IL NOSTRO *CINQUANTUNESIMO*
Data: 12-06-2005Autore: VARICategorie: TestimonianzeTag: #today, bersaglieri, italia, veterani-reduci

IL NOSTRO *CINQUANTUNESIMO*

Sono Giovanni Recchi, detto Gianni da Verona, e questa è la storia del LI° battaglione Bersaglieri allievi ufficiali di complemento, e di altri reparti, attraverso i fatti vissuti da chi scrive e dai suoi commilitoni.

Innanzi tutto desidero inserirmi nel periodo di Marostica,  Febbraio/Giugno 1943, con il seguente aneddoto.

Istruttore d’armi e tiro, presso la terza compagnia moto, era il tenente Podestà: un milanese dal carattere del tutto particolare, di poca confidenza, intelligente e arguto, con il potere innato di annientarti con una semplice occhiata, ben più efficace di qualsiasi biglietto di punizione

*Il grande sconosciuto* : questo era il titolo del tema assegnato dal detto tenente, a noi malcapitati ed esterrefatti allievi, vogliosi di pennichella in quel caldo pomeriggio del giugno 1943.

Dopo attimi di comprensibile sbigottimento, incominciarono a incrociarsi tra di noi occhiate interrogative e sommessi bisbigli, circa il misterioso personaggio proposto dal tema. Sempre più concitatamente, seppur sottovoce, vennero passati in rassegna i nomi di Cavour, Italo Balbo, Carneade, Giuseppe Verdi,  e altri ancora. non esclusi quelli di Starace e dello stesso colonnello Trapani, comandante del battaglione.

Lo sgomento in noi si acuiva sempre più alla constatazione che qualche allievo, toccato dalla luce divina,  si accingeva a scrivere chissà mai che cosa, sordo a ogni sollecitazione d’aiuto da parte di chi più non sapeva a qual santo votarsi. Io ero indeciso tra Alessandro Lamarmora e il colonnello Carpitella, l’inventore del regolo omonimo. Fu lo sguardo tagliente del Podestà a farmi optare per il Carpitella.

Volevo infatti riabilitarmi dall’occhiata demolitrice sparatami il giorno prima dal detto tenente quando, calcolando col succitato regolo l’altezza del campanile di Nove, essa mi era risultata di poco inferiore ai 4 chilometri.

Immaginate come rimanemmo tutti noi quando, consegnato il tema, venimmo a sapere che  *il grande sconosciuto*  era nientemeno che . il fucile modello ’91.

Udimmo per parecchi giorni le sonore risate di *papà Enea* (il capitano Castelli)  sovrastare,  in fureria, i grugniti del tenente Podestà.

E veniamo al settembre  del 1943,  quando inizia la tremenda avventura di noi ragazzi, privi di notizie delle nostre famiglie rimaste al Nord, e primi ad accorrere, male armati e peggio equipaggiati, là dove ci attendeva la prova del riscatto dall’immane sfacelo, morale e materiale, nel quale era stata colpevolmente sprofondata l’Italia.

Dal posto di blocco di Palese e da Bari  -  difesa in armi sin dai giorni  9, 10, 11 settembre  -  partivano le ardite pattuglie della terza compagnia moto,  per tutto il mese di settembre,  verso Molfetta, Barletta, Casamassima, San Michele, Acquaviva delle Fonti, Cassano Murge, Trani  e altre località,  sostenendo scontri a fuoco con reparti tedeschi e mitragliamenti aerei lungo la litoranea.

Come dimenticare, tenente Nay e sergente Riccardi,  l’esempio del vostro sereno coraggio? 

Come dimenticare il desolante quadro delle torme di *sbandati* che, con le divise a brandelli,  e qualcuno persino scalzo,  cercavano di raggiungere le proprie famiglie?

E come dimenticare,  di contro,  Leone (Orioli) e Sergio (Agus) feriti il 13 settembre nello scontro improvviso e violento, in quel di Trani,  con una pattuglia tedesca penetrata poco prima nella caserma del Genio,  impadronendosi di un automezzo, da noi poi recuperato.

Mi  viene ora la  pelle d’oca pensando a quale brutta fine avremmo fatto se ci avessero catturato i tedeschi: in quel periodo, infatti, l’Italia era ancora alleata della Germania.

Beata incoscienza del nostro giovanile ed eroico entusiasmo, ma colpevole incoscienza degli alti comandi!

Fine settembre 1943 - il  LI°  battaglione, inquadrato nel 1° Raggruppamento Motorizzato, si trasferisce a Cellino San Marco  -  il 18 ottobre, in seguito  a incidente stradale, muore il nostro carissimo tenente Nay, reduce dalla campagna di Russia, ove era stato decorato con due medaglie d’argento al valor militare.

Ricordo ancora gli incubi della veglia notturna,  assieme a Rosolo,  nel cimitero di Cellino.

Novembre del 1943  -  trasferimento, sotto la pioggia battente,  ad Avellino  e, successivamente, a Sant’Agata dei Goti (Benevento). Nella zona di Montesarchio il Raggruppamento svolge una brillante esercitazione, apprezzata dagli ufficiali americani  con riserva, però,  circa l’armamento e l’equipaggiamento giudicati scadenti e antiquati.

E pensare che Mussolini aveva dichiarato guerra a Francia,  a Gran Bretagna  e perfino agli Stati Uniti d’America !!

6 dicembre 1943  -  giunge improvviso l’ordine del II Corpo d’Armata Americano, alle cui dipendenze era stato posto il Raggruppamento, di portarsi nella *zona d’impiego*  che,  per le notizie di radio scarpa, sembra essere Montelungo.  

Partenza alle ore 12,30 sotto una pioggia torrenziale: per dove?  Ma, santissima la Madonna, dico a me stesso, volete dirci dove si deve andare?  Per quale itinerario?  Niente!  Forse si tratta di mantenere il più possibile segreto il trasferimento.

Ad ogni modo, dubbioso circa l’efficacia dei superiori comandi, avanti in colonna seguendo chi ci precede!

Il trasferimento al fronte è stato,  per noi della terza moto,  un vero calvario.

La colonna si è ben presto sfilacciata su lunghi chilometri, per cui ci siamo potuti riunire nel punto di avvicinamento,  oltre il bivio per Venafro, solo nella tarda serata.  La strada era ricoperta da uno strato di fango così alto e tenace da bloccare all’improvviso le ruote delle motociclette, catapultandoci tra l’infernale traffico di mezzi di ogni tipo, brulicante nei due sensi.  Per ripartire dovevamo staccare con le mani sanguinanti e con qualche mezzo di fortuna la mota cementatasi sotto i parafanghi: un calvario!

Non scorderò mai l’attimo di terrore provato quando, in una di tali numerose cadute, mi sono visto i cingoli di un carro armato sferragliare a breve distanza dalla mia faccia prona nel fango.

Ma il mio eroismo - da tutti misconosciuto pur se a me intimamente ben noto – penso sia emerso,  fulgido nella sua luce di gloria, quando nel tardo pomeriggio sono rimasto assordato e accecato da una tremenda cannonata esplosa a pochi metri da me. Ho immediatamente intuito d’essere stato avvistato dal nemico per cui,  con balzo felino,  mi sono lanciato dalla motocicletta in corsa atterrando contro un arginello al margine di una stradicciola che, senza bussola e senza stelle,  avevo Dio sa come imboccato. Mentre mi accingevo a vender cara la pelle, una seconda e più tremenda cannonata domava il mio inconsulto slancio, convincendomi a stare bene acquattato, in attesa del giusto momento per passare fulmineamente all’attacco.

Così mi vide quell’incosciente caporale americano che, fermata la  jeep, cercava di indurmi a rialzarmi,  mentre io gli facevo disperati cenni di ripararsi, chè gravissimo era il pericolo.  Prevalse l’americano quando riuscì a farmi capire che le cannonate  erano in partenza,  sparate da una batteria che si intravedeva vicinissima, nella bruma serale.

Mai miracolo mi parve più grande dell’incontro avvenuto, poco tempo dopo,  con i miei ufficiali, con i miei amici, con la mia gente!

Certo però che in me non si dissipava l’arrovellante incognita di come avrei potuto affrontare le cannonate in arrivo, se tanto mi avevano sconvolto quelle in partenza. Mi acquietai nella speranza di avere comunque tanto coraggio da superare la fifa:

fu così . che non venni decorato!

Verso le due del mattino, con la pioggia fredda e insistente, la terza compagnia, finalmente radunata, inizia la marcia per Montelungo, sotto l’infuriare del cannoneggiamento proveniente da Montelungo e da Montemaggiore.

Attraversiamo Mignano, grigia, cupa, rinchiusa nelle case e alle sei del mattino, stroncati dalla fatica e fradici di pioggia, ci sistemiamo tra i cespugli sulle pendici di un colle, che ci dicono essere Monte Rotondo. Siamo sotto il fuoco terribile dei mortai tedeschi e in aria ruggisce il duello delle opposte artiglierie: sorprendentemente, riesco ora a distinguere i colpi in partenza da quelli in arrivo. 

Mi viene da pensare, chissà perchè, ai garibaldini di Calatafimi, ai volontari di Curtatone e Montanara e ai combattenti del Carso, ove mio padre, umile fante, rimase mutilato di una gamba a Castagnevizza:  ho il presentimento di non avere l’animo dell’eroe.

Trapela qualche notizia: la prima e la terza compagnia rimangono, di riserva, su Monterotondo, a est di Montelungo,  che verrà attaccato, domattina, dal sessantasettesimo  reggimento fanteria, fiancheggiato sulla sinistra dalla nostra seconda compagnia, contro le posizioni nemiche di Colle San Giacomo.

 

Addio Alfredo (Aguzzi) carissimo,  primo caduto del nostro *cinquantunesimo*:  la scheggia maledetta ti ha spaccato il cuore mentre mi stavi sottovoce parlando, tra i cespugli di Monterotondo.  . Chi mai ti ricorda ?.

8 dicembre 1943,  giorno dell’Immacolata.

Una fitta nebbia avvolge Montelungo rendendo impossibile l’osservazione e l’aggiustamento del fuoco delle artiglierie di ogni calibro che, per tutta la notte, hanno rabbiosamente battuto il fronte e che, alle  cinque e trentacinque, iniziano il tiro di preparazione.

Ore sei e trenta -  la seconda compagnia inizia l’attacco e alle sette  raggiunge il primo obiettivo, la *Casetta Rossa*  ove, con l’improvviso diradarsi della nebbia, viene investita dal fuoco preciso di numerose armi automatiche che immediatamente causano elevate perdite, rendendo insostenibile la situazione.

Una pattuglia tedesca con una mitragliatrice pesante, infiltratasi tra Colle San Giacomo e Montelungo, viene prontamente eliminata dal tiro dei 47/32 del quinto battaglione controcarro.

La prima e la terza compagnia si portano immediatamente a rinforzo dell’azione sul torrente Peccia e sulle pendici di quota 253 di Montelungo, sulla quale nello slancio di un attacco frontale a colpi di raffiche e di bombe a mano, si erano immolati i fanti del sessantasettesimo reggimento, alla cui bandiera verrà assegnata la medaglia d’oro al valor militare.

Vedo nella piana le figure stravolte di Vittorio (Rebeschini), di Carlo (Albani) e di pochi altri superstiti:  Federico (Marzocchi) si regge il braccio sinistro semitroncato dalle raffiche e Raffaele (Vivaldi), anche lui veronese, mi grida che Gino (Tambalo), altro amico di Verona, è caduto alla Casetta Rossa.

Salgo nel buio di roccia in roccia, tra i colpi di mortaio, trascinato e sospinto dallo spirito indomito di Leone (Orioli), caposquadra dal generoso sangue romagnolo.

Mattino del 9 dicembre:  vengo inviato, con  Leone (Orioli) e con Mario (Capella), a raggiungere la cima di quota 253  per prendere contatto con il II° battaglione del sessantasettesimo: non troviamo nessuno, tranne i cadaveri di due tedeschi e un fante ferito che cerca faticosamente di rientrare tra le nostre linee.

Durante la notte ci rannicchiamo tra le rocce, tormentati dai mortai, dal freddo pungente e dalla pioggerella ghiacciata, mentre tra le linee gemono i feriti che chiedono aiuto. Il capitano Castelli, con una piccola pattuglia, si spinge verso le linee tedesche: e viene così recuperato e salvato uno dei feriti.

Un’altra pattuglia, al comando del tenente Moiso, si scontra con una pattuglia tedesca, nei pressi della Casetta Rossa: cade uno dei tedeschi e gli altri quattro vengono catturati e portati entro le nostre posizioni.

16 dicembre:  nuovo attacco in combinazione con un reparto americano e, finalmente,   Montelungo è conquistato.
Oltre 60 perdite e 32 decorazioni al valore testimoniano l’olocausto del nostro LI° battaglione, Elevatissime anche le perdite dell’eroico 67° fanteria, pesantemente falcidiato.

Tra l’otto e il sedici dicembre la forza d’attacco è stata di circa mille uomini, tra fanti e bersaglieri: più del quaranta percento le perdite subite, costituite da 89 morti sul campo, 195 feriti e 160 dispersi.

Addio Attilio (Faggi) Mario (Cardone).  addio. Giambattista (Bornaghi). Ludovico (Luraschi). Umberto (Morelli). Lino (Santi). Dario (Sibilia).  eroici ragazzi diciassettenni, allievi ufficiali della Accademia Navale, volontari nel LI° battaglione: sognavate gli infiniti orizzonti e le azzurre distese degli oceani e vi siete invece immolati, inesperti, tra le aride rocce di Montelungo  . chi mai Vi ricorda ? .

Ma perchè mai, mi chiedo, sono stati aggregati proprio alla compagnia destinata all’attacco, loro che venivano da una brevissima istruzione militare, di carattere navale,  minorenni e digiuni di ogni conoscenza delle armi e della tattica delle fanterie?  Non mi si risponda, prego, con la retorica.

Chi  ti  ricorda  Gino (Tambalo),  amico  carissimo,  anche  tu  veronese,  caduto  alla  Casetta Rossa ?   La sera antecedente la partenza da  Sant’Agata  mi parlavi,  triste,  della tua famiglia lontana, nella tua Legnago,  e del periodo, ancor recente,  della tua frequenza alla Accademia della Farnesina .

Sei rimasto sul Monte
così vicino eppur
tanto lontano.
Il tuo nome
corretto sulla pietra
col pennarello da una mano amica.
Non c’eran pennarelli allora
Gino:
odorava d’inchiostro
la giovinezza nostra e di matita
rossa e blu.
Quel mozzicone di candela
in quella sera fredda
di quel dicembre freddo:
l’alito sulle mani al tremolar
fioco del lume Cara mamma
E i ricordi
mi trapassano l’anima.

Addio, amici cari che riposate nel cimitero di guerra di Montelungo, a fianco della Casilina,  sotto

Nitide Croci,
sui ranghi silenti.
Rosari di cristallo
che il vento raggela sugli occhi
nell’alito della preghiera.
Nel solco dei ricordi
inerti Briciole di Storia
divine Schegge d’Universo
su cui la Luce spezza l’ala.
E sulla fredda zolla
ov’eran rose di fuoco
severa aleggia la Morte
Ut Patria vivat !

Sulla cima del Monte, il nostro Monte, veglia la Madonnina dal candido manto .

Quando rintocca lenta la campana
e nella nebbia grigia della piana
trascinando fantasmi di paura
l’acqua del Peccia si fa tutta scura
vedo nel fango un’Ombra ormai di gelo
a braccia aperte a misurare il cielo:
còprila col tuo manto per bandiera
quando dal Monte scivola la sera.

21 dicembre 1943 – Lasciamo Montelungo e iniziamo una marcia di oltre venti chilometri  per il riordinamento del reparto nella zona di Venafro.  In condizioni fisico-morali pietose, ci sistemiamo nelle stalle di Sesto Campano.

Notte sul Natale del 1943Pio (Meletti) mi sveglia per farmi gli auguri e mi chiede di chiacchierare un po’, adagio, sottovoce,  per non svegliare Zeno (Zanotti),  Gigi (Chiericati) e  gli altri che dormono rannicchiati su poca paglia.

Dalla finestrina entra l’alba a spezzare la luce vivida sopra un’Ostia di pagnotta e penso che sull’inferriata arrugginita ci siano gli angeli di Betlemme.

E qui mi piace ricordare, col cuore gonfio d’amarezza, le parole di  papà Enea  nel suo Profilo storico del LI°  Battaglione Bersaglieri A.U.C.

. In tali condizioni si avvicina il Natale e subentra in tutti noi un’accorata tristezza al pensiero delle nostre famiglie lontane.

In passato,  vi erano stati altri Natali di guerra, ma nessuno poteva uguagliare il presente; sul suolo nazionale, divisi e senza notizie delle famiglie, invisi all’opinione pubblica specie delle città già liberate da tempo, di fronte ad una annunciata guerra fratricida,  con davanti la visione di tanti compagni caduti, noi italiani, umili tra gli umili, ci rifugiammo sulla paglia fradicia e sul letame, sotto lo stillicidio delle travi marcite.

Mattino di Natale: passato il Volturno in piena su una  traballante passerella, avevo riunito la Compagnia dentro una stalla, affondati nel letame sino alle caviglie:  volevo rincuorare i ragazzi avviliti e disperati.

Mi sforzai di dire qualche parola, rammentare le famiglie lontane che presto avremmo raggiunto perchè, sostenevano gli Americani,  spezzate le difese della Reinhart che facevano perno su Montelungo ormai conquistato,  saremmo ben presto arrivati a Roma  

Senonchè il nodo che mi serrava la gola mi impedì di spiccicare parola

Natale del 1943 – Nel pomeriggio arriva l’ordine di trasferirci immediatamente nella zona di Bonea Bucciano  (Benevento), per la ricostituzione del reparto.

Ma come ?  Proprio nel giorno di Natale ?  Sono talmente triste e sfiduciato che non riesco nemmeno ad arrabbiarmi.  Ho l’impressione che negli altri comandi vi sia grande confusione . che manchi ogni sensibilità nei nostri confronti e che si badi più che tutto ai quadri degli avanzamenti di carriera e delle promozioni.

Termina il 1943.

Nel gennaio 1944 i resti del Battaglione vengono decimati da una epidemia di pericolosa influenza.  Moltissimi sono gli allievi ricoverati all’ospedale militare: tra questi, anche Rosolo e ho il presentimento che non ci rivedremo più dato che la terza compagnia viene sciolta e noi veniamo presi in forza dal XXIX battaglione, reduce dalla Grecia.

Il distacco da Rosolo mi rende triste: egli è per me un amico carissimo, un ragazzo serio, sereno, concreto e la sua sincerità mi ha sempre dato sicurezza e fiducia.

Dopo pochi giorni i resti del LI°  battaglione, col capitano Castelli, si trasferiscono in Puglia quale reparto di addestramento reclute e rifornimento di complementi per le Forze Armate.

Addio mio amato LI°, smembrato per superiori esigenze: addio cari amici, uniti dal comune entusiasmo goliardico e dai ricordi di giorni irripetibili e indimenticabili che, in breve tempo, hanno maturato la nostra giovinezza . addio. 

Nel XXIX veniamo accolti freddamente; mi sento spaesato, smarrito e demoralizzato e la tristezza mi gonfia l’anima di solitudine e di cupi pensieri.

Febbraio 1944 – Il XXIX è sul piede di partenza per il ritorno al fronte in una situazione per noi confusa e quasi irreale. Decidiamo, quasi tutti, di opporre resistenza e di ritornare alla sede del nostro vecchio LI° . vogliamo essere trattati da persone e non quali aridi numeri del ruolino di fureria: siamo inoltre presi dal timore di poterci scontrare al fronte con le truppe italiane arruolate nel Nord.

Apriti cielo .  Scatta subito l’efficienza repressiva dei superiori comandi: fucilazione, ergastolo, degradazione  .  e la nostra esasperazione !

Per carità di Patria, salto a pie’ pari  il mese di febbraio 1944.

In marzo raggiungiamo il deposito di Airola  (Benevento), invitati a presentare istanza per il fronte, come volontari 

.il tutto alla faccia di un intero esercito dissoltosi nella tragedia dell’8 settembre.

Conosco ove sono nascosti molti  .sbandati.  ufficiali compresi, verso i quali non viene intrapresa azione alcuna !

Giunge dalla Corsica il XXXIII battaglione che, con il XXIX, costituisce il 4° reggimento bersaglieri e, nell’aprile 1944,  il I° Raggruppamento assume la denominazione di Corpo Italiano di Liberazione, forte di circa 10.000 uomini, schierato, agli ordini del generale Umberto Utili, sulle Mainarde nel Parco Nazionale d’Abruzzo.

Noi  .ribelli.  veniamo trasferiti al deposito di Chieti Scalo da dove, in giugno, veniamo inviati, in autocarro,  proprio al XXXIII battaglione, che sta operando sul fronte delle Marche

Non sappiamo però dove precisamente esso si trovi, per cui lo cerchiamo per una intera giornata peregrinando da un paesetto all’altro seguendo, tra le colline marchigiane, le vaghe indicazioni degli abitanti locali, stupiti che non si sappia dove andare.

Finalmente, nella sera raggiungiamo il battaglione, dove giungiamo inaspettati!

Veniamo smistati nelle varie compagnie: io, con  Egidio (Sartorio), Franco (Incerti) e Guido ( ? ),  vengo preso in forza dalla 11ma compagnia di certo capitano Dapas e assegnato al plotone di certo sottotenente Toccagni,  nella squadra di certo sergente Tita, che si dimostrerà ben presto persona capace, concreta e di buon senso.

All’ undicesima compagnia ritrovo Leone (Orioli), reduce  dal  fronte  delle  Mainarde.

E mi trovo nuovamente in guerra: logoranti azioni di pattuglia, combattimenti brevi e nervosi con elementi ritardatari dei reparti tedeschi in lenta e ordinata ritirata: e notti insonni per i mortai e per le zanzare che penetrano e punzecchiano, a nugoli, persino nelle orecchie, sdraiati sulla nuda terra, sotto il cielo stellato, oppure nel caldo soffocante di qualche stalla,  lercia di letame, tra il muggire lamentoso  e assordante dei buoi affamati, assetati e feriti dalle schegge; molto spesso i bersaglieri, con grande rischio, li conducono tra l’erba dei prati e li dissetano con l’acqua dei pozzi, ove non siano stati inquinati dai tedeschi prima di ritirarsi.

Lenta ma continua è comunque l’avanzata tra le colline marchigiane fiancheggiando il  II° Corpo Polacco, che opera sulla fascia litoranea per la conquista di Ancona.

Oltre Macerata occupiamo Tolentino, mentre i paracadutisti della Nembo avanzano verso Filottrano,  che conquistano il 9 luglio dopo un asperrimo combattimento,  casa per casa.

Ci schierano a est di Storaco per l’attacco alle posizioni tedesche poste sul Musone, che attraversiamo dopo aspra lotta in corrispondenza di Castel Rosino, costituendo una solida testa di ponte sulla sinistra del fiume, sotto un violento tiro di repressione.

Santa Maria Nuova, importantissimo nodo stradale e sbocco sull’Esino, viene attaccata il 18 luglio e nella sera,  bersaglieri, alpini e fanti  entrano nella cittadina conquistata.

Il 4° reggimento bersaglieri scende quindi verso  l’Esino e punta su Jesi,  incontrando accanita resistenza sul Monte Granale da parte di nuclei di ritardatari  e dei semoventi che sparano a zero.  Dopo nove ore di dura battaglia Monte Granale è conquistato e i tedeschi si ritirano oltre Jesi,  che viene occupata dagli alpini del battaglione Piemonte  

. alla cui testa . scrive il capitano Moiso  . hanno marciato gli spiriti eletti dei bersaglieri caduti in questi giorni sul Musone,  sui costoni di Santa Maria Nuova e sul Monte Granale.  Avanti a tutti,  l’indimenticabile sergente Giuseppe Riccardi, rientrato dalla Francia e volontario di guerra.  Sempre tra i primi in Puglia, dove nasce l’epopea del LI° bersaglieri;  si affollano alla mente i ricordi di episodi innumerevoli di prodigi di valore, di slancio e di generosità  di  Riccardi  quando,  sul Montelungo, si doveva intervenire per frenare i suoi ardimenti e costringerlo a mettersi al riparo,  lui,  che non permetteva ai suoi ragazzi di esporsi;  quando in quelle fredde notti di dicembre,  sotto il nevischio,  passava a rincuorare le vedette con un sorso del suo cognac e una parola di comprensione e di affetto;  quando usciva da solo dalle nostre linee per vedere  . che cosa facevano quelli .  Quando, allo scioglimento del LI°  chiese e ottenne di ritornare a combattere a Monte Marrone,  sulle Mainarde,  a Chieti.

A Monte Granale di Jesi, dopo una giornata di combattimenti,  mentre in piedi, come sempre,  a pochi metri dai tedeschi,  quasi in atto di sfida,  indicava ai mitraglieri avanzati l’obiettivo da battere,  veniva falciato da una raffica immolando così la sua vita, interamente consacrata alla Patria

Alla sua memoria è stata conferita la medaglia d’oro al valor militare.

Nella sua giubba insanguinata viene rinvenuto il suo testamento   

. carissima mamma, quando queste ultime righe ti giungeranno, io sarò andato a raggiungere papà. Non piangere mamma: possa il nostro sacrificio servire per la salvezza della nostra Italia che tanto ho amato e che un giorno, ne sono certo, ritroverà il suo posto al sole .

Addio, indimenticabile sergente Riccardi, addio, caro Paperino: che così tra noi allievi eri chiamato, per il soprannome che proprio io ti avevo affibbiato, con goliardico affetto, in quel di Marostica.

Circa il combattimento di Monte Granale, così scrive il capitano Moiso:

sul primo costone che da Santa Maria Nuova scende verso il Monte Granale, la settima compagnia viene duramente impegnata,  con gravi perdite, tanto che sul fianco destro viene inserita la quinta compagnia che raggiunge di slancio la cima del monte . ogni covone di grano, ogni albero, nasconde una tana e da ogni parte i bersaglieri sono presi sotto il fuoco incrociato di armi automatiche e di quello tambureggiante e preciso delle artiglierie nemiche la quinta compagnia continua l’attacco frontale,  mentre il resto del battaglione aggira le pendici orientali di Monte Granale per arrivare alle spalle del nemico in corrispondenza del ponte di Jesi,  a meno di un chilometro.  Ma la resistenza nemica si rivela improvvisa e furiosa,  coi semoventi che sparano a zero dalla periferia di Jesi.  Non potendo resistere sul fondovalle, le compagnie ripiegano sulle pendici nord-orientali del Granale,  prolungando sulla destra l’occupazione della cima,  conquistata dalla quinta compagnia dopo nove ore di combattimento .

Critico nel giudicare la predetta azione è però il capitano Trifone d’Alò, comandante della decima compagnia del XXXIII battaglione,  che,  in un suo volumetto così scrive 

. il combattimento da parte del  XXIX battaglione andò male,  specie nella zona di Montegranale,  per cui lo stesso comando di reggimento venne coinvolto direttamente,  provocando reazioni non perfettamente consone all’etica militare .

Fine luglio:  la compagnia punta all’attraversamento del Misa.

Vengo inviato in pattuglia, con alcuni bersaglieri, lungo il letto di un torrente in secca per accertare la situazione nelle vicinanze di una casa a circa trecento metri.  Vi arrivo che ormai è  quasi  buio  e  trovo Nicola (Ruicci),  ex  del  cinquantunesimo, mandato da altra compagnia, appostato nell’orto con una mitragliatrice: mi sussurra di tenere gli occhi bene aperti,  perchè  i  tedeschi  si  rivelano  vicinissimi.

Rientro e riferisco il fatto.

Dopo circa mezz’ora vengo nuovamente inviato alla detta casa: il capitano mi raccomanda la massima cautela.  Vi giungo col buio fitto e non trovo più Nicola.

Entro con la massima prudenza in casa e trovo la famiglia raccolta attorno a una lucerna . se ne sono andati, ma ne è rimasto uno nella stalla .  mi dice sottovoce il vecchio e noto una strana luce nei suoi occhi,  che spesso rivolge verso la scala e il soffitto. 

Nella stalla, coperto col fieno e in canottiera, trovo, rannicchiato nella greppia,  un ubriaco fradicio che biascica incomprensibili parole:  non riesce nemmeno a dirmi il suo nome e dove sia Nicola (Ruicci).  Lo lascio a sbollire la sbornia e ritorno al reparto per il dovuto rapporto.

Nella notte però mi assale improvvisamente un dubbio:  ma quell’ubriaco, senza divisa e coperto di fieno nonostante il caldo soffocante, chi era?  Era un bersagliere della squadra di Nicola,  o era invece un tedesco che si fingeva ubriaco?  E perchè il vecchio cercava di indicarmi con gli occhi la scala e il soffitto?  C’era forse qualche altro al piano superiore?

Decido di riferire il fatto a chi di dovere,  anche a costo di fare la figura del fesso,  quand’ecco che un’altra pattuglia rientra dopo essersi spinta ben oltre la casa.

Ritengo pertanto inutile riferire il mio dubbio: confesso che ancor oggi, a distanza di sessant’anni, quel dubbio ancora mi tormenta e sempre più mi convinco che quello fosse veramente un tedesco, e che al piano superiore altri ce ne fossero, pronti se del caso a intervenire,  come già in altre occasioni avvenuto.

Ai primi di agosto avanziamo oltre il Misa, incalzando il nemico a Casa San Vincenzo e a Croce del Termine e ci attestiamo in zona Casalta.

Voglio qui ricordare l’amico Leone (Orioli) che, improvvisamente attaccato da un forte pattuglione tedesco, che causa perdite tra i bersaglieri,  reagisce con coraggiosa decisione sventando, con la sola sua squadra, la minaccia incombente sul resto della compagnia. Ho visto assegnare decorazioni al valore per azioni ben meno eroiche di quella sostenuta da Leone e dai suoi pochi bersaglieri, che non hanno invece avuto menzione alcuna.

Forse chi avrebbe dovuto avanzare la proposta non lo ha fatto per non dover giustificare l’assoluta inerzia della compagnia che, al riparo in una vicina stalla, non è stata condotta in appoggio alla squadra duramente impegnata.

Solo un sergente A.U.C. si è portato, di sua iniziativa, sul ciglione della valletta in cui era in corso lo scontro a fuoco, cercando, tra le nutrite raffiche delle traccianti, di portare aiuto all’amico Leone (Orioli).

Altro attacco tedesco a Croce del Termine viene respinto con perdite: tra i nostri, il sottotenente Luigi Salvini, stimato e amato ufficiale del XXIX.

Avanziamo oltre il Cesano e a metà agosto cambiamo settore, spostandoci sulla sinistra, tra Sassoferrato e Gubbio,  mentre la prima compagnia bersaglieri motociclisti occupa Urbino e, successivamente,  Urbania e Peglio,  giungendo in vista degli avancorpi della linea Gotica.

Il 30 agosto arriva finalmente l’ordine di sospendere ogni attività operativa  e di concentrarsi nella zona di Sassoferrato, per trasferirci poi in quella che verrà indicata quale zona di riordino.

Scrive ancora il capitano Moiso:

. si chiudeva in tal modo il ciclo operativo del C.I.L. nel quale le posizioni raggiunte rappresentavano l’ultima tappa di reparti che, miseramente dotati di armi e mezzi, si erano faticosamente e valorosamente portati, in gara con le forze alleate, dalle balze dell’Abruzzo  ai declivi delle Marche,  assolvendo con determinazione e coraggio i compiti loro affidati.

L’avanzata del Corpo Italiano di Liberazione, attraverso gli Abruzzi e le Marche, fu uno dei miracoli che soltanto l’italiano, quando ne sente la responsabilità storica e morale, sa compiere. 

Abbiamo visto le condizioni di miseria in cui i nostri soldati si sono costantemente trovati,  di vestiario,  di artiglieria,  di munizioni,  di quadrupedi,  di totale assenza di carri armati,  combattendo tra unità dotate di ogni ben di dio, ricchissime di trasporti e non disposte a cederli.

Per quanto riguarda armamento ed equipaggiamento, la campagna del 1944 fu caratterizzata, soprattutto, da una estrema carenza di indumenti invernali e di calzature degne di questo nome:  eravamo una gloriosa banda di cenciosi,  sporchi  e  variopinti,  che mai rimasero indietro rispetto alle altre ricche divisioni,  e che sempre si tennero alla loro altezza,  trasportando, spessissimo in spalla,  i pezzi di artiglieria e i mortai sulle dure giogaie appenniniche ! .

Il 24 settembre 1944 il Corpo Italiano di Liberazione venne sciolto, ma rimarrà sempre nei cuori di coloro che ne hanno vissuto le indimenticabili vicende.

Vengono costituiti i Gruppi di Combattimento: 

. il Legnano . il Friuli . il Cremona . il Folgore . e (in riserva) . il Mantova .

Sono in effetti delle vere divisioni, di circa diecimila uomini ciascuna, con dotazione di armi automatiche, mitragliatori e mortai, artiglieria e pezzi controcarro e contraerei.

Nella stessa data anche il 4° reggimento bersaglieri viene sciolto e, con gli elementi più giovani,  e fisicamente più dotati, quasi tutti del  Nord – Italia, si costituisce il battaglione bersaglieri Goito, affidato al comando del maggiore Romolo Guercio, che si dimostrerà ben presto ufficiale colto, energico, preparato e valoroso combattente, reduce pluridecorato della campagna di Russia.

Con i vecchi del cinquantunesimo,  Nicola (Ruicci),  Dario (Boschian),  Gabriele (Luzi),  Marco (Monteduro),  Leone (Orioli),  Sesto (Ciampiconi),  Aldo (Capogna),  Egidio (Sartorio),  Rinaldo (Flaim)  e  Alvaro (Mori),  vengo assegnato alla settima compagnia del Goito  (capitano Moiso, già del nostro LI°)  che, unitamente ai battaglioni alpini Piemonte e  L’Aquila, una compagnia mortai e una compagnia cannoni da 57/50,  forma il Reggimento speciale Legnano, al comando del colonnello degli alpini Galliano Scarpa, inquadrato nell’omonimo Gruppo di Combattimento,  affidato al generale Umberto Utili,  reduce di Russia e già comandante del I° Raggruppamento e del C.I.L.

Veniamo dotati di uniformi inglesi che accettiamo molto mal volentieri, stante la nostra volontà, dimostrata in modo energico, di mantenere il grigio–verde: riusciamo comunque a conservare le nostre fiamme cremisi e il piumetto.

Anche l’armamento è inglese  e inglese diviene la tattica,  per cui necessita un particolare addestramento.

Il battaglione viene trasferito a Piedimonte d’Alife (Benevento), attendato in un campo fangoso. I mesi di ottobre e novembre sono particolarmente piovosi, ma l’addestramento, duro e spregiudicato, non conosce sosta: manovre a fuoco, assalti all’arma bianca e lancio di bombe a mano a *squadre contrapposte*.

Alla sera, sotto il grande tendone dello spaccio, intrattengo la compagnia raccontando barzellette e facezie varie, con grande gradimento dei bersaglieri, ufficiali compresi, il che mi incoraggia a mettere insieme un’orchestrina con Piero (Vigone) al clarinetto, Guerrino (Plazzotta) alla tromba, io ai tamburi, ed altri a strumenti vari, tra i quali un alpino al sassofono,  ottenuti in modo rocambolesco.

Dicembre 1944 -  il battaglione viene trasferito a Bracciano dove continua, sempre più duro, l’addestramento.

La Santa Messa di Natale officiata dal nostro cappellano, padre Pomes, è suggestiva e commovente. Nel pomeriggio, nel grande salone del castello degli Odescalchi, l’orchestrina,  rinforzata da una minuscola compagnia di recitazione  - che fa veramente piangere -  ci esibiamo nel  Giro d’Italia: una collana di canzoni che inizia con *Piemontesina bella* e arriva  poi in varie regioni dello Stivale con *O mia bela Madunina*  *Venezia mia*  *Le campane di San Giusto* *Firenze* *I casteli de Roma* *La Molisana* *Spingole francese*    *Calabrisella* *Siciliana*  e altre. 

Grande successo e sincera commozione, col pensiero alle famiglie lontane. 

Gennaio 1945 – Veniamo trasferiti nella zona di Siena: la settima compagnia si sistema in una bellissima casa padronale in quel di Quercegrossa, ove trovo ottimo il Chianti che giornalmente mi offre una famiglia trevigiana, addetta alla coltivazione del vigneto.

Continuano le manovre a fuoco e l’addestramento d’armi.

Alla fine di febbraio il capitano Moiso mi invia con alcuni bersaglieri a Piancaldoli, al confine tra Firenze e Bologna, quale furiere d’alloggiamento per il battaglione: mi raggiunge il tenente Palazzo e assieme scegliamo un ampio declivio sull’Idice, ove il 10 marzo il battaglione si accampa in tenda.

20 marzo 1945 – il Legnano entra in linea nell’alta Val d’Idice, a cinque chilometri a nord del Passo della Raticosa. Il fronte è tenuto dagli alpini del Piemonte e dell’Aquila; il Goito è in secondo scaglione, vicino allo schieramento dell’artiglieria americana. Azioni di pattuglia nostre e degli alpini: in una di queste cade il maggiore De Cobelli, comandante dell’Aquila.

Giunge l’ordine di raccogliere schegge, spolette e quant’altro  possa essere idoneo a  individuare il tipo e il calibro delle artiglierie nemiche: e che cosa mai ti combina quel mattacchione del capitano Moiso? Un grosso proiettile, di circa un metro di lunghezza, era caduto inesploso in un prato. Moiso lo cattura con una fune a cappio, se lo fa sistemare sulle ginocchia e, con una motocicletta guidata dal riluttante e preoccupatissimo tenente Bocedi, tra lo spavento di quanti incontra per strada, compresi due americani finiti con la jeep in un fosso, va a depositare il pillolone alla sede del comando di reggimento di fianco alla scrivania dell’aiutante maggiore.

Vi lascio immaginare gli urli e le imprecazioni, irripetibili, che ne sono seguite.

Io comunque, conoscendo l’uomo, non me ne meraviglio affatto.

19 aprile 1945 – il Goito si sistema per l’attacco ormai prossimo, sulle posizioni di Casa Collina e del Poggio e, scavalcando gli alpini su quota 363, assalta Poggio Scanno: la quinta compagnia viene decimata e il plotone arditi arriva sulla quota con soli cinque uomini. Cadono, tra gli altri, il sergente maggiore Fausti, già decorato di medaglia d’argento al valor militare,  e l’eroico sergente  Luigi Sbaiz, reduce dal fronte russo: gravemente ferito, ordina a un suo bersagliere di recidergli l’arto semitroncato e, agitando il piumetto, col quale chiede di essere sepolto,  ci rincuora e incita con le sue ultime serene e nobili parole. 

Meritatissima la medaglia d’oro al valor militare. E scrive ancora il capitano Moiso:

. Poggio Scanno è conquistato con un violento attacco,  tra il grandinare dei proiettili e le salve di artiglieria,  con l’impeto e il coraggio della tradizione.  A questo punto viene ordinato alla settima compagnia di scavalcare la quinta e i resti del plotone arditi e di proseguire verso Casola Canina e la via Emilia .

Ma il capitano D’Alò, con cruda franchezza, ricorda anche, e  lamenta, che  per il non perfetto coordinamento dell’azione con l’artiglieria, a Poggio Scanno, anche diverse salve del fuoco  amico si abbatterono sui bersaglieri.

Chi è stato in guerra sa che,  in  guerra,  questi dolorosi eventi possono accadere, e accadono purtroppo.

Altra cosa è disquisirne tra specialisti, competentissimi naturalmente, comodamente seduti sulle poltrone di un salotto.

Proseguiamo.

20 aprile 1945  -   puntiamo su Monte Calvo. 

Dopo breve sosta, nuovo deciso attacco su Casa Canina, che occupiamo in serata, sistemandoci in un prato per la notte. Sono stanchissimo, ma non riesco a prendere sonno:  sono troppo belle le stelle e dolce mi è la speranza di poter tra poco rivedere i miei cari.

21 aprile 1945  -  ore 6,30: ultimo attacco alla Gotica.   Al termine di uno strettissimo calanco,  sul Monte Calvo,  sono con Leone (Orioli),  Mario (Capella),  Egidio (Sartorio) ed altri,  tra i quali il nostro cappellano Padre Pomes;  all’improvviso si alzano due soldati tedeschi che Leone subito fa prigionieri.

Il capitanp Moiso,  chissà perchè,  me li affida in custodia.

La Gotica è ormai frantumata   e  ora  è  una  gioiosa  corsa  verso  Bologna,       ove entriamo da Porta Maggiore poco prima delle nove.

La città sembra impazzita, la gente non crede ai propri occhi:  sono italiani, sono i bersaglieri, e tutti a soffocarci di abbracci festosi.

Il maggiore Guercio ordina alla fanfara di dar fiato alle trombe e in piazza Re Enzo squillano le note delle più trascinanti canzone bersaglieresche, in un repertorio terminato, tra le ovazioni, con il  flic-floc   a passo di corsa.

Ma chi mai ritroviamo in Bologna?  Nientemeno che il nostro indimenticato . papà Enea.  che si fa largo tra la calca e viene ad abbracciarci,  nella sua Bologna,  e piange  e  ride   e riesce  a dirci solo  . bravi . bravi .

Sono profondamente commosso e mi sento improvvisamente ripagato di tutti i sacrifici,  le attese,  le delusioni e,  perchè no,  le paure sopportate in silenziosa speranza.

Sostiamo sotto i volti:  io ho sempre con me i due prigionieri che, in verità,  mi sono di fastidioso ingombro.  Uno di loro è giovanissimo, molto alto, con due occhi freddi e il volto cupo: non mi piace. L’altro è molto anziano, biondiccio, mingherlino e fa di tutto per entrare nelle mie simpatie. Parla in modo comprensibile l’italiano e mi racconta della moglie e dei figli, lontani in Germania – è stanco della sua lunghissima vita militare e mi precisa che, come lui,  molti sono i soldati tedeschi stufi e contrari alla guerra. Mi spiega di trovarsi al fronte da poco tempo,  proveniente da un reparto di ausiliari aggregati a una batteria antiaerea a Verona. 

Mi balza il cuore in gola e chiedo ansiosamente maggiori notizie  com’è la città  in che quartiere era . ha conosciuto qualcuno ?  

Ed ecco l’incredibile !

Mi precisa che Verona è semidistrutta dai bombardamenti e che il suo reparto si trovava in periferia,  nella zona della piscina.  

Credo di sognare,  mi sento girare la testa   è proprio lì che abita la mia famiglia   cinque case in tutto tra le quali la mia e una piccola osteria

Mi conferma il tutto,  precisandomi  che, nelle ore libere,  si recava in quell’osteria per assistere a lunghe partite di carte ma allora avrai visto mio padre incalzo io è un uomo mutilato di una gamba

Il tedesco si sbianca in viso, mi stringe forte le mani e mi fa cenno di sì, fornendomi inconfondibili particolari e precisandomi che da qualche mese la mia famiglia si è trasferita altrove,  perchè la casa è stata bombardata. 

Sono frastornato, sbalordito, preoccupato, commosso.

Leone (Orioli),   Mario (Capella) e  altri,  presenti  alla  scena,  mi  abbracciano  con  fraterno  affetto e la notizia si propaga in un baleno tra il reparto.

Il tedesco mi chiede di poter rimanere con noi, ma è purtroppo impossibile. Il giorno dopo infatti viene avviato al vicino  campo di raccolta, dove, nel pomeriggio, secondo promessa, lo  vado a trovare.

E’ appoggiato al cancello e mi fa ampi cenni di avvicinarmi:  è triste e mi fa pena.  Mi prega di accettare un piccolo involucro: è un bellissimo seghetto a serramanico, che ancora oggi  conservo tra i miei ricordi più cari. Gli offro un po’ dei miei pochi soldi  e, col groppo in gola, ci salutiamo    per sempre !

                   . e quello sarebbe stato un mio nemico .

Racconto questo fatto incredibile  - che mai ho raccontato ad alcuno -  perchè so che sono ancora vivi cari amici che ne possono fare testimonianza.

Il 24 aprile raggiungo Verona con un automezzo,  che prosegue con altri bersaglieri della provincia:  appuntamento per domattina.

Trovo la casa distrutta e vengo a sapere che i miei sono sfollati a Illasi, a una ventina di chilometri da Verona.  Mi prestano una bicicletta e, pedalando come un matto, arrivo a Illasi verso sera,  incontro per prima mia mamma,  che sviene per l’emozione: indimenticabile è poi l’incontro con mio padre, che trovo sciupato e invecchiato, e  con  mia  sorella,  che  si  è  fatta una signorinetta. Non c’è più la mia cara nonna.

La mattina dopo, 25 aprile, ripassa l’autocarro e ci avviamo verso Bologna:  strada facendo veniamo a sapere che la  *guerra è finita*:  ci guardiamo in faccia muti, senza una parola e mi sembra che un grosso peso mi si sollevi dall’anima.

Entriamo poi a Brescia e successivamente in Bergamo.  

Raggiungiamo Bellagio, sul lago di Como, da dove, con un grosso barcone, veniamo trasbordati sulla sponda opposta, a Bellano, sede del nostro meritatissimo e sospirato periodo di riposo,  mentre alcuni reparti vengono inviati al confine con la Svizzera.

Riprende piano piano la normalità della vita:  il lago è bellissimo, le nuotate mi ristorano, delizioso è il dolce far niente, le ragazze sono stupende e le notti . intense.

Vengo assegnato all’Autodrappello, in aiuto al capitano Luigi Ghersini, da Pola: irruente, vulcanico e simpaticissimo, che subito mi prende in cordiale benvolere.

Ottobre 1945: ci trasferiamo alla caserma di Corso Italia, in Milano,  dove riprendono le esercitazioni, in funzione dell’ordine pubblico piuttosto compromesso e il *Goito* diventa il XVIII battaglione, per il ricostituendo terzo reggimento bersaglieri.

Viene a trovarmi Rosolo, che si è scarpinata la guerra con un altro Gruppo di Combattimento, da ufficiale: lo rivedo con gioia.

Aprile 1946:  il battaglione accorre per sedare la rivolta scoppiata nel carcere di San Vittore, guidata dal bandito Barbieri. Sono state prese in ostaggio le guardie carcerarie, alcune ferite,  e i rivoltosi si sono impadroniti dell’armeria.

La situazione è critica:  verso sera, assieme ai carabinieri, il nostro plotone arditi riesce  a sedare la rivolta dopo aver sfondato, con un controcarro, il portone  che immette nel braccio in cui i rivoltosi si sono rifugiati in armi.

E il congedo ? 

Non se ne parla!  In maggio ci sarà il referendum monarchia o repubblica e il clima politico-sociale è arroventato.  Si intensifica il servizio di pattuglia e di ronda notturna.

2 maggio:   tira una brutta aria di sommossa e il battaglione si dispone a difesa della caserma: con il mio reparto mi sistemo con una mitragliatrice sul tetto dell’autorimessa. Mi sembra di vivere in un mondo di pazzi.

Agosto 1946: la guerra è terminata da circa un anno e mezzo e finalmente arriva il congedo.

Ritorno in famiglia in una situazione di miseria,  nella quale inizia la mia vita di disoccupato in questua di un impiego. I miei amici, esentati dal servizio militare, o  *sbandati dell’8 settembre*,  hanno tutti un lavoro, qualcuno addirittura esercita attività poco lecite, ma sicuramente lucrose.

Mi sento amareggiato e deluso e penso che la guerra è la più tremenda e inutile tragedia dell’umanità.  Perchè viene fatta?  Perchè qualche dittatore o qualche governo impazzito la dichiara in nome della  Patria e della democrazia e, non appena è terminata, in uno strascico di lutti e di rovine,  ecco i politici a stringere alleanze,  in nome del Paese e della democrazia,  con gli ex nemici, contro gli ex alleati.

E allora, la guerra, se la facciano i politici, i militari di carriera e i volontari .io no.

Ma non è finita.

Nel febbraio del 1955 vengo sorprendentemente richiamato per un corso di aggiornamento. Mi presento a Milano al terzo reggimento bersaglieri comandato dal colonnello Guercio,  già comandante del  *Goito*:  ritrovo il capitano Moiso,  Bocedi, anche lui capitano e altri del vecchio LI°.

Vengo inviato al campo invernale a Onore,  nelle Alpi Orobiche,  sotto la tenda, Sopravvivo al gelo e ai disagi e vengo ritenuto idoneo per la  *Forza di pronto impiego*.  

Ma che cos’è uno scherzo?   Nemmeno per sogno, perchè nel febbraio del 1961 vengo nuovamente richiamato.

E’ troppo! Ho 39 anni, un lavoro, una moglie e una figlia e riesco a farmi esentare.

e tuttora vivo la mia esenzione !

Giovanni Recchi

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