8 DICEMBRE 1943 - IL MIO GIORNO PIU' LUNGO
Osvaldo Brandigi racconta.
Prima dell’attacco
Era da poco iniziato l’8 dicembre che fui chiamato per il mio turno di vedetta nel posto, sul lato sinistro del nostro schieramento, verso la ferrovia:
era il secondo turno della giornata, dalla 2 alle 4, e non ricordo chi sostituii.
La notte era buia e fredda con pioggia persistente a tratti scrosciante, il posto di vedetta era sopraelevato rispetto alle trincee e completamente
allo scoperto, nessuno spazio per muoversi, niente ripari. Stava per scatenarsi un micidiale duello di artiglieria, una cosa infernale. Il tempo
trascorreva lento e mi sembrava che non dovesse più finire il mio turno. Infatti si protrasse di oltre due ore, perciò non ricevetti il cambio,
ma c’era una spiegazione: il reparto si stava predisponendo all’offensiva ed io non lo sapevo. Fui rilevato quasi all’alba. Ebbi appena il tempo di
togliermi il cappotto, arrotolarlo, prendere il tascapane, ricevere una zappetta e viveri a secco e ritrovarmi con gli altri incamminato verso la base
di partenza per l’attacco.
Nella terra di nessuno
Nella fase di avvicinamento procedevo coi primi, facendo parte del 1° plotone della 2ª compagnia. Ci attestammo, in un primo tempo, sotto il costone
della ferrovia in attesa dell’ordine di attacco alle trincee tedesche dislocate al di là della linea ferroviaria: questo era l’obiettivo del nostro
plotone. Intanto il combattimento aveva avuto inizio e le armi automatiche erano entrate in azione provocando i primi danni; vidi accasciarsi ferito e
morente
Biancofiore che sommessamente cantava una nostra canzone.
Nella radura, al di sopra del canalone, era ormai divampata furiosa la battaglia, non esisteva più palmo di terreno che non fosse battuto dal
fuoco delle armi automatiche e dai colpi di mortaio. A causa della nebbia, la visibilità era scarsa, ma si distingueva bene il nastro sottile e
luminoso dei traccianti e sinistro suonava il sibilo dei proiettili.
Improvvisamente, anche noi fucilieri del 1° plotone ricevemmo l’ordine di gettarci nella radura in rinforzo di coloro che ci avevano preceduto
nell’assalto e che avevano subito gravissime perdite: difficile raggiungere l’obiettivo, quasi impossibile uscire incolumi da quell’inferno. Avevo
visto il coraggioso esempio del tenente Scamuzzi che avanzava in piedi incitando i suoi a seguirlo: lo vidi a un tratto ripiegarsi su se stesso e
cadere e notai che uno dei suoi tentava di trascinarlo indietro. Noi intanto a seguito dell’ordine ricevuto, ci precipitammo con impeto contro le
posizioni del nemico procedendo a balzi brevi e rapidi per evitare di essere colpiti data l’intensità del fuoco avversario. Ad un tratto avvertii
un forte dolore alla gamba destra e caddi bocconi rimanendo disteso e immobile sul prato con l’impressione che la gamba mi fosse stata recisa di
netto; sentivo il calore del sangue che usciva a fiotti. Ero stato colpito da quella maledetta mitragliatrice che sparava dalle falde laterali di
Montelungo e che stava decimando le nostre forze. Non persi i sensi, ma ebbi un periodo di appannamento prima di riprendere coscienza: non
riuscivo a né a muovermi né a girarmi e rimasi esposto al tiro di quell’arma per qualche tempo.
I proiettili continuavano a danzarmi attorno; vedevo la scia dei traccianti passare al di sopra del mio corpo per infilarsi nel costone, ma
fortunatamente non fui più colpito.
Intanto la nebbia cominciava a diradare. Da ferito, volgendo la testa indietro, potei osservare uno scorcio del campo di battaglia: notai che
l’intero gruppo di una nostra mitragliatrice, audacemente sistemata allo scoperto in piena radura, era stata annientata e tanti cari amici erano
distesi e immobili a fianco e dietro la loro arma che ormai taceva.
Continuava intenso il crepitio delle mitragliatrici, ma la battaglia diventava via via meno vivace, si stava passando ad un’altra fase perché
esaurito l’impeto del nostro attacco, anche i tedeschi avevano rallentato il fuoco.
Ero ancora disteso in posizione bocconi e tentavo inutilmente di muovermi: il sangue continuava a sgorgare copioso e tentavo inutilmente di
fermarlo: il sangue continuava a scorrere rapido e i tentativi di movimento mi facevano sentire nuovo calore alla gamba. Riuscii comunque a
liberarmi dal rotolo del cappotto e del tascapane, mi tolsi anche l’elmetto che pesava, ma lo rimisi poco dopo per l’arrivo di una serie micidiale
di colpi di artiglieria con schegge che volavano da ogni parte: era il fuoco di sbarramento della nostra artiglieria che batteva il terreno
antistante le linee nemiche per evitare un contrattacco. Anche se in quel momento ero assolutamente convinto di morire e sarei stato contento di
affrettare i tempi, ebbi timore di essere colpito alla testa, poi anche questo pericolo cessò: il contrattacco non ci fu e la battaglia si placò.
Quanti gemiti e imprecazioni nella terra di nessuno!
Anche dalle trincee nemiche giungevano lamenti. I soccorsi in un terreno così scoperto ed esposto e con tanti feriti da prender su erano
impensabili e impossibili: brutti momenti!
Mi venivano in mente i racconti di mio padre che durante la prima guerra mondiale fu per lungo tempo sui fronti del Carso, del S.Michele e di
Gorizia. Ricordava i lamenti strazianti dei feriti che rimanevano senza soccorso al di là dei reticolati durante i frequenti e ripetuti assalti.
La fine di quei soldati mi aveva molto impressionato da ragazzo e ora stavo vivendo in prima persona le stesse vicende. Come allora, come sempre,
anche qui gemiti, invocazioni d’aiuto
. mamma, . mamma, non voglio morire - implorazioni di soccorso
.portaferiti venite a prenderci . imprecazioni, maledizioni e preghiere si confondevano e indicavano un
aspetto crudo e dolente della lotta per la vita.
Convinto che per me tutto sarebbe finito presto, pensavo ad una morte per dissanguamento ed attendevo la fine con rassegnazione. Ero triste, ma
non disperato, forse il mio subcosciente avvertiva che sarei riuscito a farcela. Provai a pregare, ma senza fervore.
Tanti pensieri correvano per la mia mente, pensavo teneramente ai miei genitori, ai miei numerosi fratelli, di me tutti più giovani, e in
particolare a Marco, ultimo arrivato, che ancora non conoscevo perché nato da poco più di quattro mesi. Angoscioso invece il distacco dalla mia
ragazza che tanto amavo e con la quale avevo sognato un avvenire felice e fatto tanti progetti di vita: questi ricordi facevano vacillare la mia
rassegnazione.
Si era intanto inserito nel campo delle mie tristi divagazioni un colloquio vivo e drammatico con l’amico
Dario Sibilia che era rimasto
ferito a breve distanza da me e che era come me impossibilitato a muoversi; era alle mie spalle e non potevamo vederci. Mi diceva di essere stato
colpito alle gambe e alle braccia e ripeteva di non avere la minima speranza di sopravvivere. Parlammo a lungo, la sua voce si faceva sempre più
fievole: gli dicevo che anch’io ero in difficoltà e lo invitavo a pregare e a non disperare, mi sentivo affettuosamente legato a questo ragazzo
gentile, distinto, riservato e di buona indole, che giovanissimo aveva coraggiosamente scelto di servire la patria aggregandosi volontario al
nostro reparto operante con i suoi intrepidi compagni della Scuola Navale di Venezia. Sentivo di dovergli quasi protezione e tentavo di rendergli
meno penosi quei difficili momenti. Da lui doveva venire un presagio che al momento mi sembrava irreale: mi diceva come ne fosse certo
. Brandigi riuscirai a salvarti . - gli rispondevo -
.vedrai verranno a prenderci e ci
salveremo entrambi, sii fiducioso.
Non fu così. Caro Dario ti ricordo con tanta commozione.
Il tempo trascorreva lento, il cielo si era aperto lasciando spazio perfino a qualche raggio di sole. Le mie forze si affievolivano ma la vita
sembrava ancora pulsare. Ebbi, ad un tratto, l’impressione di udire rumori e voci sommesse provenire dalla folta macchia che avviluppava il
costone della ferrovia. Pensai in un primo momento a pattuglie tedesche, poi mi resi conto che erano italiani: riconobbi la voce di Castellaro e
lo chiamai pieno di speranza
.sei Pieraccini? mi rispose; forse, avendo notato un accento toscano, aveva pensato
ad un nostro compagno viareggino:
Castellaro sono Brandigi ho una brutta ferita ad una gamba e non riesco a muovermi
replicai.
. anch’io sono ferito ad una spalla, ma è una cosa leggera. - disse e aggiunse -
. c’è con me Di Giorgio e insieme, facendo un tunnel nella macchia, tentiamo di rientrare nel nostro schieramento potresti
servirtene. Confermai che non ero in grado di spostarmi e che ritenevo di non farcela: mi incoraggiarono ad avere speranza e mi
consigliarono di mangiare che durante la notte sarebbero venuti a prendermi. Ci lasciammo così: mi rimase però nella mente quanto mi avevano
detto. Avevo nel tascapane dei viveri a secco, ma non mi andava di mangiare, avevo invece molta sete, ma niente acqua e proprio il giorno prima,
andando a fare rifornimento, mi ero accorto che la mia borraccia era forata.
Trascorse altro tempo, la voce di Dario ormai taceva.
Altri intorno si lamentavano ancora, si udiva ogni tanto qualche colpo di fucile, ma la battaglia era terminata. Provai di nuovo a muovermi e mi
resi conto che ora potevo girarmi, sia pure con qualche difficoltà, e mi accorsi che il sangue si era finalmente coagulato. Sganciai il gambale e
vidi che il proiettile aveva forato la parte superiore della tibia, tentai di trascinarmi avanti facendo leva sui gomiti e riuscii a spostarmi,
ma con molto dolore: provai allora a trascinare la gamba con le mani e così andava meglio.
Furono questi i movimenti che feci in seguito. Ormai era scattata la molla. Rinacque in me la speranza e, così come avevo tentato di accettare il
momento della morte senza disperazione, con altrettanta volontà di vivere, mi attaccai con ogni forza alla possibilità di tirarmi fuori da quella
difficile situazione. Feci appello alle energie residue, dimenticai il dolore, mi liberai di tutto ciò che poteva impedirmi i movimenti e con
stoicismo affrontai le difficoltà del ritorno. Mi portai a ridosso della ferrovia, aprii un varco nella macchia fino a raggiungere quello
praticato da
Castellaro e
Di Giorgio e, lentamente, mi mossi nella direzione del canalone, strappando i rovi con le mani e
trascinando avanti il corpo e la gamba ferita: non so quanto tempo abbia impiegato. Uscii finalmente dalla macchia: ero ormai a pochi metri dal
canalone quando arrivarono due portantini con barella che mi raccolsero: ero stremato, ma potevo considerarmi salvo -
. ci
sono altri feriti! - dissi -
. ritorneremo a prenderli. - risposero. Attraversarono la radura allo scoperto
ed i tedeschi non spararono. Portato al posto di medicazione del 67° fanteria, dietro il monte, ricevetti le prime cure. I miei salvatori non
erano dei portaferiti. Erano venuti a prendermi il bravo e buon sergente maggiore
Torre della mia compagnia e il caro
Enrico Dinelli,
viareggino, allievo ufficiale di fanteria volontario col 67°.
Due persone coraggiose, di grande generosità e umanità, alle quali si rivolge costante la mia riconoscenza: al di là dei propri compiti, avevano
rischiato la loro vita per soccorrermi; la Provvidenza ci aveva aiutati anche ad evitare le mine.
Dalla morte alla vita
Dopo le cure di pronto intervento, mi trovai di nuovo coricato sopra una barella e trasportato verso il luogo di smistamento feriti: erano ora
quattro i portantini, che si alternavano a due a due. Si incamminarono per il sentiero incassato che collegava il monte alla Casilina e che
formava una specie di trincerone. Su questa posizione si era attestata, dopo il fallito attacco della mattina, la nostra 3ª compagnia: passando
ebbi occasione di incontrare alcuni amici che si interessarono alle mie condizioni e mi procurò particolare gioia salutare l’amico
Giorgio Chiarini, conterraneo molto simpatico e intraprendente. In quel momento ero in uno stato di euforia, difficile a spiegarsi: mi
consideravo ormai fuori da ogni pericolo. Ma non era così, da poco tempo la parte tedesca si era risvegliata e stava battendo con micidiali colpi
di mortaio il terreno dove era dislocata la 3ª; per ben tre volte i portaferiti dovettero mettermi a terra mentre intorno a noi arrivavano le
bombe, volavano schegge e ci furono alcuni feriti tra gli allievi della 3ª. Ripreso il cammino e giunti sulla Casilina ci piovve addosso un’altra
gragnola di colpi di cannone che ci costrinse a trovare riparo in una casa diroccata, a lato della strada; altri colpi arrivarono ancora, prima di
giungere al posto di raccolta.
Queste ultime vicissitudini non mi crearono alcuna emozione, non avevo più paura. I portantini mi affidarono alle cure di altro personale
sanitario. In questa posizione incontrai il sergente maggiore di fureria che mi fece molta festa e mi diede cognac e cibo, erano le prime cose che
mettevo dentro dopo il rancio della sera precedente.
Ormai era calata la notte e non era più possibile orientarsi.
Fui sistemato su un’ambulanza che si mosse in un primo tempo in direzione delle retrovie, ma poi invertì la marcia ritornando nuovamente verso
Montelungo per prendere altri feriti; di nuovo sulla strada sconnessa e fangosa verso le retrovie. Altra sosta presso un ospedaletto americano.
Nuovo smistamento di feriti e cambio d’ambulanza.
Ci ritrovammo in quattro barellati sulla strada che portava al nostro ospedale da campo: eravamo tutti con ossa fracassate. L’ambulanza procedeva
lenta sulla strada sconnessa. Ad ogni buca, il riacutizzarsi del dolore e i comuni lamenti ci ricordavano che eravamo ancora vivi. Arrivammo
finalmente all’ospedale. I sanitari erano tuttora all’opera per curare ferite, per operare ed aggiustare arti e membra offese: ancora attesa per
lungo tempo, interminabile, nella tenda antistante la sala operatoria. Mi sentivo stremato. Nell’attesa di essere curato mi venne in mente che
avrei potuto perdere l’arto. Al pensiero ne rimasi sconvolto, ma ripensando ai momenti tragici passati mi tranquillizzai e mi sentii felice.
Venne finalmente il mio turno. La medicazione fu dolorosa: fatto il gesso, fui sistemato finalmente in un lettino accogliente in mezzo a tanti
altri feriti e a tanti visi noti, di nuovo tanta sofferenza intorno. Magnifico il personale sanitario a tutti i livelli.
La giornata dell’8 dicembre 1943 stava per chiudersi su questo non allegro palcoscenico, ma io ero vivo, la morte che mi aveva sfiorato
ripetutamente era stata battuta. Mi sono domandato più volte come ciò poteva essere accaduto e il perché di tutto. Mistero, il mio cammino
terreno non doveva compiersi a Montelungo.
Osvaldo Brandigi
LI° Battaglione Bersaglieri A.U.C. *Montelungo*
seconda compagnia
8 dicembre 1943 – fronte di Cassino
Nel caso in cui il testo derivi sempicemente dall'esposizione, con o senza traduzione, di documenti/memorie al solo fine di una migliore e più completa fruizione, la definizione Autore si leggerà A cura di.
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