Ritorno a Marostica
L’ordine di trasferimento a Marostica mi colse di sorpresa e d’un balzo mi si riempì l’animo di tanti ricordi e figure care, e mi riapparve subito la
piazza d’armi gremita di instancabili ragazzi-acrobati e le sudatissime Val Cornosega e Cima Grappa che più volte alla settimana raggiungevamo,
incredibilmente carichi di armi, a cavallo di biciclettine inamidate tant’erano rigide.
Rivissi le esplosioni della camerata al mattino, coi suoi cento e più scalmanati ospiti, ognuno con una personale reazione allo squillo di tromba
della sveglia e l’immediato conseguente mulinello del frenetico saliscendi per le scale, verso i lavatoi e i cessi.
Mi rividi le sale-studio con le innumerevoli conferenze e ricordai la singolare arte di pulire le armi con la preziosa carta di giornale, quindi mi
riapparvero le affollate celle di punizione e la camerata di sera, quando la romantica e melanconica tromba del silenzio altro non significava che
l’ora della barzelletta e l’apertura della gara delle scorregge, l’inizio delle risate insomma, che il più delle volte (per punizione) ci conducevano
mestamente al campo sportivo a riempire la pista di innumerevoli giri di corsa.
Ricordai gli amicissimi, i più leali compagni d’arme col biondo Vittorio Rebeschini, gigante buono, i gemelli Novelli che mi dannavano
con la loro somiglianza, il Nino Schettini sempre caro e affettuoso, Ridolfi e Biasibetti Olindo, Zucchi e Stortoni
e le cadute dalla bicicletta di Nunzio Stabile.
Mi riapparve il doloroso stupore di Federico Marzocchi e i suoi occhi ansiosi di una mattina all’ospedale da campo di Maddaloni, in un letto di
fronte al mio, quando al risveglio egli cercava il braccio amputatogli a sua incoscienza. E tanti altri mi sfrecciarono davanti, ma su tutti la belva e
la peste del Capitano Castelli rivelatosi il papà Enea del momento, all’atto della tragedia dell’8 settembre.
Quando altri in cui maggiormente si fidava volsero le spalle, balzò fuori lui, prepotente, grande e burbero papà Enea a sovrastare tutti con la sua
generosità e l’ineguagliabile umanità, la chiarezza cristallina della sua mente; il terrore del corso, prima, l’unica ancora di salvezza, poi, al
momento giusto, da perfetto tempista. A lui ci abbandonammo tutti noi ragazzi annichiliti dagli avvenimenti, dalla tragicità dell’ora e fu lui a
venirci incontro, a raccoglierci e rincuorarci, a conferma che c’è sempre nei momenti più cruciali una mano che si stende.
Non potevo non essere felice di tornare a Marostica
.il pensiero rivolto agli amici caduti sulla pietraia di Montelungo, davanti a Cassino., l’8 dicembre
ad ogni passo risonavano sventagliate di mitragliatrici, mi uccidevano gli amici più cari .
Eccolo il Peccia, torrentello trasformato in fiume in piena, bisognava guadarlo con l’acqua che arrivava al mento e trascinava via, in una tragica
mattina piovosa del dicembre 1943, giorno della Madonna Immacolata, in ora antelucana.
Su presto, non bisognava farsi avvistare, nel soprastante boschetto si sarebbe stati al sicuro, e via a combattere la corrente gelida con le armi sopra
le teste, sferzate dalla pioggia, in direzione del bosco oltre il quale, nascosto nella nebbia, si sapeva esserci Montelungo, la cima da espugnare per
farci strada verso Cassino.
Nel boschetto il riparo, la sicurezza, c’era stato detto, ma lo si era appena guadagnato e fu nel canalone affianco che l’inferno esplose, seminando
carneficina e orrore; ci sparavano dagli anfratti di roccia, dai cespugli e dagli alberi, davanti e dietro, d’infilata, la nebbia fluttuante ci
consentiva di intravedere il nemico a pochi passi, prenderci di mira e mitragliarci, scagliare bombe a mano.
Addio organizzazione, addio squadre e plotoni e la tanto studiata strategia; povera 2ª compagnia. Ognuno si difendeva come poteva e moriva come poteva,
scorsi Biasibetti in una buca che si affannava a voler far funzionare la radio crivellata e Rebeschini ad adoprarsi con un mitragliatore;
dal mio posto io sparai e sparai finché rimasto privo di munizioni non le chiesi a Biancofiore che se ne stava buono buono, un po’ più giù, senza
rispondere, corsi a scrollarlo ma era morto, e Nino con un triste scuotere di capo me lo confermò, mi girai per chiedere a Focaccia, ma lui
continuava a fissarmi stranamente, con un fiotto di sangue dalla bocca sin troppo significativo; non capivo più nulla e non mi importava più di nulla,
avevo solo bisogno di munizioni e nessuno me le porgeva, scavalcai allora la ferrovia inciampando nel corpo caduto di Buonaccorsi e dovetti
buttarmi addosso a Sibilia, che se ne stava dritto in piedi, incurante, ma si rialzò di scatto ridendo follemente e spalmandosi, come per gioco,
di manciate di fango sul viso, e rise, rise, l’infelice fino all’abbattimento, urlai invocando Ursino amico e compagno di squadra, ma
Rebeschini, che aveva a sua volta terminato di sparare, gridò che era morto anche lui.
Ci guardammo attorno, i pochi superstiti, con smarrimento, sorprendendoci circondati da corpi esanimi e dilaniati, tra serpentelli d’acqua arrossata
che ci scorrevano a fianco e di sotto, annientati da un raccapriccio di urla e gemiti misti a raffiche, a scoppi imperversanti dovunque e flagellati
dall’alto da ininterrotta pioggia di schegge, acqua e terriccio. Vidi Tambalo morire, e poi Luraschi, quindi Carbone cadere, e
poi Sibilia spegnersi ridendo, Tarli accasciarsi, con le mani a stringersi convulsamente il petto e Ianni agitare faticosamente
un braccio fuori dal fango che lo ricopriva tutto.
Rimanevo supino, a terra, incapace - o terrorizzato? - di muovermi, col capo schiacciato nel fango e gli occhi spalancati al cielo basso e cupo, con
improvvisa, immensa quiete dentro, non vedevo, perché? Era nebbia, fango o pioggia? O ero morto anch’io? Una sensazione straordinaria quella di non
esserci più, e mi figurai la morte così, un nulla, una continuazione, un semplice approdo all’altra riva raggiunta con sollievo, dopo le angosce della
traversata, per guardare quindi indietro a considerare, con benevola pietà, le vissute miserie.
E mi dissi che, forse, la morte non esiste e tra poco avrei rivisto gli amici, in altri luoghi e in altre vesti, ma ci saremmo ritrovati, non potendo
essere morti, annullati e perchè mai? Altrimenti perché nascere ed esistere, per finirla così? Cos’erano i nostri vent’anni al cospetto dell’eternità?
Cosa si era fatto e dato all’umanità?
Un urlo vicinissimo e lacerante mi scosse e balzai su, dimentico di tutto, ansioso solo di soccorrere, ma ricaddi sentendo fitte lancinanti ovunque e
rattrappendomi nelle mie ferite.
Seppi poi di essere rimasto lì a lungo e trascinato fuori dalla furia umana di Rebeschini e Zucchi, che però sempre si schermirono.
Eccoli tutti lì, a portata, all’ingresso di Marostica, gli amici più cari, coloro che immersi nel sonno più bello non soffrono più; mi attendevano in
silenzioso etereo gruppo pel bentornato e si facevano incontro con le braccia aperte e i sorrisi mesti, i vestiti e le carni a brandelli, le anime
migliori, cui non si concesse di trattenersi tra noi.
Onelio Supplizi
LI° Battaglione Bersaglieri A.U.C. *Montelungo*
seconda compagnia
8 dicembre 1943 – fronte di Cassino
Nel caso in cui il testo derivi sempicemente dall'esposizione, con o senza traduzione, di documenti/memorie al solo fine di una migliore e più completa fruizione, la definizione Autore si leggerà A cura di.
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