non ricordo altro. Arrivai così al tramonto, avvertii un po' di fresco e soprattutto, mi accorsi di essere ancora vivo. Abbandonai subito il letto e attaccai la scarpata del fosso che non ero riuscito a superare al mattino: gliela feci subito e di corsa, trascinandomi, andai entro il boschetto.
C’era più erba, quindi avevo più appigli e andavo veloce. Proseguivo dentro il bosco quando vidi un Tedesco sulla mia destra, ai piedi della scarpata della ferrovia, che mi vide, fece un movimento col mitra puntandolo verso di me, ma non sparò. Rimase immobile mentre io, con maggior lena, proseguii. Arrivai al margine superiore della scarpata del Peccia, vidi il Solothurn nell’acqua e l’argine dove passò la notte la II e cominciai a chiedere aiuto. Mi risposero dopo un po', vollero accertarsi di me e poi mi assicurarono che sarebbero venuti con una barella. Io tentai di avvicinarmi a loro tirandomi giù dalla scarpata. Arrivarono i miei soccorritori, erano due allievi ufficiali dei granatieri, che stavano a Gioia del Colle a proseguire il corso, come noi, ma erano stati disarmati dai Tedeschi.
Mi meravigliai, chiesi notizie dei bersaglieri del 51°, ma non seppero darmele. Non chiesi il loro nome e non li ho più visti, nonostante tante ricerche. In barella mi portarono al posto di medicazione ove il medico mi fece un po' di iniezioni e mi spedì all’ospedaletto da campo, presso il comando. Lì trovai vari altri feriti su lettini a terra che mi conoscevano e mi salutarono, ma io non ricordo i loro nomi. Ero ridotto male. Mi finirono di spogliare, avevo solo scarpe, calzoni e canottiera rossa di sangue fino al collo, mi prepararono un bicchiere di cognac per stordirmi e con una scovolina, simile a quella usata per pulire la canna del moschetto, l’infilavano nella ferita e la tiravano su e giù mentre io urlavo e finii esausto.
Mi spedirono subito in autoambulanza all’ospedale di Maddaloni ove arrivai a notte inoltrata o dopo la mezzanotte. Mi misero in un padiglione di legno, all’ultimo letto in fondo a sinistra e lì rimasi fino al 24/5/44 e poi inviato al convalescenziario di Pagani, vicino Nocera Inferiore.
Il giorno successivo mi portarono in sala operatoria per l’amputazione della gamba, che era andata in cancrena ed era maleodorante. Il chirurgo, un anziano colonnello del napoletano, aveva con lui il figlio della mia età ma studente di medicina con cui iniziai a parlare, mentre preparavano i ferri per l’intervento. Ho sempre pensato che debbo a tali discorsi, sentiti dal padre, il cambiamento di programma quando mi disse che, prima di amputare, voleva tentare un intervento di asportazione totale del muscolo per salvare la gamba e che, se necessario, avrebbe amputato il giorno successivo. Questo rinvio si ripetè per oltre un mese, prima di essere dichiarato fuori pericolo. Superai la cancrena con tale intervento e con le prime pasticche di sulfamidici, che ci dettero gli Americani.
Per rispondere ad una richiesta dico subito che l’ospedale aveva sussistenza Americana, e quindi medicinali e viveri a sufficienza. Nel complesso si stava bene, bisognava solo imparare subito a difendersi dalle cimici che piovevano sopra di noi dal soffitto, la notte.
Nel padiglione c’erano Marzocchi, Perrotta, Barletta proprio accanto a me, Dalla Valle col petto trapassato da un proiettile in un letto di fronte a me e molti del 67°. Eravamo una trentina. All’ospedale seguì il convalescenziario a Pagani, con sussistenza Italiana, e lì conobbi la fame vera. Durò poco, perché nel Luglio del 1944 ero a casa.
Enrico Farinosi
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